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Di Michelangelo Fagotti
(Sopra: la copertina di L’uomo nel labrinto di Corrado Alvaro)
L’uomo nel labirinto uscì nel 1922. In quegli anni la parola umanità era nell’aria: si trovava sui giornali (L’Humanité, il giornale di Jean Jaurès, era uno dei più letti in Europa), sulla bocca degli intellettuali, nei titoli di libri di successo: L’uomo senza qualità, L’uomo in rivolta, La condizione umana, L’esistenzialismo è un umanismo, La peau humaine (questo in origine il titolo del romanzo La pelle di Curzio Malaparte). Dieci anni dopo Alvaro aggiungerà un’altra voce a questo registro, scrivendo il romanzo distopico antitotalitario L’uomo è forte, un romanzo che non è molto conosciuto ma che ha poco da invidiare a 1984 o al Processo.
Il protagonista del romanzo ha un nome posticcio, si chiama Babe: due sillabe a caso, a indicare che quanto vi sia di individuale nel personaggio e nella sua vicenda non è importante (come a dire… non è Emma, né Anna, né Rodion), e a enfatizzare quanto vi sia di universale. La trama del libro è esile, come capita spesso nel romanzo-saggio, e è fatta perlopiù di brevi episodi indipendenti, a tableaux: Babe è un giovane inventore meridionale, emigrato per lavoro in una metropoli del nord. Dopo la morte della giovane moglie Anna rimane solo, senza amici, senza familiari, nella sconfinata desolazione estiva della città. Si aggira per la città in cerca di qualcosa (una persona o un evento) che possa irrompere nella sua solitudine, ma nulla. Dopo alcuni incontri del tutto casuali (tutti quando cambiano città frequentano persone un po’ a caso) incontra May, una ragazza sola e disorientata come lui, con la quale decide di fuggire. Quindi Babe torna nel suo paese (un villaggio meridionale in malora): presto si accorge che anche lì non ha più amici o familiari, che in giro non c’è nessuna faccia amica. Insomma, fuori dal labirinto cittadino c’è il deserto.

(In foto: Corrado Alvaro)
Come dicevamo la trama non è importante, l’unica cosa che conta in questo racconto è «l’intricata matassa dei sentimenti» e delle percezioni del protagonista che Alvaro sdipana con la meticolosità – più di rado con la raffinatezza- dei grandi scrittori “del cuore”, di un Proust, di un Mann (anche il critico Armando Balduino nella sua monografia è costretto a scomodare i grandi nomi, perché il giovane Alvaro pesca a piene mani dalla Recherche e da Morte a Venezia, spesso con profitto). Questo fatto rende difficile parlare del libro senza parlare dei pensieri che l’autore esprime perché, a guardar bene, il libro sta tutto lì.
1) Sulla solitudine: per Alvaro la solitudine è un sentimento che ha tanto a che fare con la presenza delle persone, quanto con la percezione di luoghi, forme, oggetti. Sintetizzo così: è l’assenza delle cose note a farci sentire soli. Chi di noi tornando a casa dopo un lungo viaggio non ha avuto la sensazione di tornare a immergersi nel proprio fluido naturale, come un pesce ributtato in acqua? Ecco, secondo Alvaro questo sentimento è dovuto alla lunga o antica familiarità acquisita con gli oggetti e con i paesaggi consueti. Un po’ il principio sensistico della Madeleine, però applicato alla massa di oggetti che compongono una vita. Qui, per esempio, Babe guarda dormire la sua nuova fidanzata May, ma nel fondo del suo sguardo persiste la forma della defunta moglie Anna. A causa di questa mancata agnizione, il “disegno” di May diventa disordinato, “illogico”.
Per quanto siano diversi i caratteri e gli atteggiamenti umani, la mente non può non ripensare a quelli già veduti e confrontarli. È come guardare i paesaggi d’una stessa terra: l’uno richiama l’altro, e nel pensiero lo completa e illumina. Perciò May nel suo sonno non sorreggeva soltanto se stessa e il suo passato ma un’altra donna e un altro passato. Era come una strada che rasenta diversi e uguali paesi; e Babe aveva il peso di quell’altra nelle mani e negli occhi. Guardando quella mano distesa si perdeva nell’intrigo delle vene senza poterne uscire. Egli conosceva qual era l’altro disegno di quell’altra mano come una cosa sua, e l’effetto che faceva sotto la trasparenza della pelle, quando la mano era in riposo, e il suo scomporsi quando la mano era in moto. Quest’altro disegno gli sembrava disordinato e illogico. […] La sua mente vacillava, notando che il braccio era più asciutto dell’altro che egli conosceva, come vacilla il passo di qualcuno che non trovi uno scalino là dove crede che sia. Gli sembrava di averla modellata lui, e di ritrovarsi fra le mani un esemplare più scarno, come se la materia della fusione si fosse rappresa e non fosse bastata a riempire la forma.
E ecco, dall’altro capo del discorso, come Alvaro descrive (un po’ didascalicamente) la felicità che risiede nell’agnizione dell’oggetto perduto, dell’intesa ritrovata tra l’uomo e la cosa. Qui Babe è appena tornato sull’isola in cui trascorreva le vacanze da bambino:
Laggiù mi ricordo, c’è uno scoglio alto e bianco. Più giù un boschetto d’alberi nani che forse non arrivano più su della testa. Me li ricordo uno per uno. Uno dritto come una lancia, con le foglie tese come scudi; uno ha il tronco storto, e sembra uno sciancato. Io credo che una persona non veda diversamente i suoi amici e i suoi nemici. Quando conoscerai quest’isola, e l’avrai nella mente, dalle tane delle formiche all’aspetto delle sue pietre, tutto sarà animato. […] Ogni cosa mi ricordo. Vedrai domani le piante, quelle che io conosco, perché lassù io non le conoscevo, nei tuoi paesi. Qui io mi accorgo dei loro mutamenti, e ti saprei dire come vivono e come mutano. Io mi accorgo perfino quando sono alla vigilia del frutto.
2) Il labirinto: dopo la morte della moglie Anna, nasce in Babe un senso di attesa che è…scusate il gioco di parole: attesa di senso. Con la morte di Anna la vita di Babe si svuota di colpo: è vedovo a trent’anni, il lavoro non va, amici nessuno, familiari neanche l’ombra, vive in un albergo (la suocera lo ha cacciato di casa), in una città crepuscolare, céliniana, in cui «c’è un aborto di felicità a ogni angolo di strada» (Voyage). Il protagonista si aggira per le strade in uno stato di perenne tensione, di attesa, come un uomo perso in un labirinto che si guardi freneticamente attorno in cerca di una via di fuga; ma dietro a ogni angolo, proprio dove potrebbe attenderlo l’Evento o l’Incontro in grado di cambiargli la vita, c’è sempre un vicolo cieco.
La voce continua della strada e il rumore del suo passo lo accompagnavano anche nel sonno, come qualche cosa di cui non capisse il significato. […] Si era messo a girare la città e a spiare alle porte. Forse aspettava che da esse uscisse qualcuno che decidesse dei suoi giorni e della sua sorte. Saliva certe scale e ne discendeva, in punta di piedi, fermandosi sorpreso dal batticuore, arrestandosi a leggere in ogni porta il nome di chi vi abitava.
Alvaro è meglio conosciuto come scrittore meridionalista (il suo libro più famoso è di gran lunga Gente in Aspromonte), non molti conoscono e leggono la sua produzione modernista. A ben vedere i due filoni non sono così distinti: per esempio, il fatto che Babe sia un emigrato meridionale non è secondario, tutt’altro. Il romanzo è quasi in tutto un libro sulla condizione degli emigrati del sud: solo che invece di parlare di un proletario (come fanno Visconti, Silone, Levi), parla di un piccolo borghese con velleità intellettuali (un alter ego di Alvaro), e invece di farlo con i mezzi stilistici del verismo o del neorealismo, lo fa con quelli del novecentismo italiano.A distanza di quasi cento anni L’uomo nel labirinto è un libro giovane, perché le cose di cui parla (migrazione per lavoro e conseguenti conflitti culturali e simbolici, emarginazione sociale, solitudine, angoscia, nostalgia) sono fenomeni che investono la modernità in generale, non solo l’epoca di Alvaro. È un libro che oggi molte persone (lavoratori al nord, studenti fuori sede, cervelli in fuga, migranti) potrebbero apprezzare perché riflette una condizione che molti di noi vivono oggi, mutatis mutandis. Non è che il libro di Alvaro ci risolva le cose, però ci aiuta a conoscerci un po’ meglio, a riflettere su che cosa ci sia di bello (ma per Alvaro soprattutto di brutto) nel lasciare il paese, cambiare città.