
#STORIAEMEMORIA #EPIDEMIE
Di Fabio Bettoni
Per molti secoli, i 6 mila ettari della pianura di Foligno sono stati il regno delle acque: correnti e stagnanti ad un tempo; dalle stagnanti, la “mala aria” e le morbilità collegate. Poco dopo la metà del Quattrocento, il Comune cominciò (1456) a porsi in maniera più decisa il problema “salubritatis aeris”, della salubrità dell’aria; e, nella piana del Teverone tra Sant’Eraclio e Torre di Montefalco, cominciò (1473) a lottizzare appezzamenti di terra (180) affittandoli a soggetti privati, conventi, monasteri e compagnie rionali per favorire prosciugamenti e incentivare coltivazioni agricole, in particolare di cereali e canapa. Con il 1561, iniziò quel processo di bonifica complessiva di detta piana che preluse alla formazione della grande Tenuta di Casevecchie (500 ettari ca), e che, molto più tardi, si completò intorno a Bùdino, nella pianura del Topino-Chiona. Lì le acque ristagnarono fino al secondo Ottocento, quando (dal 1875) si realizzò (mediante il Colatore di Bùdino, appunto) un drenaggio definitivo. Peraltro, anche sulle alture l’ambiente produceva “mala aria”. Il caso dell’altopiano di Colfiorito, segmento di un vasto sistema di bacini tettono-carsici, era così emblematico per la “greve aria” derivante dalla “palude di Plestia” (il piano del Casone, tra Colfiorito e Serravalle nelle Marche), da essere citato negli Annales Ordinis Minorum, fondamentale compilazione del francescano irlandese Luke Wadding (1625). La “mala aria”, dunque, regnò a lungo. Non soltanto al piano e al monte, però, ma pure nella città. A potenziarla dentro le mura provvidero, in promiscuità con gli umani, porci e pecore, cavalli asini muli, animali di bassa corte, piccioni torraioli, in un susseguirsi di orti stalle e fienili, cumuli di immondizie, rigagnoli e torrentelli di scoli e liquami a cielo aperto ove brulicavano miliardi di “viventi”.
Qualcuno rilevò, tuttavia, ragioni per così dire fondative della “greve aria” e delle morbilità connesse, ragioni attinenti alla qualità del territorio. Nel 1923, il giovane medico Alfredo Agostinelli (ebbi il piacere di colloquiare con lui molte volte nei miei verdi anni) pubblicò uno studio scientifico su questa qualità, e, con l’analisi delle condizioni “deplorevoli” (così si espresse) nelle quali versavano l’incasato intramuraneo e le relazioni umano-sociali in esso esistenti, congiunse lo studio sullo stato igrometrico del terreno folignate e dell’aria atmosferica, e rilevò l’azione dei venti e dell’umidità sull’organismo; esaminando quest’ultima specialmente in relazione all’incidenza del freddo umido sullo sviluppo delle malattie polmonali e reumatiche; fornendo contestualmente conclusive valutazioni sull’endemìa della tubercolosi. L’approccio seriale ad essa forniva elementi risalenti al decennio 1891-1900, raccolti a suo tempo dal medico Adolfo Arcangeli, il quale però aveva utilizzato soltanto i dati sui ricoveri ospedalieri: 344 degenti, di cui 160 affetti da polmonale, 124 morti, 28.917 giornate di cura nel decennio detto. Secondo Agostinelli, quei valori nella realtà effettuale dovevano essere quadruplicati. Egli, peraltro, scriveva in un periodo nel quale la questione della tubercolosi era vivissima anche perché l’influenza spagnola ne aveva lasciato una “tara imponente”.
Da quando? Il 17 luglio 1918, tale Giuseppina Pasqualetto giaceva all’Ospedale “colpita da gastro-enterite sospetta infettiva”; in quel momento la “salute pubblica” in Foligno versava in uno “stato non buono per le malattie (influenza) che hanno dominato”, era perciò concreto “il pericolo d’insorgenza di qualche caso di malattia infettiva e della diffusione loro”: così Pio Sabatini, ufficiale sanitario del Comune, al sindaco Francesco Maneschi. Il 25 settembre, Maneschi rendeva esecutiva un’ordinanza prefettizia del 21 antecedente: diventava “obbligatoria la denuncia di tutti i casi d’influenza, accertati o sospetti o con complicanze, indicando origine infezione fomiti locali insalubri”; nonché “la denuncia dei casi di dissenteria con l’indicazione se i colpiti provengano da altri Comuni o se abbiano avuto rapporti con persone provenienti da altri luoghi”. Il 15 marzo 1919, sulla “Gazzetta di Foligno” si annotava: “l’epidemia influenzale miete vittime”. Il 10 febbraio 1920, Roberto Agostinelli, direttore dell’Ospedale, scriveva a Maneschi: “a causa dell’epidemia di influenza l’Ospedale rigurgita di malati, molti dei quali sono gravissimi”. L’epidemia nel corso del ’20 si stemperò. La documentazione locale non presenta informazioni su quantità e qualità delle “vittime”.
Grazie ad una preziosa ricerca (2002) del demografo Odoardo Bussini, sono noti, invece, i dati sull’altra impennata epidemica, il “cholera asiatico” che ci aveva travagliato nel 1855. Foligno contava allora 19.034 abitanti. Gli “affetti” furono 974, i guariti 535, i morti 439; l’indice di morbilità fu del 51,2 per mille, il più elevato nella provincia di Perugia (22,2) che allora andava da Città di Castello, a Todi, toccando tutti i centri della Dorsale Appenninica eccetto Gubbio, appartenente alle Marche; a sua volta, l’indice di mortalità arrivò al 23,1 quando nella provincia si attestò sul 10,1; infine, l’indice di letalità non oltrepassò il 45,1, nella provincia salendo al 45,6. Il dato sulla morbilità è molto interessante: proprio per tutto ciò che abbiamo detto in precedenza.