Cultura Letture

David Foster Wallace al tempo della pandemia

Filippo Salvucci ci parla di "un autore, un libro, che ci possa aiutare a districarsi in questa realtà così ricca di problemi".

#LETTURE
Di Filippo Salvucci
In foto: David Foster Wallace


Un autore, un libro, che ci possa aiutare a districarsi in questa realtà così ricca di problemi. Una bussola, una cassetta degli attrezzi perchè la letteratura altro non è che questo. E perchè, proprio come diceva David Foster Wallace in un’intervista, “La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano.”  Filippo Salvucci comincia da qui la collaborazione con Sedicigiugno.

Dal 9 marzo 2020, giorno in cui alcune nuove parole si sono imposte nel nostro vocabolario comune con tutta la marea di significati che si portano dietro e che nella realtà hanno rappresentato uno sconvolgimento sostanziale delle nostre vite e della nostra idea di libertà, non c’è stato giorno in cui io non abbia pensato a David Foster Wallace (DFW), alla sua persona, al suo essere “altro” nella sua originalità, in ogni aspetto di questa nuova vita che nostro malgrado ci siamo trovati a vivere.

Cosa avrebbe pensato DFW di tutto ciò che è accaduto in questo folle anno? Come lo avrebbe descritto? Che parole avrebbe usato? 

Ho tutti i libri di DFW ma non li ho letti tutti; spaventato dall’idea di non avere più nulla da leggere, ho deciso di leggerne uno ogni due anni circa. Aspettavo un’occasione, un avvenimento veramente importante per leggere Infinite Jest; il 10 marzo 2020 ho iniziato questo testo monumentale (circa 1300 pagine di cui oltre 300 note) con la speranza di trovare qualche risposta su tutto ciò che stava accadendo. 

DFW non è un autore facile, rilassante, spesso i suoi libri sono complicati, respingenti, a volte si capisce poco e si è disorientati; nelle prime 400 pagine di Infinite Jest ho fatto veramente fatica a districarmi tra le storie (sono sostanzialmente due ma ce ne sono almeno un’altra decina) e le note, ho continuato, ho amato il resto, e una volta arrivato alla fine mi sono riletto le prime 400 pagine amando anche quelle; non sono pazzo, anzi, succede a molti che si approcciano a questo testo di ricominciare una volta finito per capire la prima parte; ma questo l’ho scoperto solo dopo.

 “Venne fuori che c’era qualcosa di tremendamente stressante nelle interfacce telefoniche visuali. (…) Chi chiamava doveva mettere insieme la stessa calorosa e intensa espressione d’ascolto che usava negli incontri di persona. (…) Alle buone vecchie telefonate auricolari si poteva rispondere senza trucco, toupet, protesi chirurgiche eccetera. Persino senza vestiti, se proprio ci andava”.  (…)  “non poteva più esserci nelle chiamate videofoniche quell’informalità tipo rispondi-come-sei, e gli utenti cominciarono a considerare le videotelefonate più o meno come visite a casa”.

DFW inizia a scrivere Infinite Jest a fine anni ’80 e  tra il 1991 e il 1993 completa il libro, che poi viene pubblicato nel 1996; in un periodo dove si intravedevano solamente i primi telefonini DFW descrive in sette pagine (da pag. 172 a pag. 179) in maniera straordinariamente precisa tutto ciò che ora stiamo vivendo con ore e ore passate su zoom, meet e altre piattaforme simili, con tutte le conseguenze psicologiche che ne derivano e che stiamo (forse) involontariamente subendo.

In Infinite Jest troviamo le smart tv e Netflix, i social con tutta la nostra voglia di “esserci” e di esprimere opinioni, il marketing portato all’estremo (quanti di noi sono pronti a scommettere che entro pochi anni non ci sarà qualche primo ministro che spinto dal “mercato” arrivi a vendere l’anno corrente ad una multinazionale come si fa con gli stadi; magari non avremo proprio l’ ”anno del pannolone per adulti Depend”..), o tutte le conseguenze di un disastro ambientale di cui, leggendo il romanzo, possiamo intravedere le conseguenze da un punto di vista sociale e politico.

Sarebbe riduttivo parlare di Wallace solo in termini predittivi; la sua grandezza, quella di Infinite Jest (scritto a 34 anni…) ma anche quella di altri testi (penso alla Scopa del sistema che altro non è che un’evoluzione della sua tesi di laurea, o a Brevi interviste con uomini schifosi, o semplicemente alla forza di “Questa è l’acqua”, il celebre discorso che tenne per la cerimonia delle lauree al Kenyon College, 21 maggio 2005), è quella di aver capito e descritto tutte le contraddizioni di un sistema malato, quello capitalistico, portate all’estreme conseguenze. E la pandemia circa trent’anni dopo, non ha fatto che accelerare queste conseguenze avvicinando la realtà al romanzo. Ma appunto, non è solo questa forza predittiva, perché DFW è andato oltre, e di molto.

Perché con Infinite Jest, attraverso la Enfield Tennis Academy, un’accademia per giovani talenti del tennis provenienti dall’alta borghesia statunitense (quella che oggi definiremmo una bolla) e la Ennet House, una casa di recupero per alcolisti e tossici, DFW porta allo scoperto, dipendenze, nevrosi, feticci, di una realtà fondata sull’iperconsumismo e sull’iperproduzione non solo di merci ma anche di contenuti mediatici, sull’ossessione di risultare vincenti (o peggio essere considerati dei loser), sulla nostra immagine e come viene vista, e sulla naturale conseguenza di tutto ciò, ovvero la grande malattia dei nostri tempi, la depressione, di cui scrisse in termini più politici Mark Fisher, un grande estimatore di DFW, anche lui morto suicida nello stesso modo qualche anno dopo (tristi coincidenze).

Ecco, sui binari del cinismo e dell’ingenuità, che sono anche le connotazioni principali su cui definiamo le nostre relazioni sociali (e social-mediatiche) oggi, DFW con Infinite Jest ci conduce in un tunnel grottesco e parossistico, sicuramente tortuoso e non consequenziale, dove ci deride e ci fa ridere in modo spassoso e amaro di noi stessi, in quello che è il miglior corso di auto-analisi che possiamo intraprendere oggi. E’ importante lasciarsi condurre, non porsi troppe domande durante il percorso, con la consapevolezza che sarà impossibile non ritrovare noi stessi alla fine. DFW si occupa di noi, fa un vero lavoro di “cura”, racconta la nostra precarietà, i disagi e le insicurezze, racconta l’impatto di questo mondo che ci cade addosso e le nostre reazioni creando un meccanismo di empatia dentro al quale troviamo conforto. Ed è per questo che oggi mi manca DFW come se fosse un amico, oggi più di ieri.

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