
#SOCIETÀ #SANITÀ #EPIDEMIA
A cura di Susanna Minelli e Lorenzo Monarca
(In foto: un kit per effettuare un tampone molecolare)
Agli ingegneri viene insegnato che quando si progetta un ponte lo si fa con il massimo pessimismo, così che quel ponte possa reggere anche in presenza di uragani e terremoti. La sensazione a pelle che uno ha della gestione estiva della pandemia umbra è che sia stata condotta nel verso esattamente opposto, ovvero con il massimo ottimismo.
Quando però si vanno ad analizzare i dati la sensazione diventa drammatica realtà: perché oltre a spot pubblicitari per rilanciare il turismo e l’economia sul piano della prevenzione pandemica è stato fatto poco o nulla, al punto da chiederci quante ondate serviranno per capire che la questione va gestita proprio sul piano previdenziale e non su quello emergenziale. Per esempio in una nota l’assessore alla sanità Coletto afferma che è importante ai fini diagnostici fare tamponi anche agli asintomatici. Ottimo e anzi lungimirante, visto che la dichiarazione è dello scorso 11 marzo; peccato che nella regione che governa, sfortunatamente proprio l’Umbria, è saltata ogni possibilità di tracciamento già da un mese, al punto che il 23 ottobre è stata data indicazione alle ASL di non effettuare più screening su sospetti asintomatici, il che significa senza mezzi termini l’ammissione di una totale debacle. Giusto per dare dei riferimenti: la settimana prima i positivi erano stati complessivamente appena 1800 su oltre 22000 tamponi (oggi viaggiamo intorno ai 5-600 casi al giorno). Sul fronte delle terapie intensive poi la vicenda è oltremodo grottesca: sempre stando all’assessore le 70 terapie intensive umbre sarebbero dovute diventare 127 (incremento pari a 0,14 posti letto ogni mille abitanti) secondo quanto stabilito a maggio dal piano nazionale Arcuri per la sanità. Peccato sempre però che al 14 ottobre erano rimaste 70 (anzi 77, come ha precisato l’assessore, vantandosi che l’Umbria non fosse tra le peggiori 3 regioni ma tra le peggiori 4): infatti secondo la giunta la colpa era di Arcuri che non ha reso disponibili i fondi ministeriali (curioso che tutte le altre regioni invece siano riuscite ad accedervi), costringendo la sanità umbra a pagare di tasca propria quelle 7 postazioni aggiunte. Le accuse sono state rispedite al mittente dallo stesso Arcuri e dalle opposizioni regionali in un comunicato congiunto del 30 ottobre, nel quale si sottolinea che l’ipotesi dei 127 posti di terapia intensiva secondo la regione si sarebbe risolta nel 2023, come scritto nella relazione consegnata al ministero. Ora ci si dovrebbe chiedere come un piano progettato per svilupparsi in circa 3 anni possa essere portato a termine in “massimo 3 giorni”, come ha promesso la presidentessa Tesei lo scorso lunedì in diretta a SkyTg24. O sta promettendo a sproposito ora o ha fatto poco prima la nostra presidentessa: delle due una. In effetti ad oggi i posti di terapia intensiva hanno raggiunto una quota non lontana da quelle 127 che abbiamo detto essere programmate a marzo scorso e messe in opera frettolosamente solo negli ultimi 15 giorni: tuttavia, ribadiamo, il tutto è stato fatto tardi e senza un minimo di gioco di anticipo, ma solo nella necessità di rincorrere il virus. Infatti delle 68 postazioni ad oggi dedicate esclusivamente ai malati covid ne sono libere 0.
Tale preoccupante narrazione ci viene direttamente da fonti interne ai vari ospedali, che oltre alle terapie piene ci raccontano di reparti ospedalieri al collasso e di (poco) personale sanitario allo stremo. Per tutelare gli operatori sanitari che ci forniscono le loro esperienze professionali e personali riportiamo i fatti che ci raccontano in forma anonima: questo perché non solo questi professionisti sono inabissati da una mole di lavoro senza precedenti, ma ci giungono anche voci insistenti e confermate da più attori di richiami e di pressioni sui lavoratori che decidono di far sentire al pubblico la loro voce.
“I degenti meno gravi ricoverati nel reparto dell’ex oncologia riconvertito a Covid – racconta un operatore sanitario del Santa Maria della Misericordia di Perugia – sono stati trasferiti all’ospedale da campo che allo stato attuale (ndr al 15 novembre) ospita 13 pazienti. Questo per far spazio ad altri degenti in arrivo in condizioni decisamente più complesse. L’oncologia Covid , quindi, con questi ultimi arrivi, diventa un reparto ad intensità di cura più elevata rispetto a prima, pur con lo stesso personale di prima, poiché la direzione medica ancora non ritiene opportuno indirizzare medici da altri reparti nelle aree covid. Così, mentre all’epoca della prima ondata in ospedali come quelli di Brescia o Bergamo, nei reparti Covid venivano inviati medici anche da reparti come dermatologia o oculistica, a Perugia questo non sta succedendo, perché i primari dei vari reparti fanno muro. Per di più lo staff della medicina Covid ha tre medici che stanno per andare in pensione fra poche settimane. Con i numeri risicati dello staff attualmente disponibile si chiede in sostanza di coprire entrambi i reparti covid, e quindi con ogni probabilità questi operatori sanitari saranno costretti a raddoppiare i turni, visto che con i turni normali non ce la fanno a coprire i bisogni”. Poi parla delle terapie intensive covid, confermandoci che sono tutte occupate e che ormai “si vive alla giornata e in costante equilibrio precario”. “Posso dire – continua l’operatore – che di fatto ci sono persone che dovrebbero essere in rianimazione e invece non è possibile inserirle, trovandosi così ad affrontare la malattia con i ventilatori ad alti flussi. C’è anche un’altra vicenda estremamente grave: la direzione ospedaliera ha dato direttive di aggiungere al conteggio dei posti di intensiva anche le postazioni UTIR già esistenti del reparto di pneumologia (tra l’altro tutte già occupate con pazienti normali), che però non hanno tutte le caratteristiche che dovrebbe avere una terapia intensiva normale, gonfiando di fatto il numero delle terapie intensive a disposizione” . E anche sul fronte dispositivi medici la situazione è tutt’altro che ben calibrata: “Stanno finendo i macchinari di ventilazione non invasiva. Dal personale medico sono state richieste due macchine di alti flussi un mese fa e ancora non sono arrivate. Ad oggi abbiamo problemi anche con i ventilatori. Circa due settimane fa è stato chiesto se servivano degli elettromedicali e i medici dell’area covid ne hanno fatto richiesta con la promessa che sarebbero arrivati a giorni, ed invece ad oggi (ndr 16 novembre) ancora niente” afferma la nostra fonte. Timore è diffuso anche sulla funzione che verrà assegnata all’ospedale militare da campo: “Ho proprio paura che l’ospedale militare diventi una mera passerella per la politica, anche a fronte del fatto che lì vengono spostati i pazienti covid con sintomatologia lieve. Finché lì verranno inviati pazienti lievi provenienti dai reparti la situazione potrebbe essere gestita visto che sono tutti pazienti che sono già stati tutti inquadrati clinicamente, ma se lì dovessero essere convogliati pazienti covid provenienti dal pronto soccorso, seppur con sintomatologia lieve, qualche timore in più potrei iniziare ad averlo poiché purtroppo è cosa nota che c’è la possibilità che le condizioni di questo tipo di pazienti possano precipitare nel giro anche di due o tre ore. In sintesi credo che la struttura da campo sarà piena in tempi brevissimi visto che si tratta di 37 posti, senza considerare che il problema che sta mordendo di più è quello delle terapie intensive riservate ai covid che nonostante i tanti proclami politici sono ferme a 68 con un fabbisogno ben superiore. L’inadeguatezza poi della gestione dell’ospedale è data anche da un altro dato: malati di covid che però necessitano anche di cure specialistiche (in particolari i pazienti della dialisi e i pazienti del reparto di psichiatria) non hanno un percorso dedicato nel loro reparto e finiscono inevitabilmente nel camerone delle malattie infettive con tutti gli altri” conclude l’operatore sanitario. Spostandosi all’ospedale San Giovanni Battista di Foligno, ospedale misto che non accoglie terapie intensive covid, la situazione nei reparti covid pare ancora sostenibile ma con grandi sforzi da parte del personale sanitario di servizio che si ritrova come a Perugia a fare fronte ad una mole di lavoro senza precedenti. “In medicina covid, si trovano ricoverati attualmente 24 pazienti che di fatto sono il numero massimo di utenti che si possono ospitare. In turno ci sono 4 infermieri la mattina, 4 Il pomeriggio e 3 infermieri di notte, oltre che un oss sempre presente ad ogni turno” afferma un operatore sanitario del San Giovanni Battista. Poche informazioni e abbastanza filtrate. Il clima in corsia è teso e chi parla all’esterno non è visto di buon occhio. Forse a fronte anche di quanto accaduto nel raggio di due settimane con il reparto di medicina d’urgenza covid costretto a chiudere per la positività di tre operatori sanitari e quello di Pneumologia isolato per lo stesso identico motivo. I sindacati in più occasioni hanno lanciato grida di allarme a causa della carenza sostanziale di organico. E non solo a causa del progredire della pandemia. Da quando il San Matteo degli Infermi di Spoleto è diventato ospedale covid, il pronto soccorso folignate è diventato il punto di riferimento per tutta l’utenza dello Spoletino. Non si muore di solo covid. Ed è vero. Ma il covid potrebbe essere la causa indiretta di morte per tutti quei pazienti che bisognosi di cure meno urgenti potrebbero trascurare le proprie patologie. Ma questo purtroppo è un vecchio discorso, già affrontato più volte, ed anche da Sedici Giugno. Ma c’è chi fa orecchie da mercante, accumulando lacune e ritardi, strizzando l’occhio alla sanità privata.