
#SOCIETÀ #LAVORO
Di Matteo Bartoli
(In foto: portale online del reddito di cittadinanza)
Ci siamo posti questa domanda e, dopo un po’ di ricerche, ci siamo anche dati una risposta. Abbiamo consultato alcuni dati dell’istituto di ricerche economiche e sociali della CGIL umbra (ires) e dell’osservatorio su reddito e pensioni di cittadinanza dell’INPS, e questo è ciò che ne è venuto fuori.
Ma, prima di iniziare a parlare dei dati, è intellettualmente onesto dirvi cosa ne pensa chi scrive. Il reddito di cittadinanza nasce da una complessa concausa di motivazioni che sarebbe riduttivo, anche se utile, stare qui ad elencare. Quel che ci interessa dire è che si tratta di una concreta forma di redistribuzione di ricchezza verso il basso della società. E’ infatti impossibile non constatare che si tratta della più consistente operazione redistributiva dalla crisi del 2008 ad oggi. Il bilancio dello stato dice questo, ma i risultati?
Al 6 dicembre 2019, secondo i dati inps, 890mila nuclei ovvero 2 milioni 300 mila persone usufruiscono del sussidio per una media di 522 euro. Di questi 890mila nuclei, 790mila fanno capo ad un cittadino italiano per 526 euro mensili medi, 35mila a cittadini europei per 506 euro, 55 mila a cittadini extracomunitari per 463 euro e 10 mila ai familiari delle sopracitate categorie per 496 euro. A questi vanno aggiunti i 125mila nuclei beneficiari della pensione di cittadinanza, circa 140 mila beneficiari per 219 euro medi. In totale si arriva ad un milione di nuclei e quasi 2 milioni e mezzo di persone coinvolte, molte meno delle stime ma comunque circa 43 volte la popolazione di Foligno. Fra questo milione di nuclei, 367mila hanno minori in carico e 210mila hanno disabili in famiglia.
Dunque numeri considerevoli, specie se paragonati ai 201mila nuclei mensili -un milione di persone toccate in totale- beneficiari del rei dal gennaio 2018 al giugno 2019 per 293 euro di media.
In Umbria sono state 18’803 le domande totali: 11’416 le domande accolte, 602 le decadute, 1308 quelle in lavorazione e ben 6079 quelle respinte o cancellate (1,4% del dato nazionale a dispetto dell’1,1% delle domande totali). Le 11’416 accolte sono 8032 in provincia di Perugia e 3384 in provincia di terni. Sono 22’206 le persone interessate dal reddito di cittadinanza e 1651 quelle interessate dalla pensione per un totale di 23’857 per 452 euro medi, poco sopra la media delle regioni del centro (448 euro).
Per avere coscienza della questione è utile rendere noto che il 24,4% dell’importo è erogato al nord, il 15,2% al centro e il 60,4% al sud e nelle isole; rispettivamente per 417 euro mensili al nord, 448 al centro e 518 al sud.
Venendo al territorio folignate bisogna fare riferimento ai dati dell’ires CGIL che, pur essendo meno recenti di quelli nazionali dell’inps, palesano alcune tendenze.
Anzitutto è bene ricordare la situazione del sistema locale del lavoro di Foligno, sempre dai dati CGIL: su 6 comuni per 85’300 abitanti sono 33’800 gli occupati, 37’200 gli inattivi e 3300 i disoccupati. Il tasso di disoccupazione è circa al 9% e gli inattivi sono più degli occupati a differenza dei sistemi del lavoro di Perugia, Città di Castello e Assisi.
L’ires ha elaborato, sulla base dei dati InfoData, la situazione nei vari comuni dell’Umbria. Riferendosi al totale delle richieste accolte e rapportandole ai disoccupati fra i 15 e i 64 anni che non hanno presentato la dichiarazione dei redditi, si è scoperto che l’incidenza media del reddito di cittadinanza è solo in pochissimi comuni sopra la media nazionale che è al 6,02%. Questi comuni sono 10 su 92, tutti appenninici tranne Attigliano, Terni al 7,03% e Foligno al 6,65%. Il primo è Valtopina a 8,5%, Nocera è quarta al 7,09% -qui pesa molto la chiusura della merloni-. Foligno invece è il sesto comune dell’Umbria con 964 domande accolte, anche se, tenendo conto degli altri comuni che gravitano attorno alla città, la media si abbassa verticalmente.
Sulla base di questi dati possiamo avanzare qualche considerazione. Tenendo conto che, secondo le stime dell’ufficio parlamentare di bilancio in Umbria gli aventi diritto sarebbero dovuti essere circa 34mila, si può notare una farraginosità kafkiana dello strumento. Specie se si considera che le persone cui è stato trovato lavoro con il rdc rasentano l’errore statistico, è stato un errore di sufficienza non far passare il tutto per i servizi sociali dei vari comuni, inserendo la bizantina figura del navigator precario che deve trovare lavoro a tempo indeterminato ai beneficiari del sussidio. Senza poi entrare nel ricatto di dire “se non accetti questi 3 lavori ti tolgo il sussidio”, che quasi è un bene non si stiano trovando questi milioni di posti di lavoro. Questa impostazione è simile a quella del piano hartz IV che è stato perno della precarizzazione del lavoro portata dal socialdemocratico Schroder in Germania. La riforma in Germania, pur riducendo la disoccupazione, tende a precarizzare e a far cadere i lavoratori in un circolo vizioso da cui è molto difficile uscire, sicchè in molti sono costretti ad accettare lavori per loro difficili o distanti onde non perdere il sussidio e quindi finire in povertà assoluta. In merito a questo, legare lotta alla povertà e lotta alla disoccupazione, potrebbe non risolvere né l’una né l’altra. Si rischia di non permettere una vera emancipazione dalla propria condizione, oltre che non tener conto di tutti i cosiddetti “working poors” cioè i lavoratori poveri in costante crescita, coloro che pur lavorando -magari a basso salario e\o con contratto atipico- non riescono ad arrivare alla fine del mese. Come non parlare poi del fatto che per accedere al reddito c’è bisogno di avere un domicilio, questa particolare fattispecie esclude dal beneficio praticamente tutti i senza casa, ovvero coloro che più avrebbero bisogno di assistenza. I dati più recenti (istat 2014) dicono che in un mese circa 50mila persone hanno usufruito dei servizi per senza casa, anche se il numero è probabilmente sottostimato. Il presidente INPS Tridico ha parlato di un accordo tra direzione INPS del Piemonte e comune di Torino per bypassare il problema coinvolgendo 3000 persone, ma la strada per l’universalità piena, con queste norme, resta il salita. Se poi la motivazione ultima del legislatore era trainare i consumi e dare assistenza alle fasce più colpite del sistema, resta davvero inspiegabile l’ipocrita norma contro i consumi “non etici”, norma non prevista dal rei che permetteva il ritiro di contanti fino ai 240 euro mensili. Si è ancora più perplessi se si pensa alle ore di prestazione sociale che si dovrebbero svolgere qualora fossero attivate dai comuni di residenza, come se lo stato di bisogno fosse una colpa dalla quale discolparsi.
Tirando le somme, si può dire che il rei era uno strumento più ben fatto, che dava una risposta concreta alla povertà assoluta e che lavorava di sponda coi servizi sociali comunali, ma era sottofinanziato e non arrivava a moltissime altre povertà. Il rdc invece è ben finanziato ed allarga la platea ma è malfatto, quasi come l’obiettivo non fosse “abolire la povertà”.
Sarebbe da pensare bene del nuovo governo, punto di incontro di queste istanze e invece continuiamo a rimanere prigionieri di una politica vuota di contenuti e piena di rappresentazioni propagandistiche.
Questo il commento di Mario Bravi della CGIL “i numeri e i dati nudi e crudi confermano la validità delle proposte della CGIL prodotte in questi mesi con l’obiettivo di affrontare il tema della povertà e delle disuguaglianze crescenti. Inoltre il tema centrale del lavoro esige una politica di investimenti pubblici e privati di cui non c’è traccia”.