
In foto: Sandro Botticelli, Dante e Beatrice
Pochi autori nella storia della letteratura sono stati fonte d’ispirazione per gli artisti come Dante Alighieri. Con le sue opere più note: la Vita Nova e la Commedia ha sviluppato un vero e proprio linguaggio estetico visivo.
La sua lingua ha una potenza descrittiva estremamente incisiva, nelle sue opere riesce a dare la totalità della scena in cui il protagonista si muove, il particolare con cui la persona compie il suo atto e diviene personaggio e il dettaglio con cui la scena si dipana nella sua parabola comunicativa.
Nella Vita Nova, poco dopo la morte di Beatrice, in trentuno liriche che Dante scrive poco più che ventenne, dona immagine e immaginazione all’amore per la giovane donna. Ciò che rievoca è un amore che descrive il fuoco antico della passione. Lo sguardo del poeta scorre e descrive le forme, i gesti, il passo e gli sguardi. E la bellezza diviene effusione che unisce trascendente e immanente. Si riscopre il senso autentico dell’etimo di parole che resteranno eterne: desiderio, contemplazione. In particolar modo i mitici incontri del poeta con la figura gentilissima, bella e magnifica di Beatrice, la donna angelo, colei che porta nel nome il suo destino di donatrice di beatitudine.
Nel poema, al racconto dei fatti s’intreccia quello delle visioni e dei sogni, il tempo reale diventa tempo della memoria e scandisce le fasi dell’evoluzione spirituale del poeta, perché proprio l’amore e la passionalità umana potessero espandersi toccati dal respiro della divinità. Preannunciando ciò che avrebbe scritto nei canti del Paradiso, Dante trova nell’amore per Beatrice l’amore di Dio per l’uomo, mettendo in rilievo un aspetto della dignità dell’amore di cui si era parlato sempre in ambito teologico – religioso e mai poetico.
Luci, chiarori, barlumi, ombre, penombre, oscurità, riverberi: Dante propone lo stesso glossario di un pittore, di uno scultore o meglio di chi, per raccontare, vuol far anche immaginare. Il corpo pulsa di passioni perché Dio creatore pulsa d’amore per le sue creature, questo descrive nel dare definizione all’infinito nel XXXIII canto del Paradiso.
La Divina Commedia ha dato più evidente ispirazione che non gli altri scritti del sommo Poeta. Notevoli, per quantità e qualità dell’espressività denotata fin dall’impianto delle opere dedicate ai canti, sono quelle prodotte da William Blake incisore, pittore e poeta vissuto tra il XVIII e XIX secolo. Nelle sue pitture, molte dipinte ad acquarello, l’emanazione degli scritti assume un valore catartico, palese ed immediato. L’osservatore, infatti, si trova a percorrere lo stesso tragitto descritto dal Poeta, costellato da forme e da tonalità tese a far cogliere al contempo sia la solennità che il pathos espressi in ogni scena raffigurata. Ma c’è un altro aspetto molto interessante da conoscere nella vita di William Blake: egli sosteneva di avere delle visioni, da quando era fanciullo e nel raccontare queste esperienza era molto dettagliato. Ebbe la prima visione tra gli otto e i dieci anni durante la sua permanenza a Londra; raccontava di aver visto degli angeli che cospargevano i rami di un albero di lustrini simili a stelle. Alexander Gilchrist, critico letterario e artistico nonchè biografo di Blake, nel libro “Vita di William Blake, Pictor Ignotus”, in cui presenta una selezione delle sue poesie e altri scritti, scrive che quando il giovanissimo William tornò a casa, correndo, per raccontare la sua visione scampò alle botte del padre solo per l’accorato intervento della madre. Probabilmente fu anche per questa peculiarità di vedere l’invisibile che si avvicinò all’opera del Poeta. Le fonti tuttavia fanno dedurre che i genitori lo sostenessero molto; la madre appendeva nella sua camera le poesie e i suoi primi disegni. Gilchrist scrive che in un’altra occasione Blake s’incantò a guardare dei falciatori e vide figure angeliche che volteggiavano tra di loro. Ma in vecchiaia sua moglie Catherine raccontò che gli fosse apparso il volto di Dio “proprio fuori dalla finestra“: la visione, ricordò Catherine a William, “Ti fece gridare all’improvviso“. E, in effetti, l’Artista asserì di aver avuto visioni per tutta la vita. Talvolta erano percezioni mistiche e religiose che divennero ispirazione per le immagini sacre che occupano un posto centrale tra le sue opere. Dio e la teologia cristiana hanno rappresentato il fulcro dei suoi scritti e la fonte del suo estro creativo. Le immagini erano veicolo affinché la scrittura potesse avere l’enfasi e la figurazione che rendeva il pensiero letterario più realistico. Nel 1818 iniziò a illustrare la Divina Commedia ed è importante osservare come Michelangelo Buonarroti negli affreschi della Cappella Sistina e nel Giudizio Universale fosse per lui il tema da cui far centro per ricreare il suo percorso iconologico. Utilizzava matita, acquerello e inchiostro con una mirabile maestria; armonizzava i segni e le masse cromatiche facendo sì che la qualità del mezzo rimanesse distinta. Semplice e sintetico l’impianto grafico – strutturale delle sue opere, ma imponente e monumentale la composizione cromatica, quasi che il colore divenisse col segno effluvio, nuvola, consapevolezza della presenza della trascendenza nell’immanente.
In ogni opera si percepisce una solennità mista alla dinamicità, come se l’artista non fosse altro che colui che permette al mistero e all’invisibile di divenire verità certa e svelata. William Blake asseriva che gli arcangeli gli avessero dato istruzioni ed incoraggiamento per creare le sue opere, ma non solo, diceva che fossero gli stessi Arcangeli a leggere e ad ammirare le sue opere.
Ottanta anni dopo Paul Gustave Louis Christophe Dorè riuscì a fondere la spinta medievale della narrazione dantesca con quella romantica della seconda metà del XIX secolo. Nella storicità dell’arte la riscoperta di Dante e della Divina Commedia è attribuita agli allievi di Jean Louis David che si confrontavano con gli artisti inglesi vicini alla scuola di Joshua Reynolds, Johann Heinrich Füssli, ma tra questi è un esempio Fortunè Dufau che dipinse nel 1835 La morte d’Ugolino, olio su tela conservato al museo di Valencia. Fondamentale fu quella parte del Romanticismo affascinata dal Medioevo come lo stile Trombadour, del trovatore, che idealizzava anche i personaggi e le storie rinascimentali. A questo proposito è esemplare il dipinto del 1812 in cui Marie Philippe Coupin de la Couperie dipinge Paolo Malatesta e Francesca da Rimini nell’attimo in cui il fratello di lui Gianciotto li scopre amanti. Dieci anni più tardi Eugène Delacroix, con la Barca di Dante riuscirà a imprimere il senso autentico del pittoresco sublime. Gli artisti del XVIII secolo e del primo decennio del XIX secolo sono pervasi dal pensiero illuminista ecco perché sentono, come William Blake il bisogno di trasformare secondo la propria percezione l’universo scritto da Dante. Ma il romantico e il classico fusi nella scuola di Jacques-Louis David e di Ingres liberano le coscienze e all’idealismo epico si aggiunge la connotazione del realistico e dello storico. L’analisi della poetica raffaellesca delle stanze vaticane e il concetto della divinità effusa tra la gente comune emanato dalle opere Caravaggio hanno fatto dedurre agli autori della seconda metà del XIX secolo una fisionomia iconografica più legata al soggetto dipinto che non a tutta la narrazione.
È così che va analizzato, ad esempio, lo studio particolareggiato dei personaggi e degli eventi che caratterizzano la vita di Dante Alighieri compiuto da Dante Gabriel Rossetti. Egli fu suggestionato fin dall’adolescenza dalle letture dantesche tanto che scelse di cambiare il suo nome di battesimo, Gabriel Charles Dante Rossetti, con Dante Gabriel Rossetti, manifestando con questa scelta il desiderio di dare di un segno distintivo alla sua ricerca letteraria nonché un forte senso di identificazione nella figura del sommo poeta.
Dante Gabriel Rossetti
Gli scritti e la vita di Dante ispirarono in maniera diffusa e trasversale movimenti e correnti artistiche. Tra la fine del 1700 e la prima metà del 1900 sono circa duecento le opere d’arte che sono frutto di una rielaborazione delle opere o della vita di Dante o ispirate alla simbologia dantesca; una moltitudine invece le ricerche e gli studi di critica letteraria.

In foto: Gustave Dore, Paolo e Francesca
Dante fu scelto come elemento fondante del progetto di costituire la prima biblioteca illustrata, d’altra parte il poeta fiorentino fu riconosciuto inequivocabilmente come punto di unione tra classico e romantico, tra una ricerca volta a riprendere i canoni classici e il gusto della testimonianza per i fatti e per la civiltà del Medioevo. V’era anche il bisogno di ritornare a un’espressione artistica figurativa e didascalica che fosse voce per quella parte di popolo che sentiva l’eco dei moti reazionari francesi e allo stesso tempo era scossa dai moti insurrezionali del 1820/21. Era il costituire una nuova biblia pauperum, così come aveva espresso palesemente Jacques Louis David nel dipinto A Marat del 1793. Gli artisti esponenti di scuole e di movimenti per altro completamente diversi, a volte anche opposti senza alcun punto di unione né di complementarietà, furono pervasi dall’ispirazione dettata dal Poeta fiorentino. A questo proposito si pensi al gruppo dell’arte accademica francese con le opere a tema mitologico di William-Adolphe Bouguereau e a quelle ispirate alla vita dell’impero romano di Gustave Rodolphe Clarence Boulanger oppure alla contrapposizione data dai modelli dell’avanguardia segnata dai precursori dell’Impressionismo come Édouard Manet, celebre la sua Barca di Dante dopo Delacroix del 1859, e Edgar Degas con Dante e Virgilio all’ingresso dell’inferno del 1858. S’ispirò agli scritti danteschi Jean Baptiste Camille Corot, celebre per la sua produzione paesaggistica che tuttavia ritrasse Dante e Virgilio con le tre fiere e il maestro del nudo femminile Alexandre Cabanel che dipinse Morte di Paolo e Francesca descritti, cosa inusuale per l’autore, vestiti di tutto punto e con abiti d’epoca. Dalla Divina Commedia fu influenzato il neoclassico Antonio Canova, si guardi l’espressività infusa al volto di Teseo scolpito in due opere nel “Teseo sul Minotauro” (1781-1783) commissionata da Zulian, ambasciatore della Repubblica Veneziana a Roma e nel “Teseo configge il centauro” (1805-1819) commissionata da Napoleone Bonaparte. Pone una riflessione, ovviamente, il precursore della scultura moderna Auguste Rodin con la sua celebre Porta dell’inferno.
Ma per molti la Divina Commedia è sinonimo dei testi arricchiti dalle chiaroscurali xilografie di Paul Gustave Louis Christophe Doré, il quale si occupò del progetto fin dalla produzione finanziando egli stesso la prima edizione. La sua idea per l’epoca, siamo nel 1861, era una vera rivoluzione iconologica e mediatica che superava il mero scopo editoriale. Inventò letteralmente il testo illustrato stabilendo una nuova relazione tra facciata con immagine e pagina con scrittura. L’illustrazione infatti occupò l’intera pagina, i suoi predecessori avevano preferito, invece, inserire le immagini a mo’ di vignette nel corpo del testo. Dorè chiamò a collaborare due talentuosi incisori come Héliodore Pisan e Adolphe Pannemaker. Diresse l’intero processo produttivo dall’incisione delle tavole di bosso, lavorate per testa, fino alla precisa correlazione tra le matrici xilografate e le lastre stampate tramite la tecnica, modernissima per l’epoca, dell’elettrotipo. La tecnica dell’elettrotipo fu ideata e strutturata da Moritz Hermann von Jacobi nel 1831. Jacobi, nativo di Postdam, ora città della Germania a sud ovest di Berlino, ma all’epoca parte del Regno di Prussia, nel 1838 inventò la galvanoplastica, un metodo per produrre lastre stampate tramite l’elettrolisi; elettrotipo è il termine specifico usato nei processi di stampa.
Jacobi era un vero visionario al pari di Dante, Blake, Corot, Bouguereau, Dorè ed altri artisti dell’epoca, con le sue invenzioni sancì un cambiamento epocale nella seconda rivoluzione industriale europea. Con le lastre metalliche ottenute da quelle in bosso tramite il metodo di Jacobi, Dorè poté ottenere una successione di stampe che mantenessero inalterati i virtuosismi di volume e luce, le sfumature di grigi e le variazioni di toni delle incisioni da matrice xilografata. Rimase così invariata la suggestione delle sue illustrazioni e la storia scritta da Dante poté esser vista oltre che letta.
Ma la rivoluzione di Dorè non fu soltanto tecno-grafica, infatti cambiò le dimensioni dell’illustrazione, il foglio misurava cm 18 X 33 e il libro concluso e messo in commercio era in formato lusso, il suo costo di 100 franchi, contro i 10 che si spendevano all’epoca per un libro illustrato, stravolse letteralmente il mercato dell’editoria dell’epoca. Individuò una strategia imprenditoriale precisa che scelse il prodotto e ne individuò il target nella ricca borghesia della seconda metà del XIX secolo, ambiziosa di rendere rappresentative le lussuose e neoclassiche librerie domestiche. Scelse anche la strategia pubblicitaria: espose nel salon ufficiale quadri e disegni nel 1861 poco prima che fosse inserita sul mercato l’edizione di lusso della Divina Commedia da lui illustrata.
Dorè, oggi diremmo, fu un ottimo manager: chiamò a collaborare ottimi artisti, applicò una innovazione scientifica che permetteva di stampare in serie senza perdere la freschezza della prima copia, scelse un ottimo restyling, elaborò una bellissima rilegatura, organizzò una corta, intelligente ed efficace campagna pubblicitaria. Il successo della Divina Commedia illustrata in quella maniera innovativa fu clamoroso, i critici scrissero che il volume era sintesi mirabile tra il talento figurativo dell’artista e l’intensità letteraria del Poeta fiorentino. In poco tempo il volume di Dorè cancellò la memoria delle opere di Sandro Botticelli che in quel periodo erano ancora riprodotte e continuavano a suggestionare le ispirazioni degli artisti.
Fu Lorenzo di Pierfrancesco de Medici detto il Popolano, (Lorenzo di Pierfrancesco, cugino di Lorenzo aveva una copiosa e preziosa collezione di libri rari e pregevoli dipinti tra i quali si distinguevano le opere: il Giardino di Atlante, meglio conosciuta come la Primavera del 1477/78 e la Pallade e il Centauro del 1482/1483), che commissionò tra il 1480 e il 1495 a Sandro Botticelli di realizzarne le illustrazioni; una per ogni Canto, oltre la celebre sezione dell’Inferno. A Firenze è conservato un testo, anonimo, datato 1540 in cui si legge che Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici aveva commissionato a un noto copista, Niccolò Mangona, di redigere un manoscritto della Divina Commedia. I disegni superstiti di Botticelli che illustrano il poema dantesco sono 92. L’unico completo è quello che raffigura i Canti dell’Inferno. La serie dantesca di Botticelli fu scissa in due parti: 85 pergamene sono nella nuova Galleria delle incisioni di Berlino, le altre sette opere realizzate su pergamena, comprate nel 1669 da Papa Alessandro VIII, sono custodite nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Botticelli disegnò su fogli di pergamena di ovini, le misure sono circa 32,5 cm di altezza e 47,5 cm di larghezza, il Grande Satana misura invece centimetri 46,8 di larghezza e 63,5 cm di altezza. Le opere furono disegnate sulla facciata liscia interna della pelle, il testo fu collocato invece sul lato esterno, meno liscio e poroso denominato il fiore. L’illustrazione per il XVIII Canto dell’Inferno, corrispondente all’ottavo cerchio, fu dipinta con colori stemperati ad acqua. Il maestro utilizzò uno stilo d’argento e uno di piombo per definire le linee che dovevano avere più corpo e ombra, per sottolineare i contorni invece utilizzò un pennino che immerse nell’inchiostro ocra, oro e nero. Studi recenti fanno dedurre che furono poche le illustrazioni della Divina Commedia che il Maestro completò nel disegno e nelle cromie. L’unica opera che portò a compimento fu La spaccata dell’Inferno, chiamata anche Voragine Infernale, in cui Sandro Botticelli raffigurò un grande imbuto la cui struttura interna era, talvolta, sostenuta da elementi architettonici, i dannati realizzati come figure minute schiantate dal peso del peccato e dallo spazio che le ospitava per l’eternità.
La voragine infernale è una narrazione composta da più racconti così come altri pittori del XV secolo avevano realizzato; si pensi alla narrazione del viaggio dei Magi dipinto su tavola da Gentile da Fabriano nel 1423 conservata agli Uffizi. Il continuum narrativo permetteva una azione di forte comunicazione didattica, morale, filosofica, catartica.
La divina commedia di Paul Gustave Louis Christophe Dorè ebbe un forte impatto la sua prima edizione che fu persino imitata da opere di scarsa qualità; tuttavia, si creò una vera frattura tra i progressisti e l’establishment dell’Accademia Parigina. I primi lo accusavano di essere quello che dava lustro immeritato all’ignorante borghesia, in ascesa nella seconda metà del XIX secolo, attraverso libri rilegati con un lusso eccessivo. I secondi rimproveravano a Doré di aver cercato successo solo per accrescere la sua ricchezza personale per accedere a un ceto che non gli apparteneva. Ma in effetti il grande incisore si trovò nel mezzo di una tensione sociale, di un conflitto tra le classi aristocratiche e i ceti alto borghesi della prima metà dell’Ottocento e le classi sociali in ascesa che orientano le produzioni culturali a partire dal 1850. Un conflitto che era iniziato quando Carlo X di Borbone nominò primo ministro il controverso Jules de Polignac che instaurò una governo clerical-reazionario. Con i decreti fortemente autoritari venne ristabilita la censura, si sciolse la Camera e venne varata una nuova legge elettorale favorevole all’aristocrazia terriera.
Furono questi decreti a scatenare la rivolta parigina dal 27 al 29 luglio 1830, conosciuta come “le Tre Gloriose Giornate”.

In foto: Eugene Delacroix, La Barca di Dante, 1822
I francesi si ribellarono contro l’autorità regia e alzarono le barricate nelle strade di Parigi: con il trionfare dell’insurrezione, Carlo X abdicò e fuggì in maniera rocambolesca in Inghilterra, al suo posto salì al trono Luigi Filippo: era il 9 agosto 1830 e il suo regno continuò fino al 24 febbraio 1848. Fu questa atmosfera che ispirò a Delacroix il dipinto “La libertà che guida il popolo”. Fu in questa situazione politico-sociale, perdurante anche con l’ascesa al trono di Napoleone III, in cui si trovò immerso dodici anni dopo anche Dorè. I suoi dipinti furono fortemente denigrati sostanzialmente per due motivazioni: la prima erano i soggetti ritenuti inappropriati per la pittura di grandi dimensioni e uno stile ch’era evidentemente condizionato dalle sue xilografie. In effetti il dipinto Paolo e Francesca, olio su tela, era la derivazione non speculare della matrice in legno; la seconda motivazione era imputabile all’Accademia, fortemente reazionaria e conservatrice, che condannava il modo con cui l’artista mescolava la cultura elitaria a quella popolare, fondendo il patrimonio pittorico di tradizione con l’incisione e l’artigianato. Ma ciò ch’era considerato un affronto al mondo accademico era soprattutto l’ascesa di un artista sostanzialmente autodidatta, di bottega, che metteva in discussione i consolidati processi formativi imposti dall’Académie Française. Una situazione di critica estremamente avversa e contraria alla commistione tra arte e artigianato si trovò a combattere, trent’anni dopo, in Austria un altro grande, Gustav Klimt e suo fratello Georg, orafo, incisore cui si deve gran parte delle cornici e dei fondi oro delle opere di Gustav. Eppure, a Paul Gustave Louis Christophe Dorè si ispirarono molti artisti della seconda metà dell’800 e della prima metà del XX secolo; formidabile è il dipinto del 1914 in cui vengono raffigurati Dante e Virgilio davanti all’Inferno di Diogène Maillart. In quel periodo, d’altra parte, erano criticate tutte le forme d’intrattenimento moderne e popolari (panorama, peep show, diorama e il circo). Ma in Inghilterra Doré trovò un’accoglienza così favorevole da impiantare a Londra la Doré Gallery, che fece registrare in 23 anni due milioni e mezzo di visitatori. Dorè in terra inglese trovò un’atmosfera in cui Dante Alighieri era un’icona condivisa da tutti, senza distinzioni di ceto. Nel 1814 Henry Cary aveva tradotto e pubblicato gli scritti di Dante col titolo “The Vision, or the Hell, Purgatory and Paradise of Dante Alighieri” (La Visione dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso di Dante Alighieri), il successo fu talmente evidente che gli editori Cassell, Petter e Galpin decisero di produrre e pubblicare un’edizione illustrata da Doré. In Gran Bretagna l’estetica delle incisioni di Dorè creò un dibattito tra la filosofia di John Ruskin sugli ambiti estetico e sociale e il concetto di spiritualità e pensiero mistico che i Pre-Raffaeliti collegavano agli artisti e agli autori medievali e rinascimentali.
Dante Alighieri ha fatto in modo che la poesia fosse patrimonio di tutti indistintamente; ha scritto con un linguaggio talvolta strano e misterioso, più facile da interpretare dai vecchi analfabeti, dai saltimbanchi che da dotti accademici. Ogni sua parola è evocazione di immagini, visioni e immaginazioni.
Ha dato figura al bene e al male donando mezzi reali per esorcizzare ogni malignità. Dante ha permesso di riconoscere la fisicità della persona e del personaggio dando valore al dettaglio, al particolare e al simbolo, porgendo i mezzi al lettore per svelare ogni mistero.
Di ogni persona e d’ogni personaggio ha disegnato e colorato il corpo come contenitore sia dell’anima sia di ogni sua passione.
Nella Divina Commedia ha descritto lacrime di tristezza e d’offese subite, ma ha anche composto scene che fanno ridere e sorridere.
Ha permesso l’ascolto di melodie e nenie ineffabili senza che fosse necessario un cantore o strumentali.
Ci ha insegnato con i fatti che il Creatore ha bisogno delle creature e che Dio conta le lacrime degli oppressi e di chi soffre, soprattutto quelle del pianto delle donne.
Ha descritto il respiro di Dio nello Spirito che lo unisce al Figlio e che la Trinità risente del male che l’uomo compie, ma che non c’è disperazione né ferita che non possa essere consolata o guarita.
Dante ci ha dato la certezza che ognuno di noi è nato per completare il disegno e l’affresco iniziato da Dio e che la poesia è un canto, un racconto da far ascoltare a tutti; ha scritto che le donne sono la bellezza più alta della creazione e che Dio aspettò il sì di una Donna perché lui stesso potesse divenire per mezzo di essa un uomo.
Con i suoi scritti ha posto la vita d’ogni persona come dono prezioso perché l’umanità brillasse come un diamante.
Ogni persona dopo aver letto Dante non può più guardare le creature con superficialità ma piuttosto come uno scrigno che contiene l’essenza unica e irripetibile della presenza misericordiosa di Dio.
Ha scritto che una donna è custode vivente della misericordia e dell’amore di Gesù per l’umanità.
Ha posto l’arte come varco per comprendere il pensiero delle persone e il senso della vita e che la vita è molto di più di ciò che l’intelletto e la scienza umana possano far comprendere.
Dante ha scritto che nessuna creatura in ogni tempo, e quindi anche ora, è mai troppo diversa da non essere sia compresa che capita.
Nei suoi versi risuona in maniera chiara che anche tu, che ora stai leggendo, sei fatto essenzialmente di unicità e irripetibilità e farai la differenza nonostante tutto e tutti, nonostante a te ora sembri che sia tutto il contrario di ciò che leggi.
Ha raccontato che si può confidare agli altri di se stessi perché si possa capire il vissuto di tutti; ha descritto ciò che rende davvero felici e cosa genera l’innamoramento, l’amore, la rabbia e l’odio.
Ha scritto, come fosse un moderno ricercatore, che in ogni nostra cellula perdura la forza e il desiderio di resistere all’oblio.
Ha esaltato le sacre scritture mescolando in maniera mirabile tutto ciò che nelle antiche teologie di Dio è stato narrato.
Ha fatto scorgere nuovi impensabili orizzonti e che ognuno possa avere la possibilità di vivere in una maniera più bella di quanto si possa umanamente immaginare.
Con i suoi scritti ci ha trasmesso una mappa per comprendere le cose del mondo.
Ci ha detto che ogni persona è il solo eroe nella storia della propria vita e che la vita in questo mondo non è la fine di tutto ma solo il preambolo per un nuovo, mirabile inizio.
Dante ci ha indicato che in poesia si usa la stessa metrica e la stessa passione che usano gli angeli per parlare tra loro e per ispirare le creature.
Ci ha detto che nell’infinitamente piccolo e nella persona che vive nel buio e nell’assoluta solitudine si riflette la magnifica luce dell’infinitamente grande.
Ci ha spiegato, come pochi hanno saputo farlo, che la vita è eterna e che siamo destinate a una gioia senza fine.
Ci ha descritto che nella trinità si fondono tutti i tempi e ogni vita nel Figlio si riflette perché ogni esistenza, in quella parte della trinità, possa esser riflessa e che dunque la vita non è altro che un viaggio di ritorno da dove un giorno tutti partimmo.
Ci ha scritto che nelle stelle è stilato il cantico di ognuno e che in questo unico viaggio nessuno è mai lasciato da solo perché qualcuno ci ama in maniera assoluta e la bellezza come l’arte è proprietà di ognuno e dono per ogni singola creatura.

In foto: Marie Philippe Coupin De La Coupierie, Gli amori funesti di Francesca da Rimini, 1812