
#CULTURA
Di: Fausto Gentili
In foto: manifestazione di bauli in piazza Milano
Note a margine di una mobilitazione
La mobilitazione dei lavoratori dello spettacolo getta una luce in parte nuova sull’organizzazione della cultura, i suoi problemi ed il suo senso. Il comparto è finalmente apparso, anche agli occhi dei più distratti, per quello che è, e che i numeri che pubblichiamo in queste pagine documentano: un vasto e disordinato mondo di lavoratori per lo più precari, sottopagati, privi di diritti e di tutele, che pure muovono reddito e producono ricchezza (oltre che, quando le cose funzionano, bellezza). Non è la prima volta che i temi della vita culturale entrano nel dibattito pubblico, oltrepassando la cerchia degli appassionati. Ma è la prima volta che il problema viene percepito dall’opinione pubblica in questa forma: come un gigantesco problema di equità sociale e di tutela del lavoro.
Non è una novità di poco conto. Nei primi decenni della storia repubblicana il dibattito pubblico si occupò intensamente della vita culturale, pensandola come lo spazio in cui si venivano formando – ed entravano in conflitto- le visioni del mondo, e grande fu l’impegno dei partiti di massa in quella che allora si chiamava “la battaglia delle idee”. La DC occupò manu militari le principali strutture pubbliche: il MInistero della Pubblica Istruzione, quello dello Spettacolo (nasce così il rapporto di Giulio Andreotti con l’allora fiorente industria del cinema), l’editoria scolastica, le Università e naturalmente la Rai fanfaniana, destinata a diventare la principale azienda culturale del Paese, mentre le sinistre (Psi e soprattutto Pci) concentrarono i loro sforzi nel costruire relazioni significative con gli artisti e più in generale con gli intellettuali. Si può dire, con qualche approssimazione, che mentre i democristiani mettevano le mani sull’ hardware, la “macchina” della vita culturale, le sinistre compensarono l’iniziale deficit di potere concentrandosi sul software, le persone che quella macchina facevano girare: pittori, scrittori, attori, registi, musicisti, insegnanti. La convinzione degli uni e degli altri era che spendere denaro pubblico per la cultura sia, né più né meno, un dovere delle istituzioni, e che il problema riguardi non tanto il se e il perché della spesa, ma piuttosto il quanto ed il come, vale a dire l’ “a chi”.
Vennero poi gli anni Ottanta e la musica cambiò. Sempre più spesso si parlò di cultura in termini economici. Cambiarono anche le parole: l’ investimento culturale, i beni storico-architettonici come giacimenti (il nostro petrolio, proclamò qualche retore, poi destinato a fare carriera), il calcolo accurato del “ritorno” economico di ogni lira, ogni dollaro, ogni euro speso in cultura. L’ impatto sul Pil, sul turismo, sull’attrattività dei sistemi locali e sul marketing territoriale divennero il centro del discorso pubblico: la cultura non era più un diritto del cittadino ma piuttosto un fattore dello sviluppo. Con qualche beneficio, certo: l’attenzione ai bilanci, la rinuncia agli sprechi, la legittimazione anche presso gli ambienti più ottusi (se “rende” si può fare). Ma al fondo c’era un radicale cedimento: l’idea cioè che la spesa pubblica per la cultura non costituisca un valore in sé e in definitiva un obbligo per chi governa, ma debba ogni volta giustificarsi additando una “ricaduta”, vera o presunta, in termini di redditività più o meno immediata. Che è un po’ il contrario, a ben vedere, della sua stessa ragion d’essere.
Ben venga dunque un movimento che, a partire dal devastante impatto della pandemia, introduce un terzo punto di vista e prova a cambiare il paradigma, rappresentando gli operatori di cultura e spettacolo (artisti, tecnici, collaboratori a vario titolo) come una fetta significativa del mondo del lavoro. Lavoratori come gli altri, meno tutelati di altri, più esposti di altri agli scossoni di fatti calamitosi incontrollabili, che si tratti di crisi economica, di pandemia o di eventi imprevisti della vita privata. Rivendicare diritti – reddito di discontinuità, sportello virtuale per le assunzioni, diritti e tutele in caso di malattia o maternità, emersione del nero, revisione degli strumenti di finanziamento della cultura- è dunque il primo passo verso un nuovo Statuto dei diritti, che si vorrebbe tempestivo almeno quanto le cosiddette “riforme” che quotidianamente ci vengono annunciate. Se un suggerimento si può dare ai lavoratori impegnati in questa giusta mobilitazione, è che la radicalita di questo nuovo approccio non faccia perdere di vista quanto di buono c’era negli altri due: da un lato la consapevolezza che ogni “fatto” culturale implica un pubblico (e i diritti del pubblico valgono almeno quanto quelli degli artisti), dall’altro l’attenzione alle dinamiche più vaste (sociali, economiche, identitarie) del territorio entro cui si opera. Ma di questo, con riferimento in particolare a Foligno, ha scritto con efficacia Elisabetta Piccolotti nel numero di aprile.