
#POLITICA
Di Nicola Fratoianni
(In foto: Nicola Fratoianni)
A Nicola Fratoianni, portavoce nazionale di Sinistra Italiana e collaboratore abituale di Sedicigiugno (la rubrica A cena con Nicola) abbiamo chiesto questa volta di fare il punto sulla drammatica emergenza prodotta dall’epidemia da Covid19.
La Pandemia ha cambiato il mondo. Intanto lo ha fatto sconvolgendo le nostre vite, le nostre relazioni sociali, il modo di lavorare e di vivere. Siamo ancora nella fase 1. L’emergenza sanitaria non si è conclusa e il numero di contagiati, pur in presenza di una discesa, resta molto alto. È dunque da qui che occorre partire per affrontare una discussione su ciò che sarà dopo. La prima e più importante azione economica resta quella sanitaria. Contenere e ridurre il più possibile le catene di infezione è la precondizione necessaria per poter anche solo immaginare una ripartenza.
Per questo, ed è bene dirlo subito, sono inaccettabili le pressioni che salgono da una parte significativa del mondo delle imprese per una rapida riapertura delle attività. A nessuno sfugge che le conseguenze sociali ed economiche di questa situazione sono già oggi pesantissime e destinate a durare molto a lungo. Ma nello stesso modo nessuno può dimenticare che, se quelle stesse pressioni non avessero contribuito a ritardare la chiusura in alcune aree del paese di tutte le attività non essenziali, oggi probabilmente faremmo i conti con un bilancio di lutti meno pesante. Ciò che appare più evidente in questa crisi è, forse per la prima volta in modo così netto, l’incompatibilità di questo modello economico con la vita e con la sicurezza della maggioranza delle persone. Intendiamoci, il Covid19 porta con se una straordinaria contraddizione. Da un lato il virus si presenta come una minaccia generale, tutti possono ammalarsi, a prescindere dalla loro condizione. Dall’altro però, sappiamo che le conseguenze delle misure prese per contrastarlo non colpiscono tutti e tutte allo stesso modo. Vale per il lockdown così come per le conseguenze economiche che questo determina e determinerà.
Abbiamo dunque di fronte a noi due ordini di problemi: affrontare l’emergenza, garantendo che nessuno resti fuori dalle misure volte a sostenere reddito e lavoro, e ripensare il “dopo”, consapevoli che tornare alla normalità significa tornare ad una condizione di crisi, diversa certamente da quella attuale, ma strutturalmente incapace di affrontare i problemi che questa emergenza ha messo in luce.
Sul primo dei due fronti occorre dunque affrontare di petto una doppia questione. Serve un reddito che abbiamo definito di emergenza che garantisca a tutte e tutti coloro che ne hanno bisogno di vivere dignitosamente. Un reddito di base in grado di raggiungere non solo l’area della povertà, su cui seppur in modo insufficiente e problematico si concentra lo strumento attuale del cosiddetto reddito di cittadinanza, ma anche tutta quella dimensione segnata da una condizione di precarietà, intermittenza lavorativa, lavoro povero, di cui è costellato il nostro Paese. E poi, serve uno strumento europeo, in grado di mutualizzare e garantire in modo comune il debito straordinario che i singoli stati saranno costretti a produrre per affrontare questa situazione e finanziare strumenti come questi. Dopo la sospensione del patto di stabilità occorre imboccare fin da ora una strada che metta radicalmente in discussione le politiche monetarie ed economiche che hanno caratterizzato la governance europea, in particolare negli anni dell’austerità seguita alla crisi del 2008.
Per questo occorre fin da ora lavorare ad un mondo che va ripensato in profondità. Qualche giorno fa, in uno dei Webinar organizzati da Sinistra Italiana, Etienne Balibar ci invitava a ripartire dai bisogni. Mi pare che proprio questo sia il punto di fondo, consapevoli che anche i bisogni sono, spesso, il frutto di una “formazione sociale”. Allora è forse possibile provare ad utilizzare questa emergenza per provare a ridisegnare, diversamente, una mappa dei bisogni. Credo sia capitato a tutti in queste settimane di scoprire, accanto alle privazioni legate alle nostre abitudini, nuovi modi di affrontare la quotidianità. Si riduce lo spazio del consumo inessenziale e si ridefinisce l’agenda delle priorità. Vale per i beni e per le merci, vale per ciò che attiene alla sfera dei servizi e dei diritti. Oggi come non mai, almeno rispetto ai decenni che abbiamo alle spalle, torna forte il bisogno della dimensione pubblica, intesa come sfera della programmazione e della tutela dell’interesse collettivo. Dalla sanità (prima preoccupazione in tempo di pandemia) alla scuola, l’ideologia che, negli anni che abbiamo alle spalle, aveva favorito una contrazione della sfera pubblica in favore del mercato appare in crisi, almeno nella percezione diffusa. E torna, seppur a fatica, a fare capolino il tema della redistribuzione della ricchezza come prima forma di solidarietà di fronte a quello che sta accadendo. Su questo terreno occorre uno sguardo coraggioso. Servono misure di contrasto al dumping fiscale di livello europeo e contemporaneamente, occorre ricostruire una cultura della progressività fondata sul semplice motto: chi ha nulla paghi nulla, chi ha poco paghi poco, chi ha molto paghi molto. Ecco allora che alcune questioni attorno a cui ripartire cominciano a prendere forma. Ricostruire una centralità del pubblico, dalla Sanità alla scuola, alla formazione in generale e alla ricerca. Ripensare le città, dalla mobilità al diritto all’abitare. E ripensare il lavoro e la produzione. Nel segno della transizione ecologica ma anche della riduzione della produzione di beni di consumo effimero a favore di una crescita del lavoro e dei lavori dedicati alla cura. Torna potente di fronte a quello che accade la questione di una necessaria riduzione del tempo di lavoro, sia come strumento di redistribuzione sia come elemento di riorganizzazione generale delle nostre vite. In molti hanno notato gli effetti imprevisti della pandemia. Il crollo dell’inquinamento, il ritorno della natura che, nel ritrarsi dell’uomo e delle sue frenetiche attività si prende un nuovo spazio. Anche di questo dovremo ragionare per il dopo. Recuperare la libertà, la possibilità e la necessità di lavorare e produrre senza ricominciare come se nulla fosse successo.