
#CULTURA #STORIAEMEMORIA
Di Fausto Gentili
(Dal sito web de L’Officina della memoria)
Nessuno lo chiamava il Campo è il titolo di una pubblicazione del 2001, curata dalla prof. Marina Buriani per l’Istituto comprensivo di Belfiore. Prezioso il quaderno, più prezioso il titolo, che allude ad un meccanismo di rimozione (vedi l’articolo di Matteo Santarelli qui: https://sedicigiugnofoligno.it/2020/04/11/rimozione/) che – già attivo allora – continua a ostacolare la conoscenza storica e ad inquinare le basi stesse di una cittadinanza condivisa. Perché la prima cosa che impara chi si occupi di memoria è che la memoria non è un cassetto, uno scaffale, una directory in cui riponi le cose per poi ritrovarle identiche, ma una facoltà attiva: la memoria rimuove, deforma, manipola, razionalizza. Può essere uno strumento di conoscenza, ma va accompagnata da riscontri, come sa bene qualsiasi giudice alle prese con dei testimoni. Inoltre, la memoria non è mai strettamente individuale: io ricordo le cose che gli altri mi aiutano, o mi inducono, a ricordare; ciò che loro avvertono come rilevante diventa significativo anche per me e finisce per cristallizzarsi in un ricordo. (E infatti i testimoni della Shoah tacquero a lungo, nel dopoguerra, giacché le loro memorie erano “stonate”, non in sintonia con la diffusa voglia di voltare pagina). Infine, e questa è la cosa più delicata, la memoria è suscettibile di un uso pubblico, uso che in genere procede dall’alto (le istituzioni, i soggetti organizzati) verso il basso (i cittadini). Di questo, che poi è un modo di usare il potere, abbiamo infiniti esempi: feste, monumenti, celebrazioni, lapidi… Dobbiamo dunque rassegnarci a convivere solo con narrazioni di parte, prendendo per buone quelle che più ci fanno comodo? O al contrario, diffidare di ogni memoria, fino a farne a meno? La risposta è due volte no. Basta tenere presente che anche la memoria deve passare al vaglio della conoscenza storica, misurarsi con i documenti d’archivio, i reperti d’epoca, i rilievi oggettivi. A questo servono – e per questo risultano scomodi a chi della memoria preferisce abusare – gli Istituti storici, le Università, gli archivi, e musei come quello progettato per Colfiorito lungo venti densi anni: smascherare la propaganda travestita da memoria, offrire al presente il conforto di conoscenze certe, che la memoria può precisare, arricchire, correggere persino, ma non stravolgere a piacimento. Il che impedirebbe a demagoghi e arruffapopoli, quale che sia il potere di cui temporaneamente dispongono, di pronunciare senza arrossire frasi come “abbiamo visto tutti” o “sappiamo tutti bene” a proposito di cose né viste né conosciute.
Una cronologia sommaria.
- 1882-1885. A seguito della costruzione della caserma di Foligno, viene realizzata a Colfiorito una struttura di servizio per le esercitazioni di artiglieria.
- Luglio 1938. Il Regio decreto 1415 dispone “l’internamento dei sudditi nemici” (sic !). Nei mesi successivi le Casermette di Colfiorito vengono individuate come utili a questo scopo.
- Giugno 1940.Dopo aver ospitato temporaneamente 21 prigionieri albanesi, il Campo viene utilizzato per 176 internati civili italiani. Dato il freddo, sarà chiuso nel gennaio 1941.
- Gennaio 1943. Il campo viene riaperto per 700 internati rastrellati durante l’invasione italiana del Montenegro. Arriveranno a sfiorare le 1500 unità.
- 22 settembre 1943: approfittando dello sbandamento post-8 settembre gli internati conducono a termine una fuga che porterà alcuni a disperdersi nella montagna ed altri ad unirsi alle formazioni partigiane.
- Gennaio-aprile 1952: dopo l’alluvione nel Polesine il Campo viene riutilizzato per ospitare un centinaio di profughi.
- Anni Cinquanta-Settanta: le casermette tornano alla originaria funzione di supporto alle esercitazioni. Del Campo si perde la memoria.
- Novembre 1995: nel convegno L’Umbria dalla guerra alla Resistenza la dott. Paola Monacchia ricostruisce la storia dell’internamento in Umbria ed il ruolo del Campo. Nel frattempo l’Amministrazione Comunale guidata da Manlio Marini ha avviato il percorso per la cessione delle Casermette dal demanio militare al Comune.
- Novembre 2003. Comune di Foligno e Isuc organizzano il convegno Dall’internamento alla libertà: il campo di concentramento di Colfiorito. L’intervento dell’assessore Fabio Bettoni, oltre a riepilogare la vicenda, segnala il progetto di Centro di documentazione sull’internamento e la deportazione messo a punto tra il 1999 e il 2001: è il primo passo verso il Museo. Intanto, grazie all’impegno straordinario di Olga Lucchi, è nata a Foligno la sezione regionale dell’Aned.
- 2005-2009: L’officina della memoria organizza insieme all’Aned percorsi didattici per le scuole, guidati dalla prof. Lucchi. Un’analoga, più sistematica esperienza sarà condotta, dal 2006 a tutt’oggi, dall’ISUC.
- 2013: ISUC e Officina della memoria mettono a punto un progetto di massima di Museo del Campo, che l’Amministrazione Comunale fa proprio nel 2014. I lavori nella Casermetta destinata ad ospitarlo vengono condotti tenendo conto di questa destinazione.
- Luglio 2018. L’officina della memoria, su impulso del Comune di Foligno, partecipa ad un bando del GAL-Valle umbra e Sibillini con un progetto esecutivo. Nel novembre del 2019 il GAL comunica la disponibilità a finanziarne l’intero importo di 96.860 euro: il museo, se c’è ancora la volontà politica, si può fare.