
#COVID
Di Melissa Verdinelli
La legge n.38 del 15 marzo 2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” fa sì che la tutela dell’individuo che sta vivendo una condizione di dolore e sofferenza conseguenti a una malattia non guaribile, sia parte integrante e imprescindibile dei LEA, ovvero dei Livelli Essenziali di Assistenza. I LEA sono l’insieme delle prestazioni che il nostro Sistema Sanitario Nazionale è tenuto ad assicurare a tutti i cittadini, in forma gratuita (mediante le risorse pubbliche) o dietro pagamento di una quota di partecipazione (il cosiddetto “ticket”), in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. I Lea vengono fissati nel rispetto “dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure […] “; vale a dire che senza i Lea, l’articolo 32 della Costituzione che tutela il Diritto alla Salute del cittadino e della collettività non potrebbe esse garantito. Ebbene ci si accorge finalmente che la sofferenza “immotivata” e il dolore fisico secondario ad una malattia cronica ledono, anzi, logorano, la dignità di una persona. Utilizzo l’aggettivo “immotivato” con una particolare accezione: il dolore è un campanello di allarme che ci allerta che qualcosa dentro di noi non sta andando come dovrebbe. Se non provassimo dolore toccando una pentola bollente ci ustioneremmo una mano. Un dolore addominale anche se spiacevole ci fa correre dal medico, ci spinge ad un’indagine più approfondita e quindi ad intervenire in tempo. A sostegno di questo possiamo affermare che talvolta, purtroppo, sono proprio le disfunzioni silenti quelle che ci prendono in contropiede, poiché si dà loro inconsapevolmente modo di guadagnare terreno e di diventare pericolose.
C’è dolore e dolore
Il dolore a volte è necessario. Ma c’è dolore e dolore. Quando il meccanismo perfetto che è il nostro corpo umano s’inceppa, quando diventiamo davvero “consapevoli” della sua presenza e cominciamo a “sentirlo” anche fin troppo bene, quando diventa un peso o addirittura una prigione – insomma – quando ci ammaliamo, il dolore può essere una costante. Un appuntamento quotidiano. Il nostro tenace, fedele, puntuale visitatore indesiderato. Sono ormai maturi i tempi in cui la sofferenza e il dolore diventano oggetto di legislazione dopo tanti anni in cui siamo stati abituati a pensare che soffrire fosse eroico, che solo camminando a piedi nudi su una strada di spine saremmo stati legittimati ad essere beati.Nella Legge 38 del 2010 viene introdotto l’obbligo per infermieri e medici di rilevare il dolore nella cartella infermieristica e medica, misurandolo con appositi strumenti d’indagine sia all’ingresso che durante tutto il periodo di degenza dell’assistito. È un importante conquista per l’individuo, per il cittadino che si sente preso in carico in maniera globale, che non deve vergognarsi di rivelare la sua fragilità, che non deve temere di non essere creduto sull’entità della sua sofferenza. Rifletto però sul fatto che per quanto la medicina moderna cerchi di oggettivare il dolore osservandolo analiticamente: «Quanto le fa male indicandomi un numero che va da 0 a 10?» – rimane vuoto un cruciale pezzo del puzzle e cioè che il dolore è un’esperienza interiore e individuale, non completamente esprimibile solo attraverso il linguaggio. Il nostro corpo non è solo körper, cioè l’insieme di organi e apparati oggetto del sapere medico, ma è anche leib, il corpo vivente, che percepisce, sente, ed è portatore di significati. Ognuno di noi ha una propria esperienza del dolore: qualcuno lo manifesta platealmente – tornando talvolta ad utilizzare forme pre-linguistiche tipiche di quando si era bambini – qualcun altro sopraffatto dal pudore riesce ad essere intellegibile. Altri ancora, impossibilitati dalle proprie condizioni psico-fisiche, non riescono ad esprimere la propria sofferenza.
Comunicare si può, ascoltare si deve
Tuttavia, come ci ricorda Paul Watzlawick negli assiomi della comunicazione “è impossibile non comunicare”. Un infermiere o un medico possono, anzi, devono, accorgersi che una persona sta soffrendo anche se non proferisce parola: esiste infatti un lessico che compone il cosiddetto “linguaggio non verbale” che impone al personale sanitario di carpire quei segni che possono trapelare da un corpo sofferente. Considerato da parte della letteratura medica il quinto parametro vitale – poiché a sua volta può influenzarne altri – diventa quindi obbligatoria la rilevazione del dolore nella cartella clinica e infermieristica nonché la registrazione degli interventi (farmacologici e non) attuati per rispondere al “Bisogno di comfort” dell’assistito. È per questo ma anche e soprattutto per la sua attenzione e attitudine al benessere fisico e psicosociale dell’individuo che l’infermiere nel proprio agire professionale controlla ad ogni turno la presenza o assenza del dolore in ogni paziente avvalendosi di apposite scale di rilevazione. Non solo un obbligo di legge ma un dovere etico-morale per gli infermieri che guardano al loro Codice Deontologico con riconoscenza e in questo caso si appellano agli articoli 17 e 18 dello stesso: Art. 17: «Nel percorso di cura l’Infermiere valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. […]» Art. 18: «L’Infermiere previene, rileva e documenta il dolore dell’assistito durante il percorso di cura. Si adopera, applicando le buone pratiche per la gestione del dolore e dei sintomi a esso correlati, nel rispetto delle volontà della persona.»
Una malattia è un’esperienza drammatica, una rottura nella biografia di una persona, una crepa inesorabile che scinde l’esistenza in due: c’è sempre un prima e un dopo la diagnosi di una malattia. È un’irruzione violenta, inaspettata. Viene stravolto il ruolo sociale della persona colpita, vengono minati i suoi equilibri famigliari. Non a caso in inglese esistono ben tre modi per definire la malattia: Il primo è Disease ovvero un’affezione intesa in senso puramente biologico, un’alterazione dallo stato fisiologico; il secondo è Illness cioè “il mio vissuto di malattia” ovvero i miei sentimenti, le mie percezioni, come sto vivendo la mia condizione di malato, i miei pensieri ora che “non sto più bene”. Infine, con Sickness s’intende il modo in cui il contesto sociale interpreta la malattia. Attraverso la Sickness passano le stigmatizzazioni, le etichette che vengono affibbiate – “quello è diabetico” oppure “quello è asmatico” o “è cardiopatico” (sono aggettivi che in qualche modo additano una persona, la bollano come “diversa”) – e di conseguenza attraverso questa accezione passano i diritti che un soggetto malato ha o dovrebbe avere e i doveri che la società ha o dovrebbe avere nei confronti di chi si trova in una situazione di svantaggio.
Altri importanti aspetti introdotti dalla legge 38 del 2010 sono:
- l’attivazione delle reti di terapia del dolore e di cure palliative su tutto il territorio nazionale in modo uniforme;
- la semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore: tutti i medici del SSN possono prescrivere farmaci oppiacei non iniettabili utilizzando il consueto ricettario e non più quello “speciale” che prevedeva tre copie (elemento burocratico che in più di un’occasione potrebbe aver fatto desistere qualche medico prescrittore).
- l’individuazione di specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di terapia del dolore connesso a patologie neoplastiche e malattie cronico-degenerative, cosicché vengano riconosciute specifiche figure professionali con determinate competenze (medico palliativista, infermiere, psicologo) nell’ottica di una gestione multidisciplinare.

2011, nasce Persefone
La realtà folignate non si è fatta trovare impreparata ed ha risposto con sollecitudine a quella che possiamo definire una vera e propria sfida nei confronti della sofferenza e del dolore “inutile” (ovvero quel dolore cronico, non più imputabile ad un processo morboso acuto ma che è diventato “malattia a sé stante”, una malattia nella malattia). Nel 2011, a solo un anno dall’emanazione della Legge 38, nasce Persefone. La presidentessa dell’associazione ONLUS Anna Maria Paci, medico psicoterapeuta, decide di fare della sua professione un ancor più prezioso strumento di aiuto dando vita ad un progetto di Assistenza gratuito per i cittadini su base volontaristica. Organizza il primo corso di formazione per volontari presso l’Associazione di Pubblica Assistenza Croce Bianca (tutt’ora sede legale di Persefone) in collaborazione con un medico palliativista e un altro medico psicoterapeuta. Il corso ha un titolo evocativo “Curare anche quando non si può guarire”. Molti cittadini percepiscono l’entità complessa della tematica, probabilmente riconoscono che è qualcosa di urgente e necessario. Seguono altri corsi dal contenuto rilevante e profondo come “Ascolto, parole, contatto, silenzi: la comunicazione quando la vita è al limite”, “Sciogliere i nodi del dolore e della sofferenza”, “La perdita, il dolore, il lutto: l’eco dentro di noi”. Il nucleo viene costituito: oggi l’équipe conta una ventina di volontari attivi cui fanno parte, oltre ai già citati medici, anche due infermieri e personale laico. Ponendosi a fianco del Servizio Cure palliative dell’USL Umbria n. 2 (stipulando con quest’ultima un protocollo d’intesa) Persefone è andata ad implementarne i percorsi di cura, dando riposte adeguate e preziose a chi manifesta bisogni tanto particolari come chi è affetto da una patologia non guaribile (non necessariamente di pertinenza oncologica). Oltre a continuare ad organizzare corsi di formazione e convegni dalle tematiche sempre attuali per i volontari e gli operatori dei servizi, Persefone garantisce supporto psicologico alla persona che si ritrova ad affrontare l’inaccettabile, inclemente condizione della malattia, nonché alla sua famiglia (colpita in egual misura se non più duramente).La persona e i suoi caregiver vengono “presi in carico” nel vero senso della parola: hanno a disposizione i numeri di telefono dei volontari che possono chiamare in qualsiasi momento per chiarimenti, supporto psicologico o semplicemente per parlare. «E’ proprio questo aspetto la chiave di volta: la relazione di aiuto.» mi dice la Dott.ssa Paci «non occorre alcuna laurea. Saper semplicemente ascoltare l’altro, è tutto ciò che serve.» La parola empatia – di cui oggi si abusa e che viene sbandierata ai quattro venti – trova autenticità in queste: la vedo prendere forma nelle lunghe conversazioni dei volontari con i pazienti, in una mano che si posa su un’altra per dare conforto, negli sguardi che s’incontrano e che diventano alleati. Non è raro trovare chi in un primo momento non vuole affidare la propria storia, la propria condizione di malattia, a quello che vedono come un estraneo. In questi casi i volontari devono superare una prova ancor più difficile e cioè vincere queste resistenze riuscendo a guadagnarsi la fiducia dell’assistito. Nessuna situazione è semplice e mai nessuna è mai stata motivo di resa, semmai il contrario. Ciò che fa Persefone è “prendere per mano”, accompagnare. Gli assistiti hanno paura di morire, ma ancor prima di questo hanno paura di soffrire. Viene quindi illustrata ai pazienti la possibilità di essere sedati quando il dolore diventa insopportabile o quando si capisce che si sta avvicinando il momento cruciale del fine vita.
La legge 219/2017
Va ben distinta l’eutanasia, illegale nel nostro paese, dalla possibilità di attuare la Sedazione Palliativa profonda, come prevista dalla Legge 219 del 2017. Il testo di legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” provoca in me forti sensazioni. Mi rendo conto di quanto sia profondo il contenuto e allo stesso tempo vulnerabile il terreno, anche alla luce del lungo dibattito medico e politico che si è succeduto negli anni e che si è riacceso in concomitanza di casi che hanno suscitato clamore come quello di Welby, di Eluana Englaro e di Dj Fabo – casi per i quali, ricordiamo, si è giunti ad interpellare la Corte di Cassazione proprio per la mancanza di una legislazione che disciplinasse tali aspetti. I tre importanti pilastri illustrati dalla legge 219, la quale meriterebbe un approfondimento a sé stante, sono:
- il Consenso Informato come strumento imprescindibile di alleanza terapeutica tra medico e paziente. Ogni persona ha infatti il diritto “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”. Vengono altresì disciplinate le modalità in cui tale consenso può essere espresso.
- Le DAT, altrimenti note come “testamento biologico”. Nella possibilità o in previsione di un’eventuale incapacità dell’individuo di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, è prevista la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari – nonché il consenso o il rifiuto – su accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari.
- La terapia del dolore e la sedazione palliativa profonda, di cui all’Art. 2 leggiamo: «il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla Legge 15 marzo 2010, n. 38. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
Come e perché sostenere Persefone
Alla luce di queste considerazioni si percepisce maggiormente l’importanza della presenza sul territorio di un organo di assistenza come Persefone. L’Associazione riesce a sostenersi grazie alle donazioni della cittadinanza, alle quote annuali versate dagli iscritti, ai fondi che vengono raccolti in numerose iniziative di sfondo socio-culturale (cena natalizia di beneficienza presso la struttura Ca’rapillo di Spello, spettacoli teatrali, mercatino di Natale presso l’atrio dell’Ospedale San Giovanni Battista di Foligno tanto per citarne alcune) e alle donazioni del 5×1000; riesce così ad acquistare importanti presidi sanitari come letti articolati, materassi antidecubito, medicazioni avanzate e sollevatori: dispositivi dal costo elevatissimo che graverebbero in maniera incresciosa su una famiglia già piegata da una situazione di grande sofferenza, senza parlare di chi non potrebbe assolutamente permetterseli. A causa dell’emergenza Covid quest’anno la quasi totalità di questi eventi non ha potuto avere luogo; per sopperire alla mancata entrata di questi fondi che sarebbero stati d’importanza vitale per l’associazione, la stessa ha distribuito un bellissimo calendario che ha visto ricongiungersi (in questo tempo di distanze) le 95 organizzazioni che formano la Federazione nazionale di Cure Palliative. In ogni mese il pallium, simbolo delle cure palliative, afferma il suo voler essere rifugio e protezione. L’intervento di Persefone può essere richiesto mediante l’attivazione del Servizio di Cure Palliative dell’Usl Umbria 2, o tramite il Medico di Medicina Generale (medico di famiglia). Esiste inoltre un canale diretto per avere ulteriori informazioni sull’associazione chiamando il 3887767141 o il 3930512660.
“Nessun uomo è inutile, se allevia il peso di qualcun altro”, Mahatma Gandhi.

In foto: il calendario della Federazione Cure Palliative.