
#SOCIETÀ #SCUOLA #MATURITÀ
Di Miriam Abu Eideh
(L’entrata del licelo delle Scienze Umane Beata Angela, foto di Pietro e Francesca Romana Felici)
Quest’anno ho partecipato agli Esami di Maturità (si dovrebbero chiamare Esami di Stato ma tutti, dall’ultimo studente al Presidente della Repubblica, continuano a utilizzare la dizione più vetusta ma anche più carica di significati emotivi e affettivi) non direttamente, come commissaria interna, ma impegnata nel comitato di accoglienza che ogni scuola secondaria di secondo grado ha istituito per districarsi tra le varie norme di sicurezza imposte dalla pandemia di Coronavirus.
Compito mio e dei colleghi era quello di accogliere candidati e accompagnatori, raccogliere le autocertificazioni, rimandarli fuori dal cancello se erano arrivati troppo presto (avendo dovuto scaglionare le entrate), dispensare gel igienizzanti e mascherine pulite sotto l’occhio vigile degli addetti alla Protezione Civile, pronti a intervenire in caso di sbavature nella procedura e assembramenti immotivati, smistarli verso le varie zone di entrata, diverse per ogni commissione, ed elargire consigli e pacche sulla spalla (metaforiche si intende) a studentesse e studenti visibilmente in crisi.

(Il liceo scientifico Guglielmo Marconi, foto di Pietro e Francesca Romana Felici)
Sì, in crisi, perché, sebbene da più parti si fosse sottolineata l’eccessiva facilità di un colloquio senza scritti, colloquio che sempre più, di ordinanza in ordinanza, prendeva la forma di una specie di calderone nel quale, in 60 minuti scarsi, dovevano trovare spazio l’elaborato dello studente riguardante le discipline caratterizzanti il corso di studi affrontato (per carità, non più di 6 minuti, se si dilunga tagliate), la lettura e il commento di un’opera di letteratura (per carità, non più di 10 minuti, sennò si sfora), il colloquio multidisciplinare (per carità, quelli delle discipline caratterizzanti zitti, eh, loro hanno avuto il proprio spazio, non si mettano a fare domande sennò non c’è tempo, abbiamo sì e no 20 minuti), Cittadinanza e Costituzione (10 minuti eh, tiriamo via) e la relazione sull’esperienza di Alternanza Scuola Lavoro (ah, già, adesso si dice PCTO, vabbè quella, 10 minuti eh, non di più, stiamo sforando di brutto), sebbene molti commentatori avessero definito una “pagliacciata” delle prove così organizzate, studentesse e studenti hanno conservato la solita, genuina, paralizzante paura degli esami.
“Prof, aiuto, non so niente”, “Naaa, è solo un’impressione, vedrai che quando sei lì ti ricordi tutto!”; “Prof non dormo da due giorni”, “Su su, tra un’ora sarà tutto finito”; “Prof andrà bene se mi sono vestita così?”, “Ma certo! La commissione ne sarà E-STA-SIA-TA”. L’esame era stato rivoluzionato ma il tremito alle mani, le occhiaie, i sospiri, gli “accidenti a me, non ho ripassato lo Statuto Albertino” erano quelli di sempre.

(L’ entrata del liceo classico Federico Frezzi e dell’Istituto Professionale Emiliano Orfini, foto di Pietro e Francesca Romana Felici)
Dopo il colloquio, studenti e accompagnatori tornavano visibilmente trasformati, entusiasti di com’era andata, grati per il clima gioviale, quasi materno che si respirava durante le varie fasi del colloquio. Una ragazza lo ha definito così, “una chiacchierata tra amici”. D’altra parte, la Ministra era stata chiara: commissari e presidente si adoperino per mettere a loro agio il più possibile i candidati, reduci da tre mesi di chiusura in casa forzata, bombardati da bollettini di guerra su morti e contagiati quando la morte non li era andati a trovare direttamente a casa, gravati dallo stravolgimento delle abitudini e della routine quotidiana. Obiettivamente, come darle torto?
Devo ammetterlo, sono stata una critica avversaria della Maturità in presenza: temevo che lo sforzo organizzativo fosse eccessivo per le scuole, temevo che alunne e alunni si mettessero in pericolo inutilmente, temevo l’eccessiva responsabilità che sarebbe ricaduta sul personale e sui Presidi nel caso qualcosa fosse andato storto, ma poter toccare con mano, odorare quasi, l’emozione di studentesse e studenri, poter sentire quasi sulla mia pelle la tensione che si scioglieva una volta terminato il colloquio, vedere gli occhi stanchi ma sprizzanti gioia, i mazzi di fiori, i selfie davanti alla scuola, i pianti, gli “oddio, mi mancherà tanto questo posto” mi ha fatto cambiare idea. Impedire a queste ragazze, a questi ragazzi di varcare per l’ultima volta il cancello della loro scuola, uscire da un periodo importante della propria vita per entrare in una nuova fase, tutta da scrivere, sarebbe stato, forse, l’ultima delusione di questo tormentatissimo a.s. 2019/2020.

(L’istituto tecnico industriale Leonardo Da Vinci, foto di Pietro e Francesca Romana Felici)