Cultura Storia e Memoria

Foligno tra morbilità ed epidemie: la lebbra

Continua il viaggio nella storia folignate, a cura di Fabio Bettoni. Dalle testimonianze storiche sulla vita di Santa Angela da Foligno si scopre che, alla fine del 1200 uno degli ospedali della nostra città ospitava dei malati di lebbra.

#STORIAEMEMORIA #EPIDEMIE
Di Fabio Bettoni

(In foto: Ippolito Lemmi (Vallico (LU) 1681 – Assisi 1731), Angela beve l’acqua con la quale aveva lavato il lebbroso (Foligno, Convento di San Bartolomeo, 1718).)


La biografia di Angela da Foligno non presenta ancoraggi cronologici certi dal principio alla fine. Si vuole che fosse nata intorno al 1248; che fosse morta il 4 gennaio 1309 lo si ritiene, invece, “un punto fermo”. Il mutamento profondo della sua esistenza in senso spirituale, la sua “seconda vita”, una “conversione” per praticare una povertà evangelica totale dovrebbe essere collocato intorno al 1285, con la successiva adesione al Terz’Ordine francescano al 1290-91. Da lì in avanti, si ipotizza fino al 1296, un frate minore, andato alla storia come frate A., raccolse dalla viva voce di Angela le testimonianze relative alle proprie esperienze mistiche e alle rare allusioni autobiografiche. Ne nacque il Liber Lelle, il Libro di Lella, Angelella: il Memoriale.

Tra queste testimonianze, una, che si è pensato di assegnare al 1292, è particolarmente interessante per la storia folignate delle morbilità e delle epidemie. Sentiamo il frate scrittore, togliendone le parole memorialistiche dalla traduzione che del Liber ha fatto (2015) lo storico Emore Paoli: “Riferì: ‘Il giovedì santo dissi alla mia compagna che dovevamo cercare Cristo. Dissi: andiamo all’ospedale e forse lì troveremo Cristo tra quei poveri tribolati e afflitti’. Non potendo disporre di nient’altro, portammo via quanto più dei nostri copricapo riuscimmo a prendere e dicemmo a Gigliola, inserviente dell’ospedale, che li vendesse per comprarci qualcosa da mangiare per quelli dell’ospedale. Costei, sebbene si mostrasse molto restìa, […] acconsentì in seguito alle nostre insistenze e vendette quei copricapo, comprando col ricavato alcuni pesci, e noi consegnammo tutti i pezzi di pane che ci erano stati dati per il nostro pasto. Dopo aver donato loro queste cose, lavammo i piedi alle donne e le mani agli uomini, in particolare quelle di un lebbroso che le aveva fradice, marce, che cadevano a brandelli, e bevemmo l’acqua di quella lavatura”.

    
Un fecondo studioso di Angela, don Sergio Andreoli, ascrive l’episodio al novero delle “esagerazioni verbali o di comportamento”, da segnalarsi “come documenti della forte incarnazione della Poverella nel suo tempo” (Angela da Foligno maestra spirituale, 1995). Potrei affilare le “armi della critica”, potrei richiamare le fonti ispiratrici: le suggestioni evangeliche e l’imitazione di Cristo, l’esperienza di Francesco d’Assisi, ma non è su queste questioni che voglio attirare l’attenzione di chi legge, bensì su alcuni dati di realtà che si possono trarre dal racconto. Innanzi tutto sull’ospedale. Il riferimento è paradigmatico: per dire di un luogo tipico di ospitalità-reclusione; ove vengono ospitati/racchiusi “tribolati e afflitti”, come abbiamo appena letto. Senonché, l’originale in latino, reca: “pauperes et penatos et afflictos”: “poveri e ammalati e afflitti”, termini che designano condizioni materiali e mentali precise, diverse l’una dall’altra anche se fortemente interrelate. Condizioni poste in promiscua sequenza, ove, in particolare, per “afflizione”, intenderei non soltanto lo stato di sofferenza spirituale di cui alla ben nota, misericordiosa consolazione, ma anche l’afflizione della mente. Un luogo nel quale i degenti sono donne e uomini, coabitanti con i portatori di un morbo, la lebbra, a causa del quale dovrebbero stare ricoverati altrove, in più radicale isolamento. Il fatto esperienziale di Angela, vero o meno che fosse stato, ci mette dinnanzi alla realtà storica della lebbra, esistita da noi, come in altri luoghi non lontani, l’Assisi di Francesco ad esempio; mostra, inoltre, come le misure di contenimento della morbilità fossero molto approssimative; attestano che tra contagiati e non, non si mantenessero le opportune distanze.

Gli studiosi si sono chiesti di quale ospitale si trattasse. Due le ipotesi: l’ospitale di San Feliciano, che se vi fosse ancora lo troveremmo in via dell’Oratorio, edificio variamente trasformato nel tempo, distrutto nel 1943 da un bombardamento aereo; e l’ospitale di San Lazzaro in Corsciano, situato al confine di Foligno con Spello (i resti sono inglobati in una residenza privata) lungo l’antica strada Romana. A prima vista, la seconda ipotesi sembrerebbe la più valida, giacché si collega ad uno spazio molto distante dalle due realtà demiche, configurandosi per ciò come luogo opportuno. Personalmente propendo per la prima congettura. In una testimonianza risalente al 1110, desunta da una pergamena appartenuta all’Abbazia di Sassovivo, si cita infatti un ospitale ubicato nei pressi della canonica di San Feliciano, da identificare con il sito di cui abbiamo appena detto di sopra, il quale allora come oggi si sviluppava dietro l’abside della chiesa cattedrale; la titolarità dell’ospizio spettava al vescovo e ai canonici della chiesa madre. Dato l’assetto urbanistico di Foligno ancora esistente al tempo di Angela, l’ospitale felicianeo era esterno alle mura urbiche, ancorché contiguo ad esse.

Con il tempo ne sarebbero state modificate le destinazioni d’uso, fino ad essere inglobato nell’Oratorio del Buon Gesù, congrega devota promossa da Giovanni Battista Vitelli (1528-1621), un imitatore nostrano di Filippo Neri (1515-95) e dei suoi Oratoriani. Le modificazioni funzionali non cancellarono la tradizione “angelana” dell’antichissimo ricovero. L’arciprete Bernardino Bartoloni Bocci (1814-70), in un suo testo giunto a noi manoscritto, notava (1860): “Ancora esiste dietro l’altare di quest’ospedale dal lato dell’epistola presso il pavimento una piccola nicchia, al presente coperta, ove questa serafica santa soleva riporre la scodella con cui serviva gli infermi. Ed è un pio desiderio che si torni in venerazione, almeno decente, quello che si va perdendo anche dalla memoria tradizionale”. Che più?

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