
#LAVORO #SOCIETÀ
Di Matteo Bartoli
(Addetti avvolgimenti motori ausiliari, fototeca Trenitalia. Foto di F. Scassellati, L’officina locomotiva di Foligno, ed. Viaindustriae/Officina della memoria, 2010)
Incontriamo Ivano Bruschi segretario della filt CGIL nei locali del Dopolavoro ferroviario.
Iniziamo con un pizzico di storia dell’impianto.
«L’impianto, progettato nel 1910 e destinato alla riparazione e manutenzione di veicoli e locomotive delle Ferrovie dello Stato, nasce con qualche ritardo anche a causa della Grande Guerra (che però, a seguito della rotta di Caporetto, confermerà la necessità strategica di un impianto collocato in Italia centrale, lontano dai fronti della guerra). Così, si può dire che la vera produzione parte dopo la prima guerra mondiale, incentrata sulle locomotive a vapore. A ridosso della seconda arriveranno le prime locomotive elettriche. L’impianto è stato poi sostanzialmente in sviluppo costante, quasi esponenziale, fino alla metà degli anni 80. Si parte con un centinaio in organico e si arriva al 1984 con 1400 lavoratori: c’erano pochi appalti perché era tutto più centralizzato, eppure l’impianto portava un considerevole indotto. Quanto al ruolo del comparto ferroviario va detto che, oltre al numeroso personale viaggiante, c’erano il cantiere iniezione legnami, il deposito, la squadra rialzo. All’epoca, complessivamente, vi erano 2500 ferrovieri impegnati in città: il benessere in quella Foligno era garantito dallo Stato».
Poi cosa è successo?
«È successo poco in realtà. La produzione è rimasta prevalentemente invariata a livello numerico, ma l’avvicendarsi delle tecnologie nell’arco del tempo ha liquidato quel modello produttivo. La forte digitalizzazione dei sistemi ha compresso gli organici. L’officina di Foligno dall’84 in poi ha subito un processo inverso rispetto a quello che abbiamo visto, di costante arretramento della pianta organica: ora gli occupati sono meno di 300, un centinaio gli indiretti e 100-150 lavoratori che orbitano nel mondo degli appalti. Questo, insieme ad industria 4.0, ci consegna un problema gigantesco che ora è impossibile non vedere. L’ostacolo non è aggirabile: c’è bisogno di un totale ripensamento dei tempi di lavoro».
Avremo modo di parlarne, intanto vorrei tornare a discutere di quella città che in molti hanno chiamato città della ferrovia. Avevano ragione?
«Accidenti! Quel grande concentramento industriale ha modificato completamente la città non solo culturalmente ma anche fisicamente, attorno allo stabilimento sono nati interi quartieri: le celebri case operaie. Vi si riversarono masse di nuovi operai che dall’artigianato o dalle campagne furono poi impegnati in questo grande complesso industriale, una città dentro la città. Non si trattava di una periferia pasoliniana, in quei quartieri la politica, in particolare il Pci, faceva cultura ed ha emancipato interi strati di popolazione. Non a caso la città fino ad allora ha retto anche sul piano urbanistico, vi era osmosi fra sviluppo industriale e sviluppo socioculturale. Il declino organico che stiamo vivendo ha, di fatto, peggiorato anche questo. Ed ora l’impianto è ad un bivio».

Che bivio?
«O questo impianto cambia e si modella sulle nuove tecnologie oppure si può considerare obsoleto. Stanno cambiando quasi totalmente i materiali rotabili, per fortuna lentamente. I treni a composizione, trainati dai locomotori, vengono gradualmente sostituiti dai treni a composizione bloccata, cioè treni monoblocco il cui locomotore è legato alle carrozze. Per poter lavorare questi treni nell’impianto di Foligno serve un forte investimento infrastrutturale, altrimenti il rischio di chiusura è più che concreto. Le ultime novità su questo fronte sono decisamente positive, sembra che alla sede centrale della manutenzione, a Roma, sia stato deciso di procedere con l’investimento. I tempi sono di due tre anni perché ora il tutto è al vaglio di una commissione che poi articolerà il lavoro e farà partire l’opera. Insisterà nella zona attuale dello stabilimento e dovrebbe essere realizzata con la costruzione di tre appositi binari che alloggeranno questi treni (i Jazz e i Pop). Questo, oltre che essere una garanzia produttiva per i prossimi 20 anni, potrebbe significare anche un’immissione di personale che aumenterebbe i volumi di produzione e che porterebbe nuove forme produttive riguardo alle carrozze, che mai sono state lavorate nell’officina di Foligno. La flotta dovrebbe avere 500 unità, a Foligno se ne potranno riparare 30, massimo 50, in un anno. Essersi candidati a questa conversione produttiva potrebbe essere fondamentale, noi non staremo a vedere».
Le officine, come tu hai detto, sono state importantissime per la città di Foligno. Ma ci sono state anche pagine buie della loro storia? (Vedi l’articolo “Quando la fabbrica smise di uccidere”).
«Certamente. Penso che la vicenda dell’amianto sia degna di approfondimento. Per molte famiglie l’officina ha significato lavoro, quindi vita, ma anche, purtroppo, morte. E’ stata una pagina buia per tutta l’industria italiana, dovuta alla poca informazione prima e all’ignoranza poi, basti pensare che all’Olivetti si metteva l’amianto insieme al talco fra i pulsanti delle macchine da scrivere. Fino a metà anni ‘70 il sistema industriale italiano lavorava con l’amianto. Purtroppo anche all’interno dell’impianto lo si lavorava, ma anche grazie all’intervento di Medicina Democratica molto venne alla luce e alla fine si mise in sicurezza la produzione. Però il danno ormai era fatto, ed era un danno serio, perché all’epoca i treni erano interamente coibentati con l’amianto e il rischio di venire a contatto con le particelle era particolarmente elevato. Si procedette con la lavorazione in camere stagne e con la bonifica dello stabilimento per limitare al minimo le contaminazioni, il binario “A” e il binario “S” vennero riconvertiti e i lavoratori dotati di casco a ventilazione forzata. Ancora oggi, ad intervalli regolari, tutti i lavoratori devono sottoporsi a delle visite preventive».
C’è una stima delle morti a causa dell’amianto?
«No, ma c’è un bellissimo libro sull’ogr di Bologna che riporta delle stime trasportabili anche qui. Ma considera che è molto difficile avere contezza del problema perché l’incubazione del tumore da amianto può durare venti anni, le fibre sono invisibili ad occhio nudo e anche dopo la bonifica non si può essere puliti al 100%. Basti pensare che l’amianto fuoriusciva anche dallo stabilimento e le mogli degli operai che lavavano le tute ne respiravano una dose consistente. Ancora oggi arrivano notizie di morti per amianto, eppure da metà anni 80 si è proceduto all’espulsione sistematica da ogni produzione».

Cosa diresti alla politica?
«Di interessarsi di più alla riconversione dei modelli produttivi. In Italia solo il 5% delle merci si sposta su rotaia e questo, oltre che inquinare, mette in pericolo la vita dei camionisti e di chiunque viaggi su asfalto. I dati dicono che il treno è il mezzo più sicuro, più dignitoso per i lavoratori e meno inquinante, gli incidenti che ci sono avvengono solitamente su tratte private, proprio perché lo Stato è assente da anni. Vogliamo reinternalizzazioni, rispetto dei contratti e investimenti strategici: questo dico alla politica».
Se arriveranno queste infrastrutture alle ogr di chi sarà merito?
«Anzitutto mi prendo un merito: grazie al lavoro dei sindacati siamo uno degli stabilimenti con meno esternalizzazioni in tutto il Paese. Ma è grazie ai lavoratori se ora abbiamo delle speranze: 10 anni fa eravamo in fondo alla classifica di produttività, le ultime tabelle invece ci vedono in cima. Questo fa ben sperare per il futuro».
