
#SOCIETÀ #CHIVAECHIVIENE
di Margherita Angelucci
(In foto: Margherita Angelucci)
Ci sono tre problemi principali nel modo in cui i media italiani presentano l’emigrazione di oggi.
Il primo è che la maggior parte delle storie che si leggono sui giornali sono strutturate in base allo schema “In Italia era così, qui invece…”. Il racconto non è mai a 360 gradi ma sempre parziale. Qual è l’obiettivo, ci si chiede? raccontare l’emigrazione o “sgridare” l’Italia? In entrambi i casi, ci sarebbero modi più costruttivi per farlo.
Il secondo problema è che l’emigrazione è quasi sempre raccontata attraverso storie personali, e questo rende la narrazione un esercizio aneddotico più che un’approfondita analisi del fenomeno. Se il percorso per ottenere il visto permanente in Australia viene sintetizzato in “Diploma, certificato medico, esame d’inglese, pochi altri documenti, e il visto fu accettato” (questo il titolo di un recente articolo sulla delle maggiori testate italiane), si cancellano le storie di chi (ed è la massa) da anni suda per cercare di ottenerlo, questo visto permanente. Le storie personali sono più umane, e attirano più click ma i grandi numeri sono indispensabili per spiegare un fenomeno che coinvolge centinaia di migliaia di italiani.
Bisognerebbe, infine, raccontare storie di partenza ma anche storie di ritorno. La nostra è stata spesso chiamata la Generazione Erasmus. Siamo stati abituati a partire, per imparare una lingua diversa, studiare o fare qualche lavoretto. Muoversi, soprattutto per chi sceglie l’Europa, non è un big deal e spesso il Paese dove ci si sposta non è una meta finale, ma solo una tappa per poi salpare altrove, oppure tornare a casa. Raccontiamo allora anche di chi è tornato, magari perché all’estero non è andata così bene. Raccontiamo anche le esperienze negative e facciamo in modo che il rientro non venga vissuto come un fallimento, ma come un primo passo per contribuire al futuro dell’Italia.
L’emigrazione fa parte della natura umana. Ma i numeri attuali ci suggeriscono che dall’Italia le persone non se ne vanno solo per scelta e spirito di avventura. Bisogna allora capire che cos’è che spinge tanti, soprattutto giovani, a lasciare il proprio Paese. Cosa cercano all’estero che in Italia non trovano? Che misure potrebbe mettere in atto l’Italia per farli rientrare? E noi ragazzi emigrati, cosa possiamo offrire all’Italia dopo tanti anni all’estero? Alcune regioni avevano iniziato dei progetti in questo senso ma che ne è stato di loro? ‘Brain Back Umbria’, ad esempio, doveva essere un progetto di sei anni (dal 2014 al 2020) ma gli ultimi aggiornamenti risalgono al 2015. Non basta proporre un bel progetto per prendere i fondi europei, bisogna anche farlo arrivare ai potenziali beneficiari e portarlo avanti fino in fondo. Altrimenti è un ulteriore spreco di soldi e la conferma dell’idea che “dell’Italia non ci si può fidare”. Anche la definizione “cervelli in fuga” ci sta stretta. Non si emigra portandosi appresso solo il cervello, ma anche la pancia, il cuore, le gambe, ogni parte di noi. Io, ad esempio, sono più un cuore in fuga che un cervello in fuga, ma oggi sono una dottoranda e vedo che nel campo della ricerca andare all’estero è un passo naturale per chi vuole continuare la carriera accademica. Tuttavia, nell’emigrazione italiana di oggi non ci sono solo accademici e globalisti, ma anche tante persone per cui spostarsi è una scelta semi obbligata.
Dovremmo pensare al rientro non come fallimento, ma come passo per tornare a contribuire al futuro del nostro paese.
L’esperienza migratoria va a fasi. C’è lo slancio iniziale in cui non si pensa minimamente a guardarsi indietro. Poi arrivano momenti in cui anche la vita all’estero diventa vita quotidiana, con la sua routine e le sue magagne. Ci sono i rientri e le contrastanti emozioni che si provano ogni volta: l’amarezza di dire arrivederci a chissà quando a parenti ed amici ma anche il sollievo di sfuggire a tanti problemi perché si vive dall’altra parte del mondo. È egoismo? Va bene così? Dipende. Il ritorno è presente nelle mie riflessioni (quasi) quotidiane. Sento dire che oggi non è come una volta perché è facile sentirsi, è facile vedersi, i trasporti sono più abbordabili, però tutt’oggi non si vive più la quotidianità di chi si lascia nel proprio Paese, i legami si modificano e sentirsi per telefono e vedersi una volta ogni 1-2 anni permette di nascondere tante cose. Come un migrante arrivato a Melbourne nel 1950 mentiva sul fatto di essere finito in un Paese sperso nel nulla a vivere in una casa di lamiera per non ammettere neanche a se stesso di aver commesso uno sbaglio, anche oggi molti nascondono i lati negativi della loro esperienza per non sentirsi gli unici che sono andati all’estero e non ce l’hanno fatta. Tanti sono insomma gli aspetti su cui gettare luce: perché non chiedersi quali altre motivazioni, oltre al lavoro, spingono gli italiani ad emigrare? Qual è la condizione psicologica che li accompagna prima della partenza? Quali le sfide di lasciare il Paese di origine e ricostruire la vita altrove? Come vengono gestiti a distanza i rapporti familiari e di amicizia? Che rapporti rimangono con l’Italia? Ovviamente è molto diverso decidere di partire per sei mesi oppure lanciarsi in un’avventura che (almeno nei programmi) si vuole definitiva. Gli accorgimenti pratici sono gli stessi (informarsi sul mondo del lavoro, su diritti e doveri, sul sistema sanitario e di welfare, sulla rete istituzionale italiana presente in quel Paese, ecc.) ma il carico psicologico è molto diverso. E non ci si può preparare in anticipo, sono cose da vivere sulla propria pelle. È bene però partire consapevoli, pronti ad ascoltarsi e ad essere onesti con se stessi per capire che cosa dell’esperienza all’estero sta funzionando e che cosa invece non fa per noi.
Anche le istituzioni giocano un ruolo: sarebbe importante fare in modo che i cittadini non partano allo sbaraglio con il rischio di finire vittima di sfruttamento o altri abusi, ma al momento questi servizi sono lasciati per lo più ad agenzie private o ad associazioni di volontari. Un altro impegno concreto potrebbe essere quello di facilitare una migrazione di rientro, il che sarebbe un grandissimo vantaggio per il Paese. Personalmente, se ci fossero le giuste opportunità di lavoro, sarei più che disposta a tornare: credo che molte delle capacità acquisite in Australia (in primis, la capacità di adattamento e l’apertura mentale verso culture e modi di fare differenti) possano essere utili anche lì.