
#SOCIETÀ #LAVORO
Di Sara Gaggiotti
(In foto: gli uffici del centro per l’impiego di Foligno in Piazza Spada)
Di professione sono una psicologa del lavoro. Attualmente sono una dei trentatre Navigator della Regione Umbria, assunti da Anpal Servizi Spa a luglio dell’anno scorso, in assistenza tecnica agli operatori dei Centri per l’Impiego, per supportare i percettori del Reddito di Cittadinanza nel loro percorso di inserimento occupazionale. Insieme ad altre cinque colleghe lavoro presso il Centro per l’Impiego di Foligno.
Come psicologa mi sono sempre confrontata con le problematiche del disagio associato al lavoro, ne conosco le dinamiche, la complessità e la connessione con tutte le altre dimensioni della vita. Questo è stato senza dubbio un elemento di grande utilità in questi mesi nei quali mi sono trovata ad interfacciarmi con situazioni di estrema complessità, in cui marginalità, disillusione, paura e rassegnazione sono un connotato trasversale a molte delle persone che il Centro per l’impiego sta prendendo in carico.
Parliamo di una platea di circa 2500 persone residenti nei territori di Foligno, Spoleto, Gualdo Tadino, Norcia solo per citare i comuni più grandi, e con un’eterogeneità di problematiche e storie di vita lavorativa che è difficile racchiudere in poche righe.
Al CPI non arrivano tutti i beneficiari del Reddito di Cittadinanza, ma solo coloro che devono sottoscrivere un Patto per il Lavoro. Cioè coloro che sono tenuti a impegnarsi in un percorso di ricerca attiva del lavoro e a restituire qualcosa alla collettività attraverso i progetti delineati dai Comuni in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni.
Si tratta di persone di età compresa tra i 18 e 65 anni. Alcuni di loro già lavorano, ma il loro reddito, che rappresenta l’unica fonte di guadagno, non è sufficiente a sostenere la famiglia. Tra questi ci sono i “working poors”: lavoratori spesso precari, pagati pochissimo, a volte con contratti intermittenti, senza uno stipendio fisso. Si lavora solo quando il datore ti chiama.
La maggior parte però non lavora, il lavoro lo cerca ma fatica a trovarlo: poca esperienza, bassa qualifica, troppi anni di disoccupazione. E così ti trovi a confrontarti con una realtà complessa, variegata, che ti fa stringere il cuore.
Innanzitutto fai i conti con la disoccupazione giovanile. Nel nostro territorio rappresenta un 15%-20%: giovani con meno di 29 anni senza esperienza. Si muovono tra le offerte online, utilizzano i social, in primis facebook, anche per cercare lavoro. I più fortunati trovano un contratto di apprendistato, gli altri sono alla ricerca di qualche opportunità, magari qualche tirocinio.
Tra di loro ci sono i NEET, ragazzi e ragazze che non studiano, non lavorano, e sembrano perennemente “in attesa”. In attesa di prendere la patente, in attesa di un lavoro, in attesa di un’opportunità… demotivati, scoraggiati prima di partire. Spesso senza qualifica, con alle spalle percorsi di studio discontinui, interrotti e mai ripresi.
Tra i giovani ci sono anche le seconde generazioni, figli di genitori migranti, nati in Italia o arrivati durante l’infanzia. Ottimi mediatori interculturali. Subito attivi per cercare lavoro, disposti a spostarsi, fanno i conti con i pregiudizi del loro cognome e del loro passaporto. Da sempre abituati ad adattarsi, sono quelli che forse se la caveranno meglio.
Oltre il 60% delle persone che incontriamo ha però un’età compresa tra i 40 e i 59 anni. A cercare lavoro intorno ai quarant’anni sono soprattutto le donne, sono loro che si occupano principalmente dei figli o dei familiari malati. Cercano lavori che gli permettano di conciliare la vita lavorativa con le esigenze di cura. Raramente sono laureate, spesso non hanno alcun tipo di qualifica. Nella maggior parte dei casi hanno smesso di lavorare dopo la nascita dei figli: qualche esperienza come commessa, barista, cameriera e lunghi anni di inattività. Alcune sono sole, separate o vedove con figli da mantenere, e lavorano saltuariamente tra mille difficoltà. Altre invece non hanno mai lavorato, e sono senza alcuna rete di sostegno. Alcune ancora non parlano italiano, si ritrovano straniere in un paese straniero.
In alcuni casi ti trovi di fronte a problematiche difficili da affrontare: situazioni di alloggio precario, persone senza fissa dimora, persone prese in carico dal SerT o dai servizi di salute mentale… Situazioni solo accennate, dove la ricerca del lavoro non rappresenta più la priorità. Si tratta nella maggior parte dei casi di situazioni in cui il Patto per il Lavoro si trasformerà in un Patto per l’Inclusione Sociale e la presa in carico sarà dei Servizi Sociali comunali o si lavorerà in equipe multidisciplinari.
C’è anche chi il lavoro lo aveva: curricula ricchi fino agli inizi del 2000, poi lavori discontinui, sempre più precari, sempre meno frequenti. La ditta è fallita, i datori di lavoro hanno smesso di pagare, i clienti sono diventati sempre più rari, le opportunità sono diminuite e l’età è aumentata. Volti demotivati, spesso rassegnati a un mercato del lavoro che sembra non volerli più, sconfitti nella loro dimensione lavorativa.
C’è anche chi non si arrende. Il muratore che, dopo l’ennesima ricerca a vuoto, decide di diventare panettiere, bussa alla porta di un fornaio e chiede solo di essere messo alla prova. Trova la sua occasione e scopre che impastare la farina gli piace più della calce. O il signore di 62 anni, che dopo aver lavorato per vent’anni sempre nella stessa ditta, si ritrova senza lavoro, a pochi anni dalla pensione e con un mutuo ancora da pagare. E nonostante tutto trova un’occasione in una piccola azienda agricola: certo il lavoro gli piace meno ma si sente soddisfatto. Lui dice che è merito del territorio da cui proviene, da sempre abituato al terremoto e alla ricostruzione.

(In foto: uno dei cantieri attivi in centro)
Aiutare a cercare lavoro chi lavoro non lo trova può sembrare semplice, basta un cv ben fatto e tanta buona volontà. Ma quando ti trovi di fronte ad una platea così vasta come quella del Reddito di Cittadinanza, ti rendi conto che non è così facile. Per qualcuno forse è sufficiente una piccola spinta, un piccolo aiuto e domani potrà uscire dalla situazione di difficoltà in cui oggi si trova. Per altri servono progettualità più complesse, è necessario lavorare su tante dimensioni: sociali, lavorative, motivazionali, formative. Non ci dimentichiamo poi che tutto ciò poi si scontra con il mercato del lavoro attuale o quello che sarà dopo l’emergenza del COVID-19: quali opportunità lavorative ci saranno nei nostri territori? In quali settori? Quali qualifiche saranno richieste? Quali saranno i profili più spendibili e quali quelli meno occupabili? Chi già era poco occupabile come riuscirà a recuperare il suo divario? Domande difficili, cui bisognerà trovare risposte convincenti.