
#IDEE #PAROLE
Di Matteo Santarelli
Nella politica di oggi, il termine “popolo” è al centro di conflitti e dissensi politici. Pensiamo alla seconda proposizione dell’articolo 1 della Costituzione. Il punto di vista di chi esalta la prima parte dell’enunciato – “La sovranità appartiene al popolo” – si scontra con la prospettiva di chi invece pone l’accento sulla seconda parte – “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Da un lato, la supremazia del popolo e della sua sovranità; dall’altro, il primato della forma e delle procedure. Quindi, in breve: popolo o non popolo?
Nel volume La ragione populista il filosofo argentino Ernesto Laclau propone una rivalutazione positiva degli aspetti del populismo e del “popolo” che di solito vengono screditati. Il popolo tiene insieme gruppi e individui che non hanno nulla a che spartire l’uno con l’altro? Ottimo, se questo è l’unico modo in cui le domande di questi soggetti, spesso marginali, possono esprimersi. Il concetto di “popolo” è divisivo? Eccellente, se in tal modo il nemico viene identificato nelle élite che escludono larga parte della popolazione dai processi politici e decisionali. Laclau propone dunque una concezione progressista del popolo e del populismo. Con le parole del politico spagnolo Íñigo Errejón, il popolo è “impossibile e necessario”: impossibile, perché il popolo non esiste in senso stretto, ma viene costruito politicamente; necessario, perché senza il ricorso a questa costruzione sarebbe impossibile mettere in questione lo status quo.
Tutt’altra è la lettura del populismo proposta dal politologo tedesco Jan-Werner Müller. La parola “popolo” serve ai gruppi sociali per poter affermare una pretesa di legittimità esclusiva: “quello che diciamo noi vale di più, perché noi siamo il popolo”. Ma perché Daniela Santanché fa parte del popolo, e un’insegnante precaria umbra no? Perché così è deciso dai rapporti di forza, rafforzati a posteriori dal ricorso alla retorica populista. Inoltre, secondo Müller nel ricorso al “popolo” c’è una fastidiosa pretesa di superiorità morale. Invece di rappresentare la politica per quello che è, ossia scontro tra gruppi sociali, il discorso populista contrappone un popolo buono e legittimo a tutti coloro che non appartengono a tale categoria, e che quindi sono cattivi e illegittimi.
Proprio quest’ultimo aspetto sembra essere l’aspetto più critico delle proposte di lettura progressista del populismo. Sembra infatti che il “popolo” abbia sempre un limite superiore e un limite inferiore. Oltre il limite superiore, ci sono le élites, i gruppi che detengono il potere, il riconoscimento, il prestigio. Sotto il limite inferiore, ci sono i gruppi e gli individui indegni di fare parte del popolo. Questo margine inferiore del popolo crea degli emarginati, ossia gente talmente impresentabile da non rientrare nemmeno nei requisiti minimi imposti dall’identità popolare. Il che pone la domanda: un’idea progressista di politica è davvero compatibile con la fascinazione contemporanea verso questo club esclusivo di massa che è il popolo? Dobbiamo davvero rinunciare a una politica per tutti e tutte?