
#POLITICA #SOCIETÀ #ISTITUZIONI
Intervista a cura di Matteo Bartoli
(In foto: Vincenzo Riommi)
Abbiamo intervistato Vincenzo Riommi già vicesindaco di Foligno e assessore regionale alla sanità e al bilancio. Ora, dopo anni di disimpegno, è capogruppo dell’opposizione consiliare di Montefalco “Siamo Montefalco”
Perché hai deciso di tornare alla politica attiva?
«Era aprile del 2019 ed è divenuto evidente l’esistenza di un problema democratico molto serio di cui la situazione devastante del comune di Montefalco era solo uno specchio e che a mio avviso richiedeva, e continua a richiedere, un impegno diretto da parte di tutti coloro che hanno a cuore le sorti della nostra regione. Questo a prescindere dai giudizi e dalle valutazioni sulle forze politiche e sulle esperienze degli ultimi anni che hanno portato, ad esempio, anche me a non riconoscermi più nelle forme tradizionali dell’impegno politico.
Cerco di farmi capire meglio. Come è stato possibile che fino ad Aprile 2019 il gigantesco buco di bilancio di un piccolo comune come Montefalco non era stato evidenziato da nessuno se non dai fornitori che venivano pagati con incredibile ritardo? Com’è possibile che in un comune nel corso di dieci anni si accumulano così tanti debiti nel silenzio di tutti?
Vedi, Montefalco non è il primo comune anche in Umbria che va in dissesto, ma è il primo comune che ci va con queste cifre impressionanti. Il dissesto del comune di Terni del 2017 era con un disavanzo di 500 euro ad abitante, quello del comune di Montefalco è di 800 a persona! E il dissesto a Terni arrivò dopo un lungo percorso politico ed istituzionale caratterizzato da plurimi interventi degli organi di controllo, mentre a Montefalco non si è accorto di niente nessuno. Com’è potuto accadere? Perché né l’opposizione in consiglio comunale né i soggetti istituzionali deputati al controllo dell’attività dei comuni si sono mai accorti di nulla?
Su questa vicenda si evidenziava una apparente sospensione dell’ordinarietà politica e anche una apparente sospensione della legalità che presiede al funzionamento delle istituzioni pubbliche. Perché? Solo incompetenza della maggioranza e incompetenza dell’opposizione?
E’ lecito pensare che ci fosse una cordiale intesa tra soggetti politici apparentemente contrapposti a non darsi fastidio più di tanto. Magari è successo anche altrove a parti invertite. Sembrava che ci fosse dialettica politica, che è anche il primo fondamentale strumento democratico di controllo, ma evidentemente non c’era con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. E se a Montefalco -che non è un comune dell’arcipelago delle Galapagos, ma è al centro di una regione piccola in cui i rapporti sono facili- non c’era normale dialettica politica, è lecito supporre che questa situazione fosse più estesa.
Inoltre, in Italia non c’è niente di più controllato del bilancio degli enti pubblici -ogni comune ogni tre mesi deve comunicare i dati agli enti preposti ai controlli ed ogni impiegato comunale può assicurare che i dati vengono verificati in tempo reale-. Perché nessuno in dieci anni si è accorto di quello che succedeva a Montefalco?
Del resto nessuno si è accorto, nonostante esposti e denunce, di quello che succedeva ad esempio a Nocera o Cannara. Eppure non ci voleva uno scienziato a capire che i rendiconti di Montefalco erano i numeri per il lotto. Anche quando qualcosa di rilevante è stato accertato – cioè l’annullamento della ricognizione straordinaria dei residui avvenuto nel 2017- l’organo di controllo non ha trasmesso gli atti alla Procura per verificare se ci fossero danni per l’erario e conseguenti responsabilità.
Allora è evidentissimo il problema democratico: nessuno doveva disturbare il manovratore. Ribadisco che Montefalco non è il primo comune che va in dissesto -accadde anche a Foligno nell’89-, ma è l’unico comune che ci va in queste condizioni così anomale, ovvero d’improvviso e con un buco gigantesco. Ma le anomalie non sono finite qui: a dire la verità non era mai successo nemmeno che l’artefice del disastro, ovvero il sindaco che ha portato al dissesto il comune, facesse “carriera”.Invece Donatella Tesei è diventata presidente della Regione Umbria. E lo è diventata avendo buon gioco a nascondere i fatti di Montefalco grazie alla disattenzione politica e degli organi di controllo. E allora si capiscono molte cose che francamente sono inaccettabili e pericolose».
Quindi hai deciso di candidarti. Raccontaci.
«Diciamo che difronte a ciò che è diventato palese nell’aprile del 2019 ho sentito il dovere di rispondere all’appello dei pochi ma agguerriti cittadini di Montefalco che me lo hanno chiesto.
Come ho detto siamo ad Aprile 2019 e si stava formando una vera aggregazione civica: sinistra, centro sinistra, cinque stelle. C’era pure gente di destra che aveva votato Tesei in passato e qualcuno di loro sapeva pure quale era la vera situazione debitoria del comune. Avevano trovato un buon candidato sindaco: un giovane, stimato, capace, purtroppo dirigente di un ente dipendente dell’amministrazione regionale. Gli fu recapitato il messaggio che la sua candidatura non era gradita a chi presumibilmente avrebbe vinto le elezioni regionali ad ottobre, così ha rinunciato 4 giorni prima della chiusura delle candidature. Per questo parlo di un problema di ordine democratico e civile. Se non avessi accettato di candidarmi il 25 aprile non si sarebbe candidato nessuno, questa è la verità. E si pensi che il giorno dopo ben 4 dei 12 candidati della lista si sono tirati indietro al momento della sottoscrizione della candidatura. Evidentemente erano abituati a scegliersi sia maggioranza che opposizione. Quasi per miracolo siamo riusciti a chiudere la lista il 27 mattina, ultimo giorno utile per concorrere alle elezioni».
E avete perso.
«Abbiamo perso raccogliendo alle comunali il doppio dei voti ottenuti lo stesso giorno dal Pd alle europee. Penso che quella sconfitta scontata sia stata la base di una ripartenza vera che nel giro di poche settimane ha permesso di far diventare Montefalco il cuore dell’opposizione umbra ai governi fascio leghisti. In un anno abbiamo portato la destra a riconoscere il fallimento della loro decennale esperienza amministrativa».
Il 2019 è stato l’anno in cui la sinistra umbra ha perso quasi tutto ciò che gli era rimasto, Foligno e regione in primis. Tu che appartieni a questa storia cosa ti senti di dire?
«Non sono di quelli che pensano che ci sia stata una sorta di modificazione genetica del popolo umbro. Queste sconfitte non vengono mica da Marte, sono il frutto di anni in cui il centro sinistra, sia a livello nazionale che locale, ha fatto scelte che sono state giudicate inadeguate dai suoi elettori. Il voto è una logica conseguenza».
Hanno votato qualcun altro?
«Neanche più di tanto. Se si analizza bene si scopre che il trasferimento di voto a destra è limitato. Molti hanno scelto di non votare, in particolare i ceti popolari.
In Emilia, alle regionali del 2020 la cintura popolare di Bologna e di altre città è tornata a votare in massa e il risultato è stato quello che conosciamo. Lì il governo regionale e locale di centrosinistra è continuato ad essere percepito come mediamente adeguato a tutelare e promuovere gli interessi dei ceti popolari. Le periferie urbane, pur riconoscendone i limiti, sono andate a votare per difendere quella esperienza amministrativa.
Penso che sia scattato un ragionamento di questo tipo: non è detto che voi -sinistra- mi piacciate come mi piacevate un tempo, ma quest’altri -destra- mi piacciono di meno. Lo stesso ragionamento, la stessa dinamica c’è stata poi anche a Firenze e in altre zone della Toscana in settembre».
Perché tutto ciò non è scattato in Umbria nel 2019?
«Innanzi tutto perché dietro a quanto avvenuto vi è anche una dinamica politica nazionale. L’uscita di Renzi e l’azione seppur limitata e contraddittoria del governo hanno modificato il quadro politico generale e contribuito a riorientare i comportamenti elettorali. Lo si vede bene dal Gennaio 2020. In Umbria invece le città hanno votato nella primavera del 2019, cioè nel momento di massimo consenso della destra. Inoltre quello che è successo in precedenza regione non ha aiutato…
Ma senza ombra di dubbio le vicende umbre sono caratterizzate da un dato più profondo, ovvero il pesante calo di qualità politica nella vicenda amministrativa della maggior parte dei comuni e alla fine anche della Regione.
A ragione, a differenza dell’Emilia e della Toscana, molti hanno ritenuto che in Umbria non ci fosse molto da salvare. E questo calo di qualità nell’azione politica non viene mica dalla luna, bensì è legato alla volontà di tenere fuori la sinistra da ogni amministrazione. Così queste hanno progressivamente perso capacità di interlocuzione e di rappresentanza di ampi strati popolari e si sono persi tratti caratteristici dell’amministrare propri della sinistra, in primis la moralità dei comportamenti».
Veniamo a Foligno.
«Anche a Foligno è accaduto qualcosa di simile. Si veniva da 10 anni di sindacatura Mismetti, che al di là di tutto, pur con limiti evidenti, non hanno esposto la città ai problemi pesantissimi di altre località e di questo vi è traccia anche nel risultato elettorale meno negativo che altrove.
Luciano Pizzoni è stato un buon candidato ma ora, dall’opposizione, se vuole recuperare un rapporto con le persone e gli ambienti vitali della città, il centro-sinistra deve fare molta più politica di quanta ne avrebbe dovuta fare se avesse vinto. Questo è più difficile, non semplicemente perché non si ha in mano la funzione di governo, ma perché si deve ridefinire il progetto e si deve decidere per cosa ed in favore di quali soggetti ci si intende battere. E’ evidente, venire da anni in cui dei problemi concreti delle persone fregava a pochi, non aiuta per niente.
Serve una discontinuità vera per la città, innanzitutto di progetto e poi anche di riferimenti sociali e di possibili protagonisti. Non si può continuare a pensare che il ruolo di chi si occupa della cosa pubblica consista nell’essere parte di un ceto politico che si ritiene designato dalla storia a governare perché più bravo tecnicamente. Non ci si può offrire sul mercato della politica senza ideali al solo fine di salire nella scala sociale. Se è così, se non esiste più un patto, se non esiste più un processo partecipato, la politica diventa mera sovrastruttura invisa al popolo che voterà -se voterà- sulla base di chi gli sta più simpatico in quel momento.
Oggi anche da noi questa è la realtà. Non esiste più un processo politico partecipato e condiviso se non in ambiti nuovi, vedi Foligno in Comune, ma ancora limitati. E non esiste, non perché è cambiato il mondo, ma perché è cambiata la politica. I valori della sinistra non è vero che oggi sono marginali, anzi sono ancora sentiti dalla maggioranza della popolazione. Non c’è un problema di domanda, c’è un problema di offerta politica».
Ma quando e come si è rotto questo rapporto?
«Questo è il dramma degli ultimi dieci anni. La crisi del 2008 è l’unica crisi del capitalismo finanziarizzato da cui se ne è usciti -si fa per dire- politicamente a destra. I lavoratori, che sono stati per oltre un secolo la base sociale di riferimento della sinistra, per la prima volta, nel momento in cui ne avevano più bisogno, hanno avuto una nuova versione della “sinistra” che accettava acriticamente tutti i mali del mondo. Nello specifico il processo di globalizzazione finanziaria ha devastato diritti e prospettive delle masse popolari che di conseguenza hanno fatto altre scelte.
Per la sinistra europea in particolare è stato fatale avere accettato di continuare sul percorso di Maastricht senza un pilastro come l’unione politica. Non ci vuole un genio a capire che una moneta unica, senza una autorità politica unica, pone un problema democratico enorme. Non è questione di europeismo o sovranismo, è questione di controllo democratico delle scelte. Lo stato nazionale con le sue logiche era anche lo strumento nel quale si esprimeva la sovranità democratica e popolare. Se ci sono le condizioni concrete -che dal 2007 sappiamo non esserci- si può andare oltre, ma almeno riposizionando gli strumenti della rappresentanza popolare in un altro punto efficace.
Ma se i poteri in materia economica, quelli fondamentali che poi determinano la vita delle persone, vengono sottratti ai parlamenti nazionali per essere conferiti ad autorità che nessuno ha eletto che, come gli antichi aruspici, interpretano i segni dei mercati, è evidente che non si sono uniti i popoli d’Europa in una entità più ampia e forte, ma li si è espropriati dei loro poteri democratici e li si è resi subalterni agli interessi primari del capitale finanziario globale. Capitale che non a caso continua a prosperare, mentre i lavoratori si dibattono tra disoccupazione, precarietà e perdita di tutele.
La sinistra storica europea ha accettato lo schema ideologico che vede il mondo segnato, che vede la politica subalterna agli interessi mercantili. Sai che c’è di nuovo? Che la gente che in questo mondo non ci sta tanto bene l’ha mandata a quel paese.
Oggi bisogna quindi ripartire dal basso, dai bisogni delle persone e da lì, su basi nuove, impegnarsi con voglia nel cambiare questo mondo».
Bene, allora molte delle preoccupazioni di questi giorni sono legate alla sempre più grave situazione pandemica. Tu sei anche stato assessore alla sanità. Cosa hai da dire?
«Anzitutto è necessario premettere che la situazione che stiamo vivendo oggi, ovvero l’epidemia su larga scala, era un rischio strategico denunciato da anni dalla comunità scientifica proprio perché amplificato dal processo della globalizzazione. Non a caso tutti gli stati moderni hanno dei piani pandemici. Da questo punto di vista quanto abbiamo investito per attrezzarci a reggere l’urto di una possibile pandemia globale?
Noi italiani abbiamo avuto la sfortuna di subire questa epidemia dopo un decennio di progressivo depauperamento del sistema sanitario nazionale. Tutto ciò deriva dall’affermarsi di quelle politiche liberiste che vedevano nella riduzione della spesa pubblica per il welfare e per gli investimenti, oltre che nella riduzione del carico fiscale sulle imprese e sui ricchi, il suo cardine principale.
E’ dalla finanziaria del 2010 che in Italia abbiamo cominciato a tagliare sulla sanità e in alcune regioni il taglio ha inciso ancora più profondamente perché si è associato alla privatizzazione del sistema sanitario effettivo. In termini reali significa che una parte delle risorse destinate alla cura delle persone va invece a remunerare il capitale privato investito nelle strutture convenzionate -il cosiddetto taglio implicito-. Fra queste senza dubbio la Lombardia con risultati evidenti.
Siamo riusciti in concreto a difenderci – al contrario della Germania che non ha tagliato in sanità- solo grazie al lockdown perché avevamo anche un sistema di tracciamento totalmente impreparato. Sempre in Germania facevano 500mila tamponi al giorno già a Marzo, noi invece ne facciamo 200mila solo adesso con infinite difficoltà. Ora la seconda fase, favorita dallo slabbramento del sistema, ci rimette nella stessa situazione di Marzo però con il contagio diffuso su tutto il territorio.
Ma se salta il tracciamento -ed in Umbria è già saltato dal 24 di ottobre- la situazione si farà davvero drammatica perché un eventuale nuovo lockdown non produrrebbe gli stessi effetti sanitari del primo e il paese avrebbe difficoltà a reggerlo sul piano economico e sociale.
Durante la prima fase gli italiani hanno avuto nel complesso una grande capacità di reazione che altri non hanno avuto, ma ora la situazione è critica anche perché molti degli attori in campo giocano in maniera irresponsabile, senza alcun senso dello stato e della comunità. Non si può fare finta che è tutto uno scherzo, si devono necessariamente fare sacrifici. Si deve far capire che non tutte le attività economiche sono sullo stesso piano. Insomma si devono riconvertire le attività produttive per reggere l’urto, bisogna chiedere a tutte le persone di fare dei sacrifici, ma su una prospettiva che dica chiaramente quali sono i rischi e quali gli obiettivi e poi come farsene carico tutti assieme».
Sul piano locale?
«In Umbria sono passati sei mesi senza riuscire ad attrezzare una struttura sanitaria che sia una, intanto si sono riaperte le scuole senza adeguare nemmeno le linee di trasporto. Nei mesi scorsi nessun sindaco è riuscito a garantire il controllo su situazioni come quella di via Gramsci a Foligno, mentre quest’estate siamo stati a discutere delle siepi di piazza Matteotti -senza peraltro capire niente di quello stava accadendo-.
Le amministrazioni regionali e comunali smontano le politiche sociali e di integrazione e non controllano il territorio se non su Facebook. Il risultato è una città ed una regione allo sbando che si avvicinano al baratro a passi da gigante, senza politiche né di indirizzo strategico né di gestione dell’emergenza».
Entriamo un po’ più nel dettaglio.
«In questi sei mesi gli amministratori regionali non hanno programmato né in materia di salute né di ripresa e sviluppo economico. Niente, se non gli affari dei propri interlocutori sociali, cioè delle strutture convenzionate in sanità. Quanto ci sarebbe voluto ad attrezzare alcuni degli ospedali semi-dismessi -ci sono, basti pensare ad Assisi- per renderli utilizzabili per il Covid senza andare a compromettere l’attività ordinaria? Non si muore mica solo di Covid. I macchinari li ha comprati il governo, sarebbero bastate due settimane. Inoltre il governo ha finanziato straordinariamente le regioni fin da marzo, il bilancio avrebbe dunque permesso questo ed altro. Ma non è stato fatto. Perché? Il problema è che mancano gli operatori? Si faccia un piano di assunzioni per le prestazioni ordinarie, si eserciti il ruolo che il governo ha previsto nei rapporti coi privati utilizzando le loro strutture e risorse per l’emergenza Covid. Non è mancato né il tempo né i soldi, è mancata la volontà politica».
E perché non hanno fatto queste cose che tu reputi banali?
«Non hanno fatto niente non solo perché poco capaci, ma perché non era nei loro interessi farlo. La lega si è presa la sanità umbra perché deve “tamponare le perdite”. Forse anche per questo hanno fatto questa operazione con le cliniche private. Il decreto del governo prevedeva la possibilità per le regioni di requisire le cliniche per garantire i servizi ordinari e straordinari, mica per dirottare surrettiziamente i cittadini verso il privato.
Se porti i malati COVID all’ospedale di Foligno -oltre che a Perugia e Terni- blocchi quasi tutte le attività ordinarie dell’Umbria e sei “costretto” ad accordarti con i privati per garantire le attività programmate che sono le meno impegnative e le più redditizie. Viene da pensare che il tuo vero interesse non è garantire la salute ai cittadini, bensì garantire fatturati alle strutture private».
Ora la situazione è grave e rischia di saltare il sistema.
«È molto grave ma mi auguro che ci siano ancora dei margini per non collassare del tutto. Purtroppo in giro non c’è proprio il manico e temo che quest’inverno, anche per il fatto che siamo una regione popolata da parecchi anziani, ci andremo a fare del male.
E se nella prima fase aveva prevalso la solidarietà e l’impegno per resistere al virus, ora rischiamo di veder prevalere le recriminazioni e la guerra fra poveri. Le prime avvisaglie di una stagione durissima già si vedono.
Ci vorrebbe un po’ di sinistra seria in momenti come questi».