
#AMBIENTE
Di Mario Lolli, presidente del Comitato per la difesa dell’acqua e dell’aria di Bevagna
In foto: la deforestazione della foresta pluviale equatoriale in Brasile
Nel bel mezzo del bailamme mediatico seguente questa terribile pandemia, dove principi e riferimenti scientifici sono stati spesse volte oltraggiati e messi in discussione, e in previsione di una cascata di soldi sulla nostra nazione senza precedenti, si è fortificata la presenza sui media locali e nazionali di piagnistei accorati e continui, alla ricerca di qualche misero obolo per le proprie categorie, che ad onor del vero in tempo di vacche grasse si lamentavano assiduamente per il peso delle tassazioni e dei controlli fiscali, con la speranza forse di ripristinare il più velocemente possibile quel sistema che ha procurato loro ricchezze, seppur circoscritte nel numero delle persone, a discapito delle più elementari regole della salvaguardia del genere umano e della terra che ci ospita. A questi lamenti dolorosi si sono associati, con tempestività elettoralistica, anche molti politici, di tutti gli schieramenti, che si affannano a richiedere un ritorno alla normalità.
Ma quale normalità vogliamo, perché la normalità era il problema. Vogliamo tornare alla normalità dell’osceno inquinamento atmosferico delle nostre città? Vogliamo tornare alla perversa e distruttiva interpretazione dell’economia come modello basato sulla crescita economica continua, sulla massimizzazione dei profitti di pochi a discapito dei tanti, sull’uso smodato delle risorse naturali, sul consumismo, sull’ opulenza della società? Risulta evidente la necessità di cambiare visioni e orizzonte, di capire che il modello di sviluppo che ci ha sostenuto non è più percorribile, non ci dà più le garanzie per un futuro sociale ed economico sicuro.
Antonio Guterrez, segretario generale dell’Onu, ha già messo in guardia dell’urgenza di avviare un confronto planetario per la salvaguardia totale del pianeta. “L’ecosistema mondiale è malato, ha avvertito, e bisogna agire quanto prima per ripristinarne l’equilibrio. C’è un legame diretto, incontestabile e manifesto, tra questa pandemia e l’impoverimento delle biodiversità sul pianeta determinate dai cambiamenti climatici e più in generale dal degrado imperante e incontrollabile dei biosistemi. Il rapporto dell’Onu del 2019 “The World Population Prospects”, stima che nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9,7 miliardi, per arrivare, entro la fine del secolo, a quasi 11 miliardi di persone. Lo squilibrio creato, con l’abbattimento delle barriere ambientali naturali, produrrà le migliori condizioni per un aumento della possibilità di nuove epidemie”.
“L’arrivo di una pandemia così grave era una questione di tempo, ha detto di recente la dott.ssa María Neira, direttrice del dipartimento di sanità pubblica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), perché gli elementi del cocktail erano già serviti: abbiamo avuto un pessimo rapporto con l’ambiente e con il pianeta distruggendo le biodiversità e gli ecosistemi, abbiamo operato una deforestazione aggressiva e speculativa, pratiche agricole contaminanti con uso smodato di pesticidi e di concimazioni di origine chimica, scelte di progresso in antitesi con le più elementari politiche di preservazione del pianeta e delle specie, compresa quella umana. Tutto questo ha reso possibile il salto di specie dei virus tra animali, e tra animali ed umani, e ha molto a che fare con un evidente aumento dello stress ambientale e il cambiamento delle condizioni delle nostre vite. Se manteniamo questi criteri di sviluppo, la frequenza di queste epidemie aumenterà esponenzialmente. Ora occorre decidere di invertire la rotta, e in fretta”.
Papa Francesco, in una recente udienza parlando della sua enciclica “Laudato sì”, ha ammonito che: “Questa pandemia ha dimostrato che la salute dell’uomo non può prescindere da quella dell’ambiente in cui vive. È poi evidente che i cambiamenti climatici non stravolgono solo gli equilibri della natura, ma provocano povertà e fame, colpiscono i più vulnerabili e a volte li obbligano a lasciare la loro terra. L’incuria del creato e le ingiustizie sociali si influenzano a vicenda: si può dire che non c’è ecologia senza equità e non c’è equità senza ecologia. Serve la volontà reale di affrontare alla radice le cause degli sconvolgimenti climatici in atto, non bastano impegni generici e non si può guardare solo al consenso immediato dei propri elettori o finanziatori. Occorre guardare lontano, altrimenti la storia non perdonerà. Serve lavorare oggi per il domani di tutti. I giovani e i poveri ce ne chiederanno conto”.
Eppure le resistenze non mancano di certo. Molti paesi, Stati Uniti, Brasile e Cina in testa, fanno fatica a liberarsi dai loro modelli obsoleti, che hanno portato in questi anni a grandi successi e potere politico mondiale, a scapito tuttavia della salute del pianeta e delle popolazioni più fragili. Non sono casuali l’uscita dall’accordo del protocollo di Parigi e il ritiro dall’OMS volute fortemente da Trump, le dichiarazioni allucinate di Bolsonaro sulla svendita dell’Amazzonia all’agrobusiness o gli indirizzi energetici cinesi. C’è in atto nel mondo una guerra globale per accaparrarsi le ultime residue sacche di idrocarburi disponibili. Americani, cinesi, australiani, inglesi, canadesi, francesi, sudafricani, per parlare solo dei più grandi, sono ancora attivissimi nella strenua ricerca di nuovi giacimenti petroliferi. E gli stati che hanno ancora nel loro sottosuolo riserve di idrocarburi sono nell’occhio della speculazione mondiale, politica ed economica.
Parlare di un nuovo ordine mondiale che guardi alla cura e al mantenimento dell’ambiente, con queste condizioni di politica internazionale, è sinceramente utopico, momentaneamente irrealistico. Eppure qualcosa si muove. Le immagini e le elaborazioni dell’ESA, della NASA, e di altre agenzie spaziali, hanno destato scalpore e incredulità e non lasciano spazio a dubbi: anche aree storicamente ostaggio di un inquinamento atmosferico elevatissimo come la pianura padana o i distretti industriali cinesi, hanno ricominciato a respirare già dopo i primi giorni di lockdown. I cinesi da allora hanno iniziato, proprio nel distretto dell’Hubei, a Wuhan in particolare, a sperimentare nuove forme di organizzazione industriale, di revisione dei trasporti, dell’abbandono progressivo del carbone nella produzione di energia a favore di produzioni energetiche rinnovabili. L’elezione di Biden dovrebbe provocare una svolta green nella politica americana e questo potrebbe portarsi dietro nuove e importanti cambiamenti di direzione nel mondo, soprattutto in paesi con elevati indici di progresso industriale ed economico. Due dei temi più urgenti da affrontare nel futuro immediato saranno l’individuazione di politiche e azioni scientifiche comuni per la limitazione dello scioglimento dei ghiacci e la sottrazione delle foreste pluviali del mondo, in particolare quella amazzonica e quella africana, dal disboscamento selvaggio e incontrollato che sarebbe la fine premeditata del nostro pianeta. Certo le lobby troveranno metodi e mezzi per ostacolare questo passaggio ma onestamente non è più possibile tornare indietro. Almeno si spera.
E’ necessario fare uno sforzo per rimodellare il progresso, mutarne le intenzioni e gli orizzonti e cambiare gli schemi finanziari e politici che finora ci hanno sorretto. Un’avvisaglia rilevante, non letta con accuratezza politica, è stata la gravissima crisi economica del 2008 identificata come un cedimento momentaneo e parziale del modello occidentale, e che invece è stato il primo stadio del suo crollo strutturale, una profonda crisi politica, economica, sociale e ambientale della quale vediamo ogni giorno le risultanze. Il modello liberista e globalizzato ha fallito, come d’altronde altri modelli, non è una diatriba ideologica, ed è quindi necessario ristabilire un ordine delle importanze che mettano al centro proprio la vita del pianeta e delle specie che lo abitano. Questo è il punto di svolta e il punto di partenza. Una rivoluzione delle priorità, nel senso proprio del termine, come cambiamento collettivo del punto di vista, con una forte centralità della persona e dei suoi bisogni primari, del territorio e dell’ambiente. Al centro di questa discussione non può che esserci il lavoro. È opportuno uno sforzo collettivo per riconvertire le aziende, le infrastrutture e l’organizzazione degli spostamenti e dei trasporti, la metodologia delle produzioni, a cui devono seguire soluzioni efficaci dalle istituzioni e dai territori. Servono risposte nuove, inedite e coraggiose per non lasciare indietro nessuno.
Non può sottrarsi a questa discussione anche il nostro territorio, la nostra regione, proprio per le sue caratteristiche e la sua posizione.
Il Comitato per la difesa dell’acqua e dell’aria di Bevagna, insieme a Legambiente Foligno – grazie a Marco Novelli e Salvatore Lucante per la collaborazione – hanno di recente elaborato un documento, co-firmato da una trentina di associazioni della Valle Umbra Sud e della Regione Umbria, tra le quali l’ISDE Umbria – Medici per l’ambiente, il WWF, l’associazione Gaia, l’associazione “Riprendiamoci il pianeta”, l’associazione Mercato delle Gaite, le Giacche Verdi, guardie volontarie per l’ambiente, quasi tutte le associazioni dilettantistiche ed amatoriali di pesca sportiva, molte Pro Loco, molti Centri Sociali, per richiedere prossimamente un audizione urgente in II° Commissione regionale, per parlare della grave situazione ambientale della Valle Umbra e proporre una riflessione sui cambiamenti e sulle azioni che sono urgenti e necessarie.
Questo è il tempo del coraggio, delle scelte audaci anche controcorrente. Non può esserci rilancio economico dei territori se non si parte dalla riqualificazione dell’ambiente e dalla creazione di un sistema diffuso di protezione delle biodiversità. E’ assolutamente necessario capire che la protezione dell’ambiente, e quindi della nostra sopravvivenza, non è antitetica allo sviluppo economico, anzi può esserne, anzi deve esserne, il motore e il centro nevralgico, una nuova identificazione del progresso e dell’economia. E naturalmente occorre che le aziende e i soggetti che vogliono percorrere queste strade nuove ed impegnative, trovino nelle istituzioni nazionali, regionali e locali, sponde efficaci e reali.
E’ l’ultima stazione, l’ultima possibilità per effettuare un salto nel futuro. E’ primario ridare ordine alle nostre necessità, rimettere tra le esigenze indifferibili la scuola e la ricerca, e se permettete la meritocrazia, la ricostruzione culturale e sociale del paese, la sanità e il benessere pubblico, prim’ancora di qualsiasi nostalgia dei tempi andati. Sarà la digitalizzazione il nostro futuro? Forse, ma prima devono cambiare gli uomini e le visioni. Occorre lungimiranza e conoscenza. Non è solo una sfida umanitaria e sanitaria o di organizzazione economica, ma una grande battaglia culturale e politica, nel senso più alto del termine, che dobbiamo vincere per sopravvivere.