Centro e Periferie Città La Città Invisibile

“Aperto per ferie”: l’oratorio ai tempi della pandemia

Fausto Gentili ci racconta come ha affrontato l'estate del Covid-19 una parrocchia di periferia come quella di Sant'Eraclio con il suo oratorio, portato avanti da Don Luigi Filippucci e i suoi collaboratori. All'interno dell'articolo anche un breve resoconto di una conversazione avuta con lo stesso Don Luigi.

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Conversazione con il gruppo di lavoro della parrocchia di Sant’Eraclio a cura di Fausto Gentili

(In foto: la Chiesa di San Marco. Foto di Luca Severini)


Don Luigi e i suoi collaboratori mi accolgono nei bei locali dell’oratorio, che già conosco per sporadici appuntamenti culturali e che ogni volta rivedo con piacere: pulizia, libri negli scaffali, disegni e scritte infantili alle pareti, molta luce dalle ampie finestre. Col parroco ci sono i suoi collaboratori, “storici” o più recenti: Ivana Roscini Vitali, Piera Ottaviani, Francesco Sfregola, Marta Rossi. Registro la conversazione per poter attribuire a ciascuno le sue risposte, ma presto mi accorgo che si tratta di un’attenzione superflua, perché viaggiano tutti sulla stessa lunghezza d’onda, e che il sentimento principale che li anima è l’orgoglio di aver fatto una cosa giusta e difficile: prendere sul serio sia il necessario rispetto delle norme di cautela, sia il bisogno di socialità che tre mesi di isolamento avevano fatto crescere nei giovanissimi, e trovare il passaggio stretto che ha consentito di impegnare per otto settimane un centinaio di bambini e ragazzi tra i 6 ed i 13 anni. Qualcosa, viene fatto di pensare, che forse anche il Comune o qualche scuola avrebbero potuto tentare, se solo non ci si fosse arresi troppo presto al fatalismo del “non si può”.I fattori che hanno reso possibile lo svolgimento degli oratori sono, nel racconto dei protagonisti, principalmente quattro. Innanzitutto, l’esperienza: con dieci anni di oratorio (e quattordici di aiuto compiti) alle spalle, dicono, eravano un gruppo di lavoro consapevole e affiatato, non ci abbiamo messo molto a capire quello che poteva essere confermato e quello che andava cambiato, e come. Il secondo fattore è stata la passione: sapevamo, dicono, che i ragazzi avevano sofferto l’isolamento ed avevano diritto ad un periodo di socialità, e non volevamo prenderci la responsabilità di negarglielo. Passione condivisa, peraltro dai 24 animatori tra i 16 e i 18 anni, che hanno vissuto un’esperienza formativa di prim’ordine. Sapevamo anche, aggiungono, di poter contare sulle famiglie, chiamate stavolta ad una responsabilità più grande che in passato: non più soltanto accompagnare i bambini all’oratorio e poi venirli a prendere, ma portarli nei luoghi periferici (Scandolaro, Cancellara, ecc.) dove erano collocate le “isole” (otto gruppi di dieci ragazzi, ciascuno accudito da un educatore adulto e tre animatori) e partecipare attivamente alle attività collaterali (escursioni, visite guidate, ecc.). Il terzo fattore che emerge dalle parole degli intervistati è la fiducia: fiducia reciproca, fiducia nei ragazzi e nelle loro famiglie, fiducia nelle norme di precauzione e nelle proprie capacità di farle rispettare. E’ bastato, dicono, non drammatizzare il modesto sacrificio che veniva imposto per la sicurezza di tutti, spiegarne il senso, valorizzare i vantaggi che ne derivavano, a partire dalla possibilità di stare di nuovo insieme. Quarto e ultimo fattore, l’apertura. L’oratorio è aperto a tutti, ricchi e poveri, paesani di antica appartenenza e nuovi cittadini, cristiani, musulmani e non credenti: se c’è un campanile, dice don Luigi, deve risuonare per tutti, se c’è un minareto, il suo richiamo è per tutti. Sembra un dettaglio, ma non lo è: se un servizio è rivolto a tutti (e non, per esempio, alla sola parte povera della comunità) sarà più facile trovare risorse e collaborazioni ed impedire che si riduca ad un ghetto o ad un puro contenitore cui affidare la custodia temporanea dei ragazzi. A proposito di risorse, chiedo come sia stato finanziato un impegno così significativo. Mi rispondono che alla questione finanziaria non hanno dato troppo peso: le famiglie (quelle che potevano) hanno contribuito con 25 euro alla settimana, molti paesani e parrocchiani hanno sottoscritto volontariamente, il Comune ha fornito 400 mascherine, il resto lo ha messo la parrocchia. Chiedo della legge regionale sugli oratori; mi rispondono che il contributo è modesto (220mila euro per tutta la regione), che non è chiaro come sarà ripartito e che la procedura burocratica, dall’esito non scontato, richiederà tempo e pazienza. Ma questa, davvero, non sembra la loro preoccupazione principale.

Don Luigi Filippucci – lo scrivo per i pochi che non hanno la fortuna di conoscerlo- è un roccioso prete di periferia (o, come lui preferirebbe, di “periferie”, perché le periferie sono tante, non tutte e non solo geografiche), con un piede saldamente piantato nel Vangelo e l’altro in continuo movimento. Il primo è il suo ubi consistam, l’àncora e la stella polare del suo agire quotidiano, il secondo la bacchetta di rabdomante con cui se ne va ogni giorno, attraverso una vita ormai lunga, alla ricerca del Prossimo, che lui più semplicemente è solito chiamare “l’uomo”. E sa bene, don Luigi, che l’uomo può essere maschio o femmina, ricco o povero, credente o non credente, compaesano o straniero, e che puoi trovarlo dappertutto, ma lo incontri più facilmente se guardi in basso, nella città invisibile, dove la vita è più dura, le opportunità più precarie e la coscienza più esposta al ricatto delle cose, dei rapporti di forza e delle necessità primarie. Per questo, pur dedicandosi alla preghiera, ti lascia capire che per consolare gli afflitti la preghiera non basta: devi darti da fare, dice, cambiare le cose. Perché le cose possono cambiare. Le piccole cose di ogni giorno, quelle alla portata del tuo agire, e le cose più grandi, quelle che rendono il mondo più inospitale e gli esseri umani più infelici del necessario. Questa coerenza, il legame tra i piccoli cambiamenti possibili, se solo non ti nascondi dietro l’alibi dell’impotenza, e la necessità di un diverso ordine dei rapporti tra gli umani, è la prima lezione che si ricava da ogni sua conversazione. La seconda è emersa con grande chiarezza dalle ultime parole dell’intervista, quando stavamo per alzarci e spegnere il registratore. Io gli ho chiesto se la pandemia avesse portato a galla, nella comunità di S. Eraclio, il meglio o il peggio delle persone, e lui mi ha risposto, senza troppe cautele, che la domanda era sbagliata: c’è stato un allontanamento forzato e inevitabile, ha detto, e questo ha prodotto un grande bisogno di vicinanza, di socialità. Ma perché questo bisogno, che è poi anche un’apertura, un’implicita disponibilità, si traduca in una migliore qualità delle relazioni umane occorre che le persone consapevoli, i soggetti politici, culturali e sociali (“quindi anche tu”, voleva dire) smettano di limitarsi ad osservare la realtà e provino a cambiare le cose, a metterci mani, tempo e cervello. Che è poi quello che hanno fatto, don Luigi e i suoi collaboratori, nella periferica parrocchia di S. Eraclio di Foligno, al tempo del Covid19.

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