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Il Coronavirus in Svizzera

Noemi Galati, folignate residente a Berna, racconta come la gestione dell'emergenza Coronavirus sia stata illuminante nel misurare la diversità di mentalità e di comportamenti tra la Svizzera e l'Italia.

#EPIDEMIA #SOCIETÀ #LAVORO #CHIVAECHIVIENE
Di Noemi Galati

(In foto: proteste contro il lockdown in Svizzera, maggio 2020. Foto di Peter Klaunzen, European Pressphoto Agency)


Mi chiamo Noemi, ho 35 anni e vivo a Berna, in Svizzera, dove lavoro come traduttrice presso il ministero dell’economia, della formazione e della ricerca ed è lì che ho vissuto l’esperienza dell’arrivo del coronavirus e del lockdown. È stata un’esperienza forte, vissuta lontano dalla mia famiglia e amplificata dal fatto di vedere come nei due Paesi la concezione della pandemia fosse molto diversa. In Svizzera il lockdown è stato dichiarato dal ministro della salute Alain Berset il 16 marzo, una settimana dopo rispetto all’Italia. 
La situazione era particolarmente grave nel Canton Ticino, data la vicinanza alla Lombardia e la presenza di 60 000 frontalieri, un po’ meno grave nella Svizzera francese e più tranquilla nella Svizzera tedesca ma i casi erano comunque oltre 1000 al giorno in un Paese di 8 milioni di abitanti. Si decise di chiudere tutto e fu dichiarata la “situazione straordinaria”. Berna è diventata una città spettrale e per 3 settimane ho lavorato da casa, improvvisando la postazione computer sul tavolo della cucina. Per fortuna il lockdown non era duro come in Italia, ci si poteva incontrare in gruppo fino a un massimo di 5 persone ed era permesso uscire senza autodichiarazioni perciò dopo il lavoro spesso andavo a fare una passeggiata. Cercavo di evitare i mezzi pubblici e quando facevo la spesa portavo mascherina e guanti ma ero praticamente l’unica. Questa esperienza mi ha fatto capire quanto sono diverse le mentalità dei due popoli e quanto sono stati diversi i loro comportamenti. La Svizzera si vanta di essere una democrazia dove si discute e si giunge sempre a un compromesso, non ha mai conosciuto dittature e forse per questo molti hanno vissuto il lockdown come un’imposizione, seppure necessaria. Il Governo da parte sua ha sempre cercato di non diffondere il panico e di rassicurare la popolazione, ma secondo me a volte ha sottovalutato il problema. Ad esempio, all’inizio della pandemia vista la carenza di mascherine è stato detto che non erano necessarie perciò il ministero della salute consigliava il distanziamento fisico e il lavaggio delle mani ma non la mascherina, che è diventata obbligatoria sui mezzi pubblici solo il 6 luglio. C’è da aggiungere che a differenza dell’Italia la Svizzera è un Paese federalista in cui i Cantoni hanno molta autonomia e in questa situazione di incertezza il Governo ha spesso scaricato su di loro la responsabilità delle decisioni più impopolari. Inoltre, è stata raccontata la favola, come la chiamo io, dei Risikogruppen ovvero che ci fossero solo alcune categorie a rischio come gli over 65 o le persone con patologie pregresse. Questo ha fatto sì che i più giovani si sentissero deresponsabilizzati e appena le misure sono state allentate hanno ricominciato a pretendere sempre più libertà. Le discoteche non sono state chiuse e nella città di Zurigo in particolare sono aumentati i focolai, tanto che ora si cerca di correre ai ripari imponendo la mascherina nei negozi. Tuttavia, poiché al momento l’andamento di ricoveri e decessi è sotto controllo, molti non accettano le misure restrittive gridando alla dittatura e il mio timore è che gli svizzeri tedeschi non siano consapevoli del rischio sanitario e pensino soltanto alle conseguenze economiche della pandemia. Il mio plauso va invece ai miei connazionali che mi hanno stupito dando prova di grande disciplina e senso civico. Non mi sono mai sentita così fiera e felice di essere italiana.

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