
#SOCIETÀ #CHIVAECHIVIENE
di Rinor Marku e Silvio Impegnoso
(In foto: Rinor Marku)
Ho tre anni e mezzo: vengo a Foligno dalla Macedonia, con mamma, papà e una valigia. Con l’aereo però, niente gommone. Non ricordo bene perché proprio UNA sola valigia (per tutti e tre), però era molto grande. Papà era già stato qui per due anni a lavorare, poi è tornato ed ha preso mamma e me (e la valigia). Non sapeva esattamente come sarebbe andata, quindi per il momento le mie due sorelle sono rimaste con nonna. Io invece sono andato con loro, solo perché ero il più piccolo, mica per altro.
Nel ’92 eravamo una delle prime famiglie di immigrati a Foligno, nel nostro condominio l’unica. Del palazzo ricordo la signora Lidia, bassetta e sempre sorridente, con la gonna e gli occhiali grandi, che mi regalò il mio primo tamburo per Natale; la signora Ginevra: il mio primo pranzo fuori casa, la stessa che mi regalava i vestiti di suo figlio Saverio e che a volte veniva a casa nostra portandoci in regalo qualcosa da mangiare avendo sempre premura di chiedere: “ma questa, VOI, la potete mangiare?”; il signor Francesco, disabile in carrozzina che mi mandava a chiamare dalla sorella Lala per insegnarmi a giocare a briscola. Non mi sentivo diverso da nessuno, grazie a loro per me era tutto naturale. Unica nota stonata della mia infanzia è il non essere stato ammesso ai boy scout perché non battezzato. Alle medie però ho recuperato grazie al calcio che, come si sa, unisce. Giocavo nel ruolo di stopper e per due stagioni sono stato anche capitano, mi dicevano: “marca quello, non deve passà”. In quel periodo per la prima volta ho visto dei punk. Giravano con dei moschettoni, le converse ed erano tutti pieni di tatuaggi. Le scarpe non avrei saputo dove prenderle, ma il moschettone ce l’avevo. Per i tatuaggi era ancora presto.
In primo superiore il mio amico Alessio mi ha fatto ascoltare i Green Day, ma il primo disco che ho comprato da solo, con i miei soldi, è stato “The Clash”. Lo misi nello stereo delle mie sorelle (che già da qualche anno erano arrivate a vivere con noi), era qualcosa di strano, qualcosa che non capivano tutti, grezzo, forte. Mi ha catturato…non saprei nemmeno dire il perché. Sopra al mio letto, vicino al poster di Ronaldo e alla sciarpa del Foligno Calcio, iniziavano ad esserci dei disegni che facevo ispirandomi ai nomi dei gruppi punk, sotto forma di graffito. Mi sono appassionato al writing, iniziando a fare qualche esperimento sui muri anch’io, guidato dai più grandi.
Mio papà in Macedonia era un professore di liceo, ma qui faceva l’imbianchino. L’estate non si andava a scuola e lui voleva che gli dessi una mano a lavoro. I soldi però potevo spenderli come volevo. Così sono riuscito a comprare la mia prima batteria, il massimo che potevo permettermi era una Mapex blu. C’erano poche persone che ascoltavano la mia stessa musica, quindi è venuto automatico formare un primo gruppo, i Bad Scouts (una piccola rivincita personale…), ma non è durato molto. Poi sono nati Li Camp, quello che ho percepito come il mio gruppo più importante in assoluto. In verità non facevamo niente di particolare, provavamo semplicemente a dire quello che pensavamo, che sentivamo…provavamo delle emozioni belle. Secondo qualcuno ci serviva solo per provarci con le ragazze. Ma per la prima volta ci sentivamo qualcuno, chissà poi per quale motivo. Abbiamo registrato due dischi, il genere però non era molto capito dalla gente e alla fine il gruppo si è sciolto.
Un giorno mi è arrivata una telefonata dal mio vecchio amico Alessio: “Bella Rì, siamo in una festa dentro a un albergo de un ricco. Stamo a buttà su un gruppo. Saremmo io, te, Tocci, Lombricos e Possanzini. Che dici?” Da lì nacquero i Gattuzan, un misto di sei “capocce” diverse, ognuno con la sua identità, ma non si sa per quale motivo funzionava. Inaugurazioni, feste private di americani, concerti in tutta Italia, vinciamo ArezzoWave e andiamo in Francia a suonare coi Placebo… per una volta girava anche qualche soldo, e riusciamo a registrare un disco in uno studio importante. Mi chiedevo “Ma che ca**o stà a succede?”. Alla fine, però ci siamo trovati davanti ad un bivio: vendersi o non vendersi. E come la maggior parte delle volte, se non ti vendi sprofondi… almeno per il momento.
Volendo lavorare nell’ambito del sociale sono andato a parlare con la cooperativa La Locomotiva. La presidente mi ha detto: “Ma se ti mandassi a lavorare con i tossicodipendenti, i bambini disagiati o al campo rom?” “Certo, non c’ho paura di niente, sono pure amici miei…” “Che diploma c’hai?” “Niente c’ho il secondo superiore” “Eh, allora vai a prendere un diploma e poi vediamo”. Il diploma l’ho preso e tre anni dopo sono stato assunto. Mentre lavoravo nella casa-famiglia di disabili Il Melograno, grazie a Young Jazz e Giovanni Guidi, ho visto nascere LiberaOrchestra, una big band di musicisti che integra disabili, normodotati e professionisti del jazz.
Da tempo avevo iniziato a farmi tatuare. Quando tornavo a casa, cominciavo a provare dei miei disegni. Non avrei mai pensato di fare il tatuatore, ma i miei amici continuavano a spingermi a provare. I primi tentativi li ho fatti su di me… e su di loro! Poi ho iniziato a formarmi in qualche studio in giro per l’Umbria e grazie ad alcuni maestri sono arrivato a conoscere i migliori tatuatori in Inghilterra, Francia e Germania. Dopo qualche anno di formazione uno dei miei maestri, il più importante, mi ha detto “Adesso è il momento che ti devi lancià”. Così ho cominciato a tatuare nella mia città. Le prime volte c’erano gli amici, dopo di loro hanno iniziato a volere un tatuaggio delle persone che non vedevo da molto tempo: dal veterinario del mio cane Rolly, ad un vicino che viveva nel mio stesso condominio, a quelli che giocavano a pallone con me, agli Ultras del Foligno, alla maggior parte delle persone con cui ho suonato, al mio amico Silvio de Li Camp come regalo di laurea.
Sottopelle ho una scritta “antiracist”, il logo de Li Camp, un cuore in omaggio a Foligno, un melograno in ricordo della casa-famiglia i cui chicchi rappresentano tutti i suoi ragazzi e un’aquila: mio padre (in Macedonia l’aquila è l’animale per eccellenza).
Quando mi vede senza maglietta, mia madre mi dice sempre: “Ma do’ vai a fa’ lo sgaggio con tutti ‘ste scritte addosso? Ricordate sempre che sei venuto qua con UNA sola valigia. E poi adesso c’hai pure trent’anni, te devi sposà… chi te se pija co’ tutti ‘sti disegni? Me pari un mappamondo. Se continui così dovrai prenderti una coi baffi, o con tre occhi”. Lei è la persona migliore che abbia mai conosciuto, di sicuro quella che più di tutti vorrei tatuare.
Spesso qualcuno mi dice che sono più italiano io di lui che è nato in Italia. Ogni tanto invece mi capita di parlare con persone che manifestano qualche pregiudizio verso gli immigrati. Io sto al gioco fino alla fine, ma poi dico sempre: “Guarda che sono arrivato qui dalla Macedonia a tre anni e mezzo, su un aereo, con mamma, papà e UNA sola valigia”.
“Dovresti proprio conoscere Rinor”, mi dicono. Ho 15 anni e prendo due volte alla settimana il pullman per percorrere la tratta Norcia – Foligno. Il mondo del paesino dove sono cresciuto, dell’oratorio e del gruppo di Dungeons and Dragons, cominciava a starmi stretto. Sentivo la voglia di conoscere i “ragazzi di città” e di coltivare le mie aspirazioni punk-rock (all’epoca volevo ancora fondare una band e diventare una grande rockstar). Quando finalmente incontro Rinor, gli parlo della mia idea di formare un nuovo gruppo punk: lui aveva da poco sciolto il suo. “Che sai suonare?” mi fa lui, “Un po’ la batteria” “Ah, ma la batteria la suono pure io. Servirebbe il basso” “Ma non sono capace” “Vabbè non è un problema” “Ma non ce l’ho” “Vabbé ce lo facciamo prestare”.
Alla fine la band la fondammo veramente, ci chiamavamo “Li Camp”, riprendendo il nome dal film “La guerra degli Antò”.
Se ripenso alla mia adolescenza ho una serie di immagini ricorrenti. Rinor ed io che ci avviamo alla sala prove in biciletta, sotto la neve, su viale Roma. Rinor ed io che facciamo sega a scuola e ci ritroviamo agli Orti Orfini a giocare a Risiko. Rinor ed io che ci facciamo due chiacchiere prima di tornare a casa, seduti in riva al fiume. Rinor ed io che suoniamo insieme ad un concerto da Beddini. Rinor ed io che dormiamo per terra in una cantina prestataci da alcuni amici durante Arezzo Wave, o per terra in un prato avvolti in uno striscione, dopo un concerto dei Lagwagon. Io e lui che festeggiamo i nostri 18 anni insieme, che usciamo con le prime ragazze, prendiamo le prime sbronze. Rinor che mi aspetta seduto sulle scalette, con una birra in mano. Quest’ultima immagine, in particolare, è quella che colpisce di più la mia memoria. Da allora in poi (ed è ancora così), ho sempre avuto la certezza che su quelle scalette mi avrebbe aspettato sempre e che mi avrebbe sempre guardato le spalle. Che quella Peroni sarebbe sempre stata divisa per due.
Ascolto consigliato: The Clash – Know Your Rights