
#CITTÀ #CENTROEPERIFERIE
di Alessandro Sorrentino
(In foto: il disegno all’ingresso della Bottega di Maria Luisa Morici)
C’è un angolo della nostra città che tutti conosciamo, dove tutti passiamo senza fermarci mai. È un luogo particolare, che vive da sempre un’esistenza travagliata e contraddittoria, eppure è come se non esistesse, come se, in fondo, la sua condizione di abbandono fosse normale poiché nulla sembra potervi nascere, svilupparvisi e stabilizzarvisi per diventare parte del tessuto cittadino.
Sto parlando del quartiere di Via Piave, un labirinto di strade, case popolari e palazzine che si districa tra Via Trasimeno e il complesso delle strutture Ina-Casa, quello che oggi viene definito il “ghetto”. Ho abitato per pochi anni al “ghetto”, in una casa di mattoncini rossi, e sono ancora affezionato a questa zona, ci passo spesso in macchina ma anche io non mi fermo mai. In ogni caso è impossibile non accorgersi, tra un tabaccaio che sembra rimasto agli anni ’60 e i bambini che giocano a pallone nella piazzetta, dei cartelli “vendesi” appesi ai balconi delle case, ogni settimana uno in più. Eppure, se provi a fermarti, ti accorgi che qualcosa, invece, germoglia tra le palazzine di Via Trasimeno.

(In foto: le case del quartiere Ina Casa)
Maria Luisa Morici ha 53 anni, si definisce una creativa che fa spettacoli per bambini, scrive libri e collabora da anni con le scuole. Al numero 16 di Via Trasimeno c’è la sua bottega: all’entrata ha dipinto un grande fiore giallo acceso che risalta fra i colori spenti delle vecchie palazzine. Da un anno in questo luogo organizza corsi teatrali per bambini e laboratori creativi e chiunque può entrare e scegliere se sporcarsi le mani o semplicemente restare ad osservare, immergendosi in un piccolo angolo colorato, di meraviglia e fantasia. È qui che la incontriamo e Maria Luisa inizia subito a parlarci del quartiere: «Via Trasimeno è un posto apparentemente morto, lo stesso vale per il quartiere Ina-Casa, dove vivo da quattro anni, e che è stato snaturato rispetto a come era stato progettato, un quartiere aperto, senza portoncini». «Ho voluto compiere un atto rivoluzionario – ci racconta – aprire questo posto, brutto, per trasformarlo in un luogo bello, fantastico. Appena arrivata ho cominciato a dipingere sulla facciata un dente di leone, un fiore giallo che cresce dappertutto. Mentre dipingevo si è fermata tutta la via. Una signora mi ha scritto che suo figlio era convinto che nel palazzo stesse effettivamente crescendo un fiore, perché ogni giorno che passava vedeva sempre più foglie rispetto al giorno precedente».
«Con la bottega, la mia intenzione è di coinvolgere nel cambiamento anche gli altri abitanti. E in effetti, due signore anziane che vivono qui vicino mi hanno confidato che quest’anno, dopo tanto che non lo facevano, hanno riacceso le luci di Natale fuori dal terrazzo. Con un piccolo gesto, insomma, vorrei diventare contagiosa per gli altri. Chiaramente ci sono le difficoltà quotidiane: devo gestire costi e disorganizzazioni di ogni genere e per tenere in piedi questa struttura devo comunque lavorare. In quest’anno ho conosciuto tante persone e confermo quella che è l’impressione di tutti: la maggior parte delle famiglie giovani ha abbandonato il quartiere, restano solo le persone anziane e le famiglie di immigrati».

(In foto: l’ingresso della bottega di Maria Luisa)
E alla domanda se la sua bottega possa essere anche un laboratorio di integrazione, Maria Luisa ci risponde di si! «Sicuramente può esserlo. Le persone straniere che arrivano, vivono la difficoltà di doversi adattare ad un modo di vivere diverso, con regole differenti e questo determina, al primo impatto, uno scontro tra culture. Io penso che stia a noi italiani dare il buon esempio, viviamo qui da sempre, conosciamo le regole, le persone e i luoghi, sta a noi mostrare che si può stare in questo posto. Ma alla base di ogni nostra azione deve esserci il rispetto per la diversità che significa, secondo me, accettare l’altro nelle sue differenze, senza cercare di cambiarlo per renderlo uguale a noi. Credo che la strada dell’integrazione passi, per forza di cose dall’accettazione del diverso. So che non è facile e che non tutti hanno gli strumenti per concedersi quello che, di fondo, è un privilegio. Dal punto di vista amministrativo si potrebbero fare e proporre molte cose, ma il cambiamento deve partire innanzitutto da noi stessi».
Lasciamo Maria Luisa e la sua bottega e ci rechiamo da Padre Antonio, parroco della Chiesa di San Giuseppe Artigiano, che sorge tra Via Piave e Via Trasimeno. Ci è stato raccontato che la sua parrocchia è un centro di integrazione e aggregazione, nello spazioso cortile, i bambini musulmani e i bambini italiani giocano a pallone e si divertono, ma come spesso accade, le cose sono ben diverse da quello che può sembrare ad un primo, superficiale, sguardo.

(In foto: l’interno della bottega di Maria Luisa)
Padre Antonio, questo quartiere sta vivendo un periodo difficile, si va spopolando e l’età media è molto alta, com’è lavorarci ogni giorno?
«Dopo la ristrutturazione del terremoto del ’97, le famiglie italiane che vivevano qui si sono trasferite in altre zone, e sono rimaste solo persone molto anziane, mentre sono arrivate molte famiglie musulmane. Tra vent’anni questo non sarà più un quartiere italiano, sarà popolato per la maggior parte da musulmani. L’età media è molto alta, basti pensare che lo scorso hanno ho celebrato ben quarantasei funerali e solo otto battesimi, di cui soltanto due erano di bambini della parrocchia. La situazione è veramente difficile».
Ci è stato detto, però, che la parrocchia è frequentata da molti bambini, è così?
«Si, ma non tutti i bambini che vengono sono della parrocchia, tanti arrivano da altri quartieri. Noi proviamo ad organizzare qualcosa, ma è difficile, i bambini hanno tanti impegni, prima la parrocchia era un luogo dove potevano cimentarsi in varie attività sportive o musicali, ma ora sono tutti impegnati in corsi professionali, scuole di calcio e di musica. Portiamo avanti un corso di teatro, prima c’era Maria Luisa Morici, negli ultimi due anni Nicola Pesaresi».
Visto che il quartiere è abitato da molte famiglie musulmane, i bambini vengono spesso a giocare in parrocchia?
«Vede, io lascio sempre il cortile aperto e, quando è bel tempo, molti ragazzini vengono a giocare a pallone, tendenzialmente sono solo musulmani che già si comportano come se questo fosse il loro quartiere».
Per lei è possibile, che dall’incontro fra due diverse culture possa nascere l’integrazione?
«Non saprei, noto che le famiglie musulmane preferiscono non farsi coinvolgere. La loro chiusura è una risposta alla chiusura che arriva dalle famiglie folignati. Non si vede nell’altro una porta aperta, c’è sempre un nemico dal quale difendersi. Io, onestamente, non credo molto nell’integrazione, non c’è progettualità, né desiderio di metterla davvero in pratica, né da parte della Chiesa, né da parte dell’essere umano, ognuno difende il piccolo territorio. La scuola porta avanti progetti poveri, organizza la recita natalizia su temi come la pace o l’ecologia, ma questa non è integrazione, in questo modo si pensa di accontentare tutti, ma la verità è che non cambia nulla».
Crede che questo accada perché non ci sono abbastanza occasioni di incontro e dialogo tra diverse culture?
«No, a mio avviso il vero problema è che gli italiani non fanno più figli, sono concentrati a tal punto sull’ecologia e gli animali che hanno perso il senso dell’essere umano e della famiglia. La cultura musulmana ha un forte senso della famiglia, i loro nuclei sono molto uniti all’interno e anche all’esterno, tanto da formare un clan. Noi italiani, invece, crediamo di essere emancipati, e che sposarsi e fare figli non serva più».
Pensa che questo quartiere abbia possibilità di ripresa, di recuperare un po’ di attrattiva?
«Non so che dirle. Non penso, credo che da qualche tempo, addirittura, abbia cominciato a verificarsi anche dello spaccio di droga».
Poco meno di un chilometro divide la bottega di Maria Luisa dalla Chiesa di Padre Antonio. Le loro risposte, seppur diverse, confermano che il problema di questo quartiere è senza dubbio la rassegnazione che ha colto la maggior parte degli abitanti. C’è difficoltà a scorgere, nella convivenza tra culture diverse, un’opportunità di incontro e condivisione. Il multiculturalismo, almeno al momento, crea emarginazione.