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Il mito dello stupro

Stefania Filipponi analizza il radicamento della cultura dello stupro nel nostro paese e, partendo da un episodio avvenuto nelle scorse settimane all'Ospedale di Foligno, ragiona sulla necessità che si adotti un protocollo antistupro in grado di mettere le vittime in sicurezza e garantire loro il supporto adeguato.

#SALUTE
Di Stefania Filipponi

(In foto: l’ospedale San Giovanni Battista di Foligno)


La violenza sessuale è senz’altro uno dei delitti più riprovevoli, capace di segnare la vittima, ben oltre il sopruso fisico patito. Per lo stupro non possono esserci attenuanti, non può sussistere la “minore lesività”. La violenza contro le donne rappresenta un importante problema sociale, di sanità pubblica, oltre che una violazione dei diritti umani; ha effetti negativi a breve e a lungo termine, con gravi ripercussioni sul benessere dell’intera collettività. È ora di finirla con il “mito dello stupro”: si urla, si piange, ci si difende con tutte le proprie forze, e si denuncia immediatamente. La vittima ideale di stupro però, per essere credibile e creduta, deve essere sobria, vestita in un certo modo, integerrima, non deve frequentare certi posti nelle ore notturne; deve insomma corrispondere all’idea e al ruolo che alla donna è stato assegnato dentro un preciso sistema di potere: il patriarcato. Qualcuno recentemente ha scritto, sui social, che “la vittima perfetta è Santa Maria Goretti”. La cultura dello stupro è molto diffusa, da un sondaggio dell’Istat del 2019 risulta che il 39,3 per cento delle persone intervistate pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano comunque e sempre a evitarlo; il 23,9 per cento degli intervistati crede che siano le donne a provocare, per il loro modo di vestire; e il 15,1 per cento è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Risulta cioè, commenta l’Istat, che il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita è ancora oggi molto persistente. Ora basta!! I governi, le amministrazioni regionali e locali, devono fare la loro parte, con strategie, con iniziative concrete, abbandonando gli unitili slogan di facciata.

Anche il sistema sanitario nazionale deve assicurare interventi in grado di dare efficace sostegno ad ogni donna vittima di violenza, con una tempestiva e adeguata presa in carico della stessa.   

Un episodio doloroso, ma sintomatico. Nelle scorse settimane il servizio del 118 ha portato all’Ospedale San Giovanni Battista di Foligno una donna vittima di violenza sessuale e domestica. Sono immediatamente intervenute le forze dell’ordine che, in costante collegamento con il magistrato di turno, hanno adottato i primi urgenti provvedimenti.

E poi?  La donna è rimasta per circa tre ore presso il nosocomio folignate, senza che venisse messo in atto il cd “protocollo anti stupro”, a cui le vittime di violenza sessuale devono essere subito sottoposte, fin dall’arrivo in ospedale. Solo che all’Ospedale di Foligno non esiste né una equipe formata, né un “protocollo”, tanto meno una stanza dedicata e il Kit standard. 

La procedura di legge è finalizzata a fornire un immediato soccorso alla vittima, con operatori sanitari competenti; oltre all’accoglienza e alla capacità di ascolto, l’intervento sanitario deve tener conto sia degli aspetti clinici che delle successive implicazioni medico legali. È necessario assicurare una corretta raccolta dell’anamnesi e degli elementi di prova, e una descrizione accurata delle lesioni corporee che faciliti, in caso di indagine giudiziaria, la valutazione dei tempi, delle modalità e delle cause della loro produzione

Tutti i Pronto Soccorsi dei principali ospedali italiani sono – ovvero dovrebbero essere- dotati di tutti i servizi, per assistere una vittima di aggressione sessuale. È fondamentale sia la raccolta delle prove (talune sono irripetibili) che la catena di custodia dei reperti, per assicurarne la tracciabilità in ogni momento.

Perché l’ospedale di Foligno non segue il “protocollo antistupro”? Perché le donne che si rivolgono al San Giovanni Battista non vengo tutelate, in ossequio a quanto previsto dalla procedura? 

Perché vengono “rimandate a casa” dopo una inutile attesa di ore? Silenzio…nessuna informazione né sul fatto che tale procedura poteva/doveva essere attivata né, tantomeno, sui motivi per cui non è stato fatto.

Ancora: perché, almeno, non vengono subito accompagnate all’Ospedale di Perugia, unico centro, in Umbria, in grado di garantire il rispetto delle norme procedurali, con personale appositamente formato? Siffatti comportamenti, che impediscono tempestivi accertamenti, anche investigativi, rischiano, in ipotesi, di tradursi in un ulteriore danno per la vittima a beneficio dell’aggressore 

(In foto:l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia )

Anche in occasione della crisi pandemica, in atto, gli Amministratori locali hanno più volte ribadito il ruolo strategico e fondamentale della struttura ospedaliera folignate, nel panorama regionale, con la erogazione di prestazioni specialistiche e di eccellenza.

Perché, allora, non si garantisce anche un adeguato, tempestivo, efficace sostegno alle donne vittime di violenza?  I centri antiviolenza, svolgono un utile, incisivo, risolutivo ruolo? Quali risposte, quali supporti forniscono?

La donna, la madre, la moglie non può certo dirsi tutelata con le commemorazioni dell’8 marzo (festa della donna) e del 25 novembre (Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne), né tanto meno con la realizzazione della “panchina rossa”, ovvero indossando decolté rossi.

Sono altre le “battaglie per la parità”. È giunto il momento di porre fine alla violenza di genere (che non è solo fisica, ma anche economica), di combattere gli stereotipi sessisti, di colmare il divario di genere nel mercato del lavoro, raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici; affrontare il problema della differenza retributiva e pensionistica; colmare la disparità e conseguire l’equilibrio di genere nel processo decisionale e nella politica. 

Cambiare una desinenza, sostituendo la O con una A; limitarsi a declinare al femminile le professioni, le cariche pubbliche se ricoperte da donne; sostenere il principio che la definizione della carica deve essere attagliata al genere di chi la ricopre, oltre ad essere becera demagogia, è già di per sé discriminatorio.

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