
#SOCIETÀ #LAVORO
di Lorenzo Monarca
Sembra una cosa assurda, eppure anche quella del ricercatore è una professione. In una società dove pare ormai normale guadagnare come youtuber o come influencer, la ricerca scientifica è vista più come un hobby, e questo a cominciare dalla mancanza di strumenti normativi che ne identifichino in maniera univoca lo status, per poi proseguire con il sentire comune spesso lontano dalla realtà. In questo contesto l’università è una specie di giungla dove diventa sempre più difficile sopravvivere. La professione del ricercatore si è gradualmente trasformata in un misto tra lavoro pubblico, lavoro privato e libera professione, con gli svantaggi di ciascuna categoria; insomma, citando Montale, “codesto solo, oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Nel tentativo di garantirsi un sostentamento, ogni concorso è truccato e ogni bando è fatto su misura di chi lo deve vincere: ogni borsa di studio, ogni assegno, ogni dottorato finisce esattamente dove deve finire. È l’ennesima guerra tra poveri generata, oltre che da questa giungla normativa, anche dalla più totale inadeguatezza di risorse.
Per capire in maniera più chiara quanto sia difficile e in qualche modo anche rischioso il precariato nella ricerca, ci avvaliamo dell’esperienza di due giovani ricercatori: il folignate prof Bernard Fioretti e la perugina prof.ssa Hovirag Lancioni. Entrambi sono da pochi mesi usciti da una spirale di precariato lunga circa vent’anni riuscendo ad ottenere un posto da ricercatore di tipo B, l’anticamera della qualifica di professore associato. Il prof Fioretti, docente di scienze della nutrizione, si è laureato nel 2000 in chimica farmaceutica, e dopo un decennio di attività di ricerca presso l’attuale Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie ed il conseguimento del dottorato di ricerca, ha trascorso del tempo in presso il Max Planck Institute in Germania e presso l’università di Padova. Nel 2015 il MIUR ha messo in campo i SIR, dei finanziamenti d’eccellenza che puntavano a creare dei percorsi di indipendenza scientifica. Tra i 10.000 partecipanti il prof Fioretti è risultato uno dei 144 vincitori, di cui in Umbria solo 4: “I vincitori dei fondi SIR – racconta – rappresentavano un gruppo di persone sul quale il governo voleva continuare ad investire, quindi sono usciti dei decreti che tendevano a dare continuità al loro percorso, stabilizzandoli con un contratto di tipo B. Per me è andata effettivamente così, ma non sempre quei decreti sono stati rispettati e ci sono state altre persone meno fortunate che non ce l’hanno fatta e hanno dovuto lasciare. Siamo stati una generazione sfortunata in quanto vittime della legge Gelmini che ha smantellato la figura del ricercatore ed ha cancellato il turnover generazionale. Abbiamo dovuto vivere da ricercatori senza esserlo, faticando il triplo, senza avere la stabilità necessaria per mettere su famiglia o comprare casa in maniera tranquilla”. Nei suoi primi anni di ricerca ha passato lunghi periodi, anche di anni, in cui non ha percepito stipendio; tuttavia oggi può affermare: “mi sento compensato dal risultato raggiunto, ma se fossi stato costretto a lasciare la ricerca come molti miei colleghi mi sarei pentito di aver dedicato gratuitamente il mio tempo per nulla”. “In una situazione di incertezza come questa – continua – la ricerca di finanziamenti diventa un mantra, quindi sei costretto a scrivere molti progetti l’anno partecipando a tutti i bandi che diano la speranza di risorse economiche”. L’inevitabile conclusione è che spesso la ricerca dei fondi sottrae tempo alla ricerca scientifica.
Un percorso simile ce lo racconta la prof.ssa Lancioni: laureata in scienze biologiche anche lei nel 2000, ha firmato il suo primo contratto di tutoraggio all’università il giorno stesso della sua laurea. Da lì tutta una serie di contratti e borse sia brevi sia annuali. Dopo due-tre anni di questa situazione ha vinto il dottorato di ricerca, svolgendo l’attività di ricerca sia in sede principale a Perugia sia presso l’ateneo di Chieti, oltre al periodo all’estero. Finito il dottorato è iniziato il ciclo degli assegni, culminato con il contratto di tipo A ed alla fine quello di tipo B, per un totale di 19 anni di precariato. Recentemente ha ottenuto il posto da professore associato di genetica. Quando le viene chiesto se ha mai lavorato senza contratto ride, esclamando: “è ovvio!”. Poi continua: “è sottinteso che nel nostro lavoro tra un contratto e l’altro ci sia poi un periodo in cui non vieni pagato, in cui porti avanti il tuo lavoro per passione anche se non c’è la copertura. Una volta c’era la possibilità di attivare un’assicurazione personale grazie alla quale potevamo lavorare in tranquillità anche senza contratto; successivamente la normativa è cambiata e le assicurazioni personali non erano più ammesse. Quindi si cercava di lavorare quanto più possibile da casa, ma senza l’attività laboratoriale è ovviamente difficile portare avanti una ricerca. Io mi sono anche ritrovata a non essere coperta durante la mia prima maternità, perché in quel periodo non avevo un assegno e quindi non ho potuto usufruire del sussidio. Inoltre quei mesi non figurano nemmeno come periodo di congedo per maternità ai fini curricolari, ad esempio quando ho fatto domanda per l’abilitazione nazionale. Tuttavia sono stata fortunata perché so che ci sono realtà molto diverse e in alcuni laboratori affrontare una gravidanza è ancora più difficile; c’è chi ha lavorato fino all’ottavo mese, anche esponendosi a sostanze pericolose, e casualmente non ha visto il proprio contratto rinnovato al ritorno dalla maternità”. La prof.ssa Lancioni racconta anche di uno scandalo avvenuto solo qualche settimana fa: di fatto il ministero ha chiesto indietro dei soldi che aveva erogato circa 15 anni fa per un progetto la cui rendicontazione aveva evidentemente delle lacune. Il problema è che di quei gruppi che avevano diretto il progetto non è rimasto più nessuno in facoltà, quindi il dipartimento ha deciso di far gravare queste morosità sui gruppi eredi, ovvero su “quelle poche persone che hanno contribuito al progetto in maniera molto marginale. La cosa che spaventa, vista la non volontà di cercare i colpevoli – afferma – è che si crea un precedente: tutti noi possiamo sbagliare alla leggera tanto poi ci sono i giovani che pagheranno i nostri errori?”. Ciò che succede, in pratica, è che questi gruppi vengono privati di quei minimi fondi per la ricerca di base erogati dal dipartimento. Questo mette in luce un altro problema, che è tutto italiano ma nel quale a Perugia siamo anche sotto la media nazionale, che è quello della burocrazia. Il ricercatore, che dovrebbe svolgere attività di ricerca, si ritrova impantanato anche in una serie di questioni burocratiche, non ultima la rendicontazione dei progetti, che andrebbero svolte da uffici appositi, che a Perugia non funzionano. Quindi conviene farsi da soli le rendicontazioni piuttosto che “sperare vengano fatte bene da altri, soprattutto sapendo che è il ricercatore che deve provvedere a risolvere eventuali errori”.
Le storie raccolte sono pur sempre situazioni di successo, che sono molto rare considerando tutti quelli che tentano la carriera accademica. Ciò che spaventa un precario dell’università poi non sono tanto i mesi di servizio gratuito o i lunghi anni che possono essere senza contributi, senza sussidi di disoccupazione, di maternità, senza tredicesime e via dicendo, lavorando in strutture spesso non adeguate e completamente fuori da ogni normativa: la vera paura è quella di essere improvvisamente tagliati fuori, come è successo a molti ricercatori che dopo 20 anni di precariato non si sono visti rinnovato il contratto. È davvero umiliante a quel punto la consapevolezza che tutti gli anni di studio, di formazione e di sacrifici non sono spendibili praticamente in nessun altro ambito. Inevitabilmente, finiscono insieme con le loro frustrazioni nella scuola.
Arriverà mai un governo che possa ridare dignità alla ricerca e trasformare questa giungla in un luogo di civiltà? Attendiamo sfiduciati.