Cultura

I giorni dispersi della memoria

In questo appuntamento con "Uscendo dal Cinema", Roberto Lazzerini con rimandi cinematografici e letterari, più o meno recenti, riflette sulla fragilità dell'esercizio della memoria e di come questo sia diventato ancora più labile nei tempi pandemici.

#CULTURA #USCENDODALCINEMA
Di Roberto Lazzerini

(In foto: Lilit (1986) di Anselm Kiefer)


[…] la memoria, tra le nostre facoltà, è così fragile e inattendibile, il più delle volte, che la protagonista del magnifico film di Alain Resnais (1922-2014), Donna A. (Delphine Seyrig) non ricorda di essere stata l’amante di Straniero X (Giorgio Albertazzi) L’année dernière à Marienbad. Il film, vincitore nel 1961 del Leone d’oro alla Mostra di Venezia, era tratto da un romanzo di Alain Robbe-Grillet (1922-2008) dello stesso anno, e l’autore collaborò per la sceneggiatura, che rimanda per citazione, ripetizione e variazione al romanzo dell’argentino Adolfo Bioy Casares (1914-1999), L’invención de Morel (1940), che a sua volta permise la riduzione cinematografica con lo stesso titolo (1974) al cineasta italiano Emidio Greco (1938-2012). 

Per tali vertigini letterarie e cinematografiche apprendiamo la fallibilità della memoria, la lotta impari che combattiamo ogni giorno per ricordare, per riconnettere il passato, anche quello più recente, al presente, senza poter decidere o fingere di decidere a quale evento o insieme di eventi riferire la nostra identità, se essa riteniamo intera. Ci sono rimedi sociali, anch’essi di statuto precario, che sono appiglio però a quella labilità, che non sono riferibili alla cosiddetta santità della vita o alla concessione della cittadinanza onoraria ai poveri resti di quel soldato che attraversò l’Italia in un tripudio ferroviario (28 ottobre 1921) per raggiungere il monumento destinatogli, la cripta del Vittoriano a Roma, appena prima dell’’incipiente era fascista. Estimatore invece dell’operaio e deputato socialista Angelo Bacigalupi (1882-1942), ripeterò, come lui, all’ingresso del teatro Goldoni di Livorno, nell’imminenza del fatidico congresso socialista (il XVII), il 15 gennaio 1921 “… nelle sezioni (e ovunque), meno bar e più biblioteche”. Devo questo informazione, non alla immedesimazione medianica del nostro sagace storico Fabio Bettoni, colà presente, ma ad una scheggia del filmato, mediometraggio coevo (32’), muto con didascalie perciò, anonimo, con probabilità commissionato dallo stesso partito per illustrare il congresso, senza titoli di testa e di coda però, con pellicola poco sensibile agli interni. Il film, conservato da Cecilia Mangini (1927–2021), la più grande, poco conosciuta, documentarista italiana, cui si rende giusto omaggio proprio in questo mese, come donna di cinema e longeva appena defunta, fu da lei consegnato alla Cineteca di Bologna, che l’ha restaurato e diffuso come Uomini e voci del Congresso Socialista di Livorno (1921, commentato con vivace dialogo da Gianluca Farinelli (direttore della cineteca), Paolo Capuzzo (storico) e Paolo Virzì (cineasta e livornese appassionato, informato dei fatti). 

Se ho esordito così a lungo, lo devo a più motivi coincidenti, sempre sotto il dominio imperante del regime covidico. Era costume culturale, civile perciò, prima della pandemia, commemorare anche a Foligno il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, con iniziative pubbliche, cui davano un contributo decisivo le diverse associazioni cittadine e le scuole. Così potevamo ricorrere agli incontri dell’Officina della memoria, ai film del Martedì al cinema della Casa dei popoli e di Scolpire il tempo dell’Assessorato all’Istruzione del Comune e ad altre manifestazioni che arricchivano la giornata. In piena pandemia, in regime di clausura, le comunicazioni diradano, meglio si volatilizzano, in breve tempo si accendono e si spengono subito dopo, i mesi volano e siamo tutti gèrbidi. 

Non rinuncio perciò a rievocare come fosse oggi due mesi fa. Nello scorcio finale dell’anno appena passato, ho frequentato, in linea, il festival Filmaker di Milano (27/11 – 6/12). Tra i 18 film visti, uno, tra i molti meritevoli, mi ha toccato in particolare, il film Ziyara di Simone Bitton. L’autrice (1955), documentarista ebrea marocchina, studi all’Idhec di Parigi, aveva già dato prova di sé in memorabili film, tra cui vale la pena ricordare Mur (Il Muro, 2004), proiettato anche a Foligno per il Martedì il 26/01/2006, doc sulla costruzione del muro israeliano in Cisgiordania, che mette in discussione la sua identità di ebrea ed araba, di più deforma e distrugge l’onore di Israele; Rachel (2009) invece indaga, con un’inchiesta spietata, la morte di Rachel Corrie, attivista pacifista, uccisa per accidente dall’esercito israeliano, durante una manifestazione. 

Ziyara (2020, 99’) è la visita ai santi (saggi, eruditi, mistici, sufi, richiamati nei versetti della Torah e del Corano) e alle loro tombe. Culto malvisto dal wahabismo, praticato da ebrei e musulmani,  è un picnic religioso, sociale e festivo, che sospende la ritualità quotidiana ed è occasione di amicizia ed immersione nel silenzio della natura e fonte di meditazione. Con un senso forte dell’umanità e della discrezione, sulla soglia di ogni relazione riesce a raccontare l’essenziale, visitando i luoghi abbandonati dagli ebrei ma ancora conservati, soprattutto da donne, frequentati dai marocchini, la cineasta lumeggia il senso di profonda amicizia tra ebrei e musulmani nel Marocco dei villaggi e delle città, prima dello sciagurato esodo degli ebrei marocchini verso Israele, dopo la guerra lampo dei Sei giorni (1967), vinta dagli israeliani in uno degli eterni conflitti arabo-israeliani, dopo la fondazione di quello Stato (1948). La mancanza degli ebrei, che molti marocchini testimoniano, il vuoto sociale, che hanno lasciato in quella società, sono visibili, addirittura, in un intervista, un intellettuale afferma che, se fossero rimasti, sarebbe cambiata la società marocchina con il loro contributo illuminato in diversi ambiti sociali. Al contrario di quel che si registra in Israele, invece, a seguire gli appassionati racconti di Wlodek Goldkorn (1952) nei suoi due libri più autobiografici, Il bambino nella neve (2016) e L’asino del Messia (2019). L’ebreo polacco Goldkorn, corrispondente da New York, poi responsabile del settore cultura, infine senior editor del settimanale italiano L’Espresso, è il frutto di quella, altrettanto sciagurata, politica repressiva di Wladyslaw Gomulka (1905-1982), l’allora egemone di Polonia e del suo Partito Operaio Unificato, che  perseguitò, per tutti gli anni ’60, studenti, intellettuali ed ebrei, che invitò infine ad emigrare in Israele nel 1968, con particolari vantaggi di espatrio. Molti partirono, tra di essi il nostro, appunto. Più tardi, troppo tardi, lo statista se ne pentirà, lo scrittore ne avrà nostalgia e tornerà spesso in visita. Goldkorn quindi, emigrato con la famiglia in Israele, che amerà con ambivalenza ma da cui si allontanerà fino a piantar radici a in Italia, a Firenze, nella sua esuberanza narrativa racconta anche di come nei salotti israeliani di reduci della Shoah, già profughi, commentassero con disprezzo i comportamenti degli arabi e, di seguito, come assimilassero a loro gli ebrei marocchini, appellandoli con disprezzo cavernicoli, abitanti delle caverne dell’Atlante, da cui erano stati tratti fuori con un’operazione salvifica, cioè parlavano di quella riserva di umanità che Bitton ha così bene invece illuminato con il suo film. 

(Lady Lillith (1866-1868) di Dante Gabriele Rossetti)

È proprio vero che, quando una vittima ne incontra un’altra, si confonde e smemora, tanto da aggiungere un altro anello alla catena delle persecuzioni. Così vero che perfino una storica accurata e appassionata, l’ebrea francese Annette Wieviorka (1948) nel suo aureo libello Auschwitz expliqué à ma fille (1999), rivolto appunto alla figlia Mathilde, commette un errore grossolano, che il postfatore, lo scrittore Amos Luzzatto (1928-2020), replica senza notare la svista. L’errore (a pag. 26 della traduzione italiana, Torino 2014) attribuisce alle vittime il ruolo dei carnefici, inverte il genocidio dei tutsi (quasi un milione) da parte degli hutu, commesso in tre mesi, dall’aprile al luglio del 1994 in Rwanda, di fronte agli occhi impotenti di un piccolo contingente ONU e le inerti, distratte o interessate diplomazie, di Francia e USA in particolare. Vero è che negli anni precedenti, in quell’area geopolitica, si parlava di sindrome genocidaria incrociata tra Burundi e Rwanda, ma niente autorizza a disconoscere l’effettivo genocidio dei tutsi da parte degli hutu, tanto che, dopo il ristabilimento della pace, a crimine compiuto, al confine con il Congo ancora oggi opera e massacra, con feroci incursioni, l’Hutu Power, gruppo armato fondamentalista. Per tutta la questione non vado a memoria, ho letto il molto documentato libro di Daniele Scaglione Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile  (Torino, 2005).          La questione è molto delicata, forse insormontabile, vi accenno in poche righe, affidando il lettore o la lettrice ad un rimando a Primo Levi (1919-1987) e Franco Fortini (1917-1994), entrambi ebrei italiani, scrittori, come è noto, con differenti esperienze persecutorie nella Shoah, il primo dirette, il secondo riflesse. Il secondo, in quello splendente libro I cani del Sinai (1967), coevo alla guerra dei Sei giorni, soprattutto nella lassa 22 (divide il libro in 27 lasse come un poemetto medioevale), scrive quanto sia ingannevole attribuire alla persecuzione antisemita, soprattutto all’ultima e (in)commensurabile, un senso metafisico, nell’ordine del sacro, perché in ciò non si fa che assimilare quella catastrofe al mito nazista: bisogna dissolvere quella fissazione demoniaca, cui si soggiace, per restituire a quell’immensa tragedia la sua feroce normalità di strage progettata, su scala industriale. Primo Levi non si è mai stancato di richiamare alla vigilanza, perché non si ripetesse quello che era accaduto in Germania, sempre in procinto di ripetersi altrove se non si fosse disposto un argine potente, nei popoli e nelle istituzioni preposte a prevenire. Infatti, quelle evadendo per lo più il compito, dopo un settantennio, dobbiamo registrare nel mondo un numero di vittime di persecuzione, molte volte più consistente di quante ne avessero dissolte le germaniche SS. La nostra desolazione trova uno specchio inquietante nel generale Roméo Dallaire, comandante del contingente ONU in Rwanda nel 1993, che in seguito per 15 anni impazzì per le stragi fratricide, cui aveva assistito senza poter intervenire, con le grandi potenze ad aspettare per dividersi le spoglie, così come nella finzione Edmund muore di ciò che vede, nelle rovine di Berlino, nell’indimenticabile film di Roberto Rossellini Germania anno zero (1948).

(Germania Anno Zero (1948) di Roberto Rossellini)

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: