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Sant’Eraclio, viaggio nel campo dell’abbandono

Torniamo indietro al nostro primo numero e allo scorso agosto, quando quattro dei nostri redattori si sono recati al campo sinti di Sant'Eraclio. In questo articolo, la nostra direttrice ci offre uno squarcio della "città invisibile" e, attraverso lo sguardo di Anna, ci racconta le condizioni oggettive di emarginazione, degrado e di abbandona in cui versa quell'angolo di Via Pozzo Secco.

#CENTROEPERIFERIE #CITTÀINVISIBILE
Di Susanna Minelli, Alessandro Sorrentino, Lorenzo Massini, Lorenzo Monarca

(In foto: un’ immagine delle abitazioni di Via Pozzo Secco, foto di Alessandro Sorrentino)


Si chiama Anna. Ma se avesse un altro nome non cambierebbe nulla in lei. Lei è figlia del vento. Una Khorakhanè nell’immagine, citando De Andrè, se non fosse che lei tiene a sottolinearlo una e più volte: “Sono cristiana, siamo tutti battezzati qui, siamo figli di Dio”, al contrario dei Khorakanè che sono musulmani. Sono un intercalare queste frasi, spezzano i discorsi di volta in volta, un’estrema e inutile giustificazione di ciò che si è, della propria emarginazione, del proprio vivere ai margini: nella città invisibile. Quella che si sovrappone alla nostra città concreta, reale, in vetrina. Quella che si sovrappone alla città degli eventi, della socialità, della “movida”. Una città, la prima, che è una coltre invisibile che si posa senza far rumore sopra l’altra città, quella visibile. Eppure quando si posa sa farsi sentire in altro modo. Fra atti concreti e pregiudizi. Fra episodi reali e voci di quartiere strozzate che si sovrappongono creando realtà inesistenti eppure credute, composte da racconti parziali ricuciti dai fili di ciò a cui fa più comodo credere. 

Ci rechiamo in via Pozzo Secco in una mattina di agosto inoltrato. Il sole batte sulle lamiere. Il calore sa far tesoro di questo luogo, il famigerato “campo rom” di Sant’Eraclio. Eppure, una fra le più giovani dei suoi residenti, la figlia di Anna mi corregge quando parlo di “campo”: “Questo è un terreno. Il terreno che mio padre ha comprato regolarmente trent’anni anni fa”. Le carte, le danno ragione. È  loro il terreno. Un terreno che fa parte della città invisibile e in cui fino al marzo scorso vi erano diversi fabbricati in muratura. Abusivi. Che gli abitanti dell’area avevano attrezzato con servizi igienici, doccia, cucina e letti. Fabbricati che a seguito di un atto approvato dal consiglio comunale dell’ultima amministrazione Mismetti sono stati demoliti. I proprietari, tutti di etnia e cultura Sinti, non hanno opposto nessun tipo di resistenza. Poi la proposta di alloggi popolari da parte del Comune. L’ipotesi, quella di una sistemazione in alcune case popolari nella frazione di Annifo. La comunità Sinti rifiuta. Preferiscono vivere dove hanno sempre vissuto. Senza nemmeno le comodità minime. Senza doccia, senza bagni, senza cucina.  Ci confessano che per farsi la doccia si procurano dei secchi d’acqua lavandosi all’aperto. “Non abbiamo auto a disposizione e vivere in montagna per noi sarebbe difficile. E poi, lontano dalla città, dai servizi, come facciamo? – dice Anna, la donna più anziana dello stanziamento – Abbiamo rifiutato. Poi, da quando abbiamo saputo, che gli abitanti del paese non ci volevano, ci siamo resi conto che forse è stata la scelta migliore rifiutare. La gente è razzista, ci tratta come se fossimo bestie. Ci allontanano per strada. Siamo, invece, esseri umani. Siamo cristiani, siamo italiani, siamo battezzati”. Anna, figlia di giostrai, ritorna sul discorso dell’identità.

Aggiunge, però, stavolta, di essere italiana. La sua famiglia, e quella di suo marito, è italiana da generazioni. Forse sono secoli che i loro avi vagano per la Penisola. Lì immaginiamo nei loro carri, trainati dai cavalli, immaginiamo le collane di medaglie delle loro donne che brillano al sole. Le loro gonne variopinte. Ma è solo un momento. Il mondo incantato e selvaggio degli zingari, raccontato dalla tradizione e dalla letteratura, svanisce. Ciò che ci troviamo davanti non ha nulla di incantato, se non lo sguardo di Anna. Che si incanta parlando delle sue origini, di come la sua stirpe sia abituata a perdersi e rincontrarsi, figlie giovanissime che abbandonano la famiglia stanziata in un qualche luogo imprecisato della pianura padana per seguire il proprio giovane sposo, Sinti piemontese, verso l’Umbria. Ma anche per lei è solo un attimo. Le roulouttes fatiscenti in via Pozzo Secco parlano d’altro. I rifiuti, le lamiere accatastate, i teloni utilizzati alla meglio per ripararsi dal sole, parlano di altro. Parlano di una realtà ai margini, dimenticata, ignorata, degradata. Anna ci offre un caffè. Ce lo porta sua nuora. Ci apre un piccolo album di fotografie. “Vi faccio vedere i miei nipotini. Vedete quanto sono belli? I figli di mio figlio. Glieli hanno tolti i servizi sociali. Capite? Per me è una grande pena”. Anna si commuove. Il caffè è caldo, è buono, zuccherato. “Qui si vive male. Altrove se si è zingari, anche peggio. Le mie due figlie si sono trasferite in Sardegna – racconta Anna – Hanno trovato un lavoro, hanno cercato di affittare una casa per far star meglio i loro figli, ma i padroni dell’abitazione le hanno rifiutate appena hanno scoperto qual era la loro origine”. E di alloggi popolari si parla. Gli chiediamo se dopo le varie diatribe con il Comune per una loro sistemazione alternativa, loro sono davvero convinti di trasferirsi da via Pozzo Secco. “Certo – rispondono Anna e Fiorello, suo marito – Abbiamo partecipato anche al bando regionale degli alloggi popolari. Lo faremmo anche subito di trasferirci, basta che sia in città”. È l’ultima domanda che facciamo. Il sole picchia. L’ultimo sguardo è per il fornelletto da campeggio, arrugginito. Ci salutano, ci dicono di tornare presto. E se possibile aiutarli con qualche piccola donazione di cibo e vestiti. Fatichiamo a scendere dal campo. Occorre fare lo slalom tra pietre e rifiuti. Torniamo a pensare che le condizioni in cui vivono sono oggettive. Nessun inganno. Ed era questo lo scopo della nostra prima tappa della città invisibile. Abbiamo  voluto cercare di raccontare ciò che loro raccontano. Abbiamo accolto la loro voce e l’abbiamo trascritta per quello che sentivano di raccontarci. Rappresentare la loro realtà per come la vivono e la percepiscono era il nostro fine. Nient’altro. Lo stato di degrado inaccettabile però è oggettivo. E nel 2019 è intollerabile che esseri umani vivano così, in una città, come Foligno, che in più di un’occasione si è dimostrata essere dedita alla solidarietà e al prossimo . Ma la missione con i Sinti di Sant’Eraclio non è riuscita. Vuoi per pregiudizio, vuoi per difficoltà, il quadro che si pone in via Pozzo Secco è devastante. Torneremo a Sant’Eraclio per dare la parola agli altri, la città visibile.

Articolo pubblicato in Sedicigiugno, ed. Settembre/ Ottobre 2019

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