
#STORIAEMEMORIA
Conversazione a cura di Matteo Bartoli
In foto: repertorio sul G8 di Genova
«Voi g8 noi 6 miliardi»: la centralità del conflitto a Genova 2001.
Con Nicola Fratoianni la redazione è legata da un rapporto di collaborazione e di amicizia. Ci è venuto subito facile immaginare un approfondimento sul Genoa Social Forum a vent’anni da quell’esperienza con chi, come Nicola, ne è stato fautore.
Iniziamo dall’inquadramento storico di quella vicenda. Penso al controvertice di Seattle, a quello di Napoli, al cambio di Governo qui in Italia. Come arrivò il paese a Genova 2001? Con che dibattito? In quale clima?
Difficile dire come ci arrivò il paese, perché a Genova ci arrivò solo un pezzo del paese, ci arrivò il movimento. O meglio ci arrivò quel che residuava dalla stagione degli ultimi grandi movimenti studenteschi degli anni 90, a partire dalla pantera. Ci arrivò ciò che evolveva dalla stagione di vitalità dei centri sociali italiani, ci arrivarono alcune forze politiche e un pezzo della società civile che si andavano riorganizzando sull’onda di alcuni elementi, fra cui il principale era l’esplosione, per molti ma non per tutti inattesa, del movimento antiglobalizzazione con Seattle e ancor prima con Goteborg e Praga e le mobilitazioni europee contro il trattato di Maastricht..
Erano anni in cui stava maturando la novità di una qualche forma di mobilitazione sovranazionale e una serie di soggettività discutevano da tempo dentro questo spazio provando ad incrociare quel che accadeva sulla scena globale, quel che accadeva ed era accaduto pochi mesi prima col Forum di Porto Alegre, quel che accadeva ai vertici delle istituzioni mondiali ed europee, Wto e Fmi.
Poi c’era stata l’insorgenza zapatista in Chiapas che esortava tutto un campo diffuso ed eterogeneo alla convergenza sull’analisi di quel che stava determinando la riorganizzazione della governance globale, con i grandi accordi commerciali su scala globale e continentale nel segno della nascente globalizzazione. A questo riguardo molto si lavorò sulle rivendicazioni dei popoli e dei contadini, basti pensare ai Sin Tierra brasiliani, animatori dei forum mondial iinsieme a parte del Partido dos Trabalhadores, o in Europaa Josè Bovè, con cui si riuscì a portare al centro del dibattito il boicottaggio di Mc Donalds, la tutela delle sementi e della biodiversità contro le multinazionali, la ricostruzione di una sovranità alimentare, che è cosa ben diversa dal sovranismo che abbiamo visto negli ultimi decenni ed ha a che fare con una reazione al modello di globalizzazione che nei fatti si configura come una gigantesca espropriazione dei diritti dei popoli ed in particolare delle fasce più deboli e marginali. Quel movimento era poi molto attivo sulle questioni ambientali, con largo anticipo rispetto a quel che abbiamo visto negli ultimi anni, e in generale era in anticipo su moltissime questioni aperte dalla globalizzazione neoliberale, ad esempio giustizia sociale e fiscale –Attac nasce dentro quella vicenda, il tema della Tobin tax e di una tassazione giusta nasce dentro quella vicenda. E’ uno spazio nuovo: non è più la costruzione di conflitto nella singola vertenza, ma è una convergenza che dal particolare risale ad un punto di vista generale.

Arriviamo a Genova in questo scenario da te appena descritto. Su quale piattaforma si realizzò questa così larga convergenza?
Fu un lavoro molto lungo, mesi interi di preparazione a Genova e in Italia. Ricordiamo che a Genova si arriva dopo Napoli. Napoli è un momento molto importante ed è davvero una prova generale da tutti i punti di vista. Fra l’altro dimostra anche come la gestione di Genova non sia legata in modo particolare alla natura del governo nazionale. Si è infatti molto discusso sul ruolo della destra al governo nel mettere in campo la repressione genovese. In verità a Napoli, qualche mese prim, solo per miracolo non c’era stato il morto: venne messo in campo un violento dispositivo repressivo, i manifestanti vennero chiusi in una piazza senza via di fuga, ripetutamente caricati senza alcuna possibilità di defluire da quella situazione. Insomma: niente a che vedere con contenimento e alleggerimento e la gestione classica dell’ordine pubblico; fu piuttosto uno scontro frontale col movimento. E quella gestione sta tutta in capo al governo di centrosinistra di allora.
Cosa dimostra questa cosa? Secondo me dimostra che quello che si stava preparando nasceva dentro una regia sovranazionale. La discussione su come contrastare il movimento che in quegli anni il New York Times presentava come la seconda potenza mondiale era una discussione certamente sovranazionale. La determinazione del movimento cresceva a dismisura e dunque anche quella degli avversari, dei grandi poteri statuali ed economici.
Da Napoli in poi parte, in questo clima, la preparazione del controvertice; una preparazione molto lunga. Io ricordo di essere stato per quasi sei mesi ogni settimana a Genova per le assemblee preparatoriedi quello che poi è diventato il Genoa Social Forum. Bisogna tenere conto che aderivano più di mille associazioni. Vado a memoria ma erano numeri immensi: associazioni, sindacati, e un unico soggetto politico organizzato:: Rifondazione ed i Giovani Comunisti. E a Genova si arriva con un infinito ventaglio di proposte, perché la caratteristica principale di questo spazio di convergenza è la sua dinamica unitaria ma allo stesso tempo molto plurale, organizzata sul modello del Forum di Porto Alegre, con molti spazi di discussione, dunque di elaborazione della proposta politica. Si va dai diritti contadini alla sovranità alimentare, si pone il tema delle sementi, la lotta contro gli ogm e la più larga questione ambientale. Tutto ciò in una prassi politica che, a differenza di oggi, riesce ad esprimere elementi di conflitto.
Pochi giorni fa leggevo sull’Espresso un articolo di Massimo Cacciari che segnala come oggi la lotta contro il cambiamento climatico sia tendenzialmente così trasversale da diventare terreno di impegno di parti rilevanti del capitalismo. Ma questo è possibile perché è una lotta che ad oggi ha largamente perso la capacità di indicare elementi di conflitto. Per quel movimento invece il conflitto era determinante, tanto da essere plasticamente rappresentato nello slogan che aprì il corteo del 21 luglio, lo slogan stampato nelle magliette del Genoa Social Forum: voi g8 noi sei miliardi, la rappresentazione plastica del conflitto nel suo fulcro che per noi era e continua ad essere la disuguaglianza.

L’unico soggetto politico organizzato dentro quella confluenza fu Rifondazione Comunista. Quanto di tutto questo è figlio della svolta movimentista bertinottiana che poi ha determinato anche la scissione?
La scissione cossuttiana c’era stata anni prima, in un’altra fase.
Si ma dico: quanto di quel 2001 è stato l’apice della segreteria Bertinotti?
Le grandi convergenze di Genova non furono il frutto di una nostra diretta iniziativa. Certo, il g8 è stato l’apice di una stagione che forse ha una tappa anche nella vicenda che ha determinato la scissione di rifondazione. A prescindere dal giudizio e dal merito di quella scissione, Bertinotti aveva capito molto. Ricordo una sua relazione, “segnali di disgelo”: Fausto sapeva di Seattle prima che accedesse Seattle. Aveva capito che, a prescindere dalla scelta politica di rompere con quel governo, c’era bisogno di cercare una relazione coi conflitti, che per dare nuova forza propulsiva alla sinistra che veniva dal ciclo storico del partito comunista -come Rifondazione, che nasce grazie alla base più conservatrice del pci – bisognava ritrovare una connessione col conflitto sociale. E vedeva in quel movimento lo spazio affinché ciò accadesse e la possibilità di realizzare un’innovazione politica. Su questo giocammo una partita interna importante e anche interessante sulla scena politica internazionale: fummo l’unico partito. insieme ai brasiliani del Partido dos Trabalhadores. ad essere delegato del Forum di Porto Alegre. E i Giovani Comunisti, dopo una discussione sofferta dagli esiti certo non scontati, capirono la scelta e si buttarono in questa convergenza. Quel gruppo dirigente addirittura rinunciò alla discussione politica preventiva, tanto si era buttato nella marea: l’organizzazione era chiamata ad essere parte attiva della discussione anzitutto all’interno del movimento. Questo non nasce a Genova ma nasce prima, nasce nelle grandi mobilitazioni europee contro gli accordi di Maastricht, o dai treni occupati per la grande manifestazione di Amsterdam del 1997.
Prima hai fatto una riflessione che mi è parsa, non dico inedita, ma almeno non maggioritaria, cioè la repressione di Genova -anticipata da quella di Napoli- come repressione internazionale.
Americana. Americana in modo non schematico e non diretto: non che quelli ci abbiano detto “fate così” e noi abbiamo eseguito, sarebbe sciocco pensarlo. Ma americana come modalità. Su questo c’è stata una grande discussione nel movimento: io sono fra coloro che hanno sempre pensato che leggere la repressione di Genova come frutto della destra fascista -Fini nella caserma che organizza la repressione ecc – sarebbe riduttivo. Non solo perché c’era stata Napoli, ma perché a Goteborg qualche mese prima avevano sparato alla schiena ad un ragazzo, e perché in tutto il mondo iniziavano ad usare quel tipo di repressione. Qui da noi dispositivi repressivi simili ogni tanto si erano visti, ma qualcosa non si era ancora mai visto: l’assalto della polizia alla scuola Diaz a manifestazione finita, e la conseguente inutile mattanza: la forza del conflitto messo in campo dal movimento, il suo consenso e l’imponenza della sua mobilitazione era tale che vollero ad ogni costo renderlo innocuo.
Il conflitto d’altronde era elemento diffuso in ogni componente del movimento, anche in quella più ecumenica. Quella più radicale, di cui anch’io facevo parte, aveva da parte sua avuto la maturità di favorire quella larga convergenza anche riflettendo sulla relazione fra conflitto e rappresentanza: penso ad esempio alla Carta di Milano redatta da una grande assemblea presso il Centro Sociale Leoncavallo, o alla svestizione, perlappunto a Genova, delle Tute bianche, che portò alla nascitadel movimento dei disobbedienti. Ma fino a quel momento si era fatta attenzione a tenere questo conflitto entro il terreno del governabile. Poi, sin dai primi giorni genovesi, capimmo che era saltato qualcosa: chi andò a perlustrare il percorso la mattina del 20 luglio, prima che partisse il corteo partito dallo stadio Carlini, scoprì che erano state disposte strutture non concordate con la questura -perché, badate bene, ovviamente si concordava tutto.
Quando poi il corteo fu attaccato in via Tolemaide, schiacciando la folla in discesa, si scatenò la catena di eventi che portò a quel che non doveva accadere. Fummo attaccati da sinistra con camionette lanciate all’impazzata, colpi di pistola, l’uso dei CS in una quantità impraticabile- il cs è un gas vietato, è un’arma da guerra, un’arma chimica. Il corteo fu così costretto a defluire nell’imbuto di Piazza Alimonda. E lì morì Carlo Giuliani.

L’attacco al corteo e la mattanza della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto segnano quel salto di qualità che ha l’obiettivo, in parte raggiunto, di consegnare un pezzo di una generazione alla passività ed alla rassegnazione. Infatti un sacco di gente per anni non è più scesa in piazza. Io sono uno di quelli che invece hanno continuato a farlo, ma per anni ho fatto un’enorme fatica a stare in luoghi affollati, per anni, in ogni luogo pubblico in cui entravo, ho cercato la via di fuga di più prossima disponibilità. Genova ha segnato. Chi l’ha vissuta sostiene quasi sempre che c’è un prima e un dopo.
Non hanno corso un grande rischio a fare quel che hanno fatto? Hanno preso scelte razionali e consapevoli?
Beh. Io credo che alla fine il tutto sia molto intellegibile. Poi come sempre la verità non è né bianca né nera e tutta la vicenda è piena di cose scappate di mano. Quel che successe è il frutto di una gestione che ad un certo punto impazzisce e perde il controllo di sé.
Ci sono poi naturalmente gli errori del movimento nell’affrontare quel passaggio, nel non capire che avrebbe determinato un salto di qualità così drammatico. Voglio ricordare che l’innalzamento del conflitto anche sul piano simbolico venne da parte del movimento: la scelta di teatralizzare il conflitto in maniera plateale, la dichiarazione di guerra agli 8 grandi fatta al palazzo ducale qualche mese prima, l’annuncio della violazione della zona rossa. Certo, eravamo sicuri che ci sarebbero stati scontri di piazza, come eravamo sicuri che sarebbero rimasti nello spazio solito, dentro uno schema in cui fosse possibile per ciascuno fermare le macchine se necessario.
Ma quel che infine ha dato forza alla strategia repressiva ed ha contribuito alla crisi del movimento è stata l’accelerazione imposta da quei fatti che ci colsero impreparati.
Nell’immediato la reazione in Italia alla repressione genovese fu straordinariamente potente: nei giorni successivi in tutto il paese ci furono mobilitazioni enormi, in piccole e grandi città. Una reazione inattesa anche a chi aveva organizzato le giornate. Molto radicale, molto determinata e composta, che non cede alle provocazioni e che anzi rilancia.
Ma meno di due mesi dopo ci fu l’11 settembre e l’attacco alle torri gemelle. Questo terremotò tutto il dibattito e spostò l’attenzione su un altro piano. Si aprì il ciclo della guerra globale permanente: l’attacco alle torri gemelle, la risposta in Afghanistan, poi la seconda guerra del golfo. Era ripartita la grande macchina bellica.
Il movimento si organizza dunque sul terreno del pacifismo riuscendo comunque ad ottenere una grande mobilitazione, ma poi sopraggiungono elementi di crisi in qualche modo legati alla sua forma che per sua natura vive di vita ciclica. Il movimento è tensioni ed onde. Arriva dagli anni novanta, arriva al g8 di Genova e poi al 2003 e al pacifismo, fino al 2004 per un vertice all’Eur -anche lì le cose non vanno benissimo riguardo alla gestione dell’ordine pubblico- ma poi c’è una lunga fase calante che arriva fino ad oggi, con l’ unica eccezione dell’Onda studentesca nel 2008, ma già in una dinamica completamente diversa.
Recentemente ne ha parlato anche Bertinotti in una intervista concessa al Riformista, ma lo aveva già detto molte volte: in quel momento abbiamo perso un’occasione irripetibile. Non abbiamo compreso che quello era il momento per sciogliere quella forma di organizzazione della politica e cambiare il rapporto fra movimento e rappresentanza. Ne abbiamo discusso tante volte, ma se a Genova avessimo fatto una scelta diversa le cose sarebbero potute andare diversamente Ma questa cosa non era matura né dentro Rifondazione Comunista né, men che meno, dentro al movimento, dove ancora si facevano sentire le ferite degli anni 70. Così, mentre ogni esperienza politica di sinistra che nel recente passato ha avuto successo è nata dentro forti mobilitazioie, basti guardare a Podemos; noi non siamo stati in grado difare lo stesso, ed ora siamo in una posizione di grande debolezza e frammentazione. Peccato, perché poteva invece nascere una forza giovane, radicale e innovativa, perché quel movimento aveva dalla sua anche una grande capacità di innovare. Eravamo nettamente più avanti della destra sul piano dei nuovi strumenti. Quello era un movimento che, pur non conoscendo i social media, già era social: tutti andavano in giro con macchine fotografiche e piccole telecamere, e ci saranno in giro centinaia e centinaia di reperti. La destra locale e nazionale si accorse del nostro vantaggio e si mise ad investire su quel terreno, e intanto noi venimmo meno. Ora ci troviamo con Salvini e Meloni che uniti fanno 12 volte i followers di tutti gli altri messi insieme.
Queste tue ultime argomentazioni mi permettono di farti una domanda che forse è una considerazione. Io ho potuto votare la prima volta alla Camera nel 2018, quindi puoi immaginare da solo quanto sia lontano anagraficamente dall’avere diretta coscienza di quei fatti. Eppure l’influenza di quel 2001 mi ha affascinato fino a sedimentarsi nel profondo. Dopotutto ci volle poco a fare lo sforzo di pensarsi a terra al posto di Carlo. Fui influenzato fino al punto che ero rappresentante di istituto qui a Foligno e con gli altri decidemmo di organizzare un’assemblea in cui, quasi dal nulla e col tema freddissimo, per ritirare fuori il 2001 ed aprire quel dibattito con la mia generazione, usammo la sentenza europea che, a decenni dal fatto, condannava l’Italia per tortura. Poi, col tempo, un po’ anche per reazione, sono arrivato a pensare quel movimento come indotto e pavloviano, nel tentativo di decostruire la mia ideologia sono andato a prendere l’idealizzazione di quella piattaforma per ritrovarci ribellismo anni 70. E insomma procedendo così mi auguro di far sintesi facendo mia le consapevolezze su quel passaggio espresse da te e da Fausto Bertinotti, consapevolezze che mi pare diventino anche rammarico.
Tra i miei momenti più critici verso il g8 ci vedo una tendenza diffusa alla critica e al tentativo di delegittimazione della versione ufficiale, appunto un po’ pavloviana, una tendenza diffusa alla controinformazione e alla demistificazione di ciò che cade dall’alto, cosa che poi si può avvicinare a complottismo e a qualunquismo. .E insomma io vedo dei punti di contatto fra quei sentimenti e parte della sottocultura che poi darà ninfa al qualunquismo protogrillino. Ma forse sono io che critico il mio ribellismo trasportandolo in Genova.
Questa roba mi pare un po’ da blocco nero.
Io ci vedo qualcosa in più: la democrazia virtuale e cose simili. Dopotutto il Movimento Cinque Stelle nasce dopo quegli anni, da quella crisi irrisolta.
Su questo non c’è dubbio. Il Movimento Cinque Stelle nasce da quella crisi e risponde a quella crisi occupando lo spazio che avremmo dovuto occupare noi. Quel che ci sta capitando è la coda dell’aver perso quella occasione. Quel gruppo dirigente diffuso che aveva trovato uno spazio di convergenza -non solo del partito ma anche dei Centri sociali e delle reti- non si era posto alla giusta altezza il tema di dare uno sbocco a quella fase. Forse perché travolti dalla dinamica di movimento in cui, in buona fede, si cerca di non inficiare lo spazio di discussione. Però questo elemento, se posso chiamarlo così, “della controinformazione” io non lo vedo, o comunque non mi pare rilevante.
Detto questo io non amo la celebrazione e sono terrorizzato da ogni forma di reducismo che porta con sé molti rischi. Il modo migliore per evitarli è provare a ragionare seriamente di che cosa c’è oggi di quella storia lì, di che cosa ci può essere ancora utile. La cosa che rimane sono sicuramente i temi. Il punto rilevante non è dire che avevamo ragione, questo mi pare scontato, il punto rilevante è partire dal fatto che quel che accade oggi è, se possibile, una radicalizzazione delle questioni che erano davanti a noi al tempo. La globalizzazione ha radicalizzato immensamente le disuguaglianze. Nel 2001 scrivevamo ai grandi della terra “voi 8 noi 6 miliardi” e ci rivolgevamo ai capi di stato. Ora, scrivendo lo stesso, gli 8 cui ci dovremmo rivolgere sarebbero 8 persone fisiche che hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Le disuguaglianze sono cresciute praticamente in ogni aspetto. Il tema è ora: di fronte a questa ulteriore dilatazione delle differenze sociali, come ricostruire una forma di opposizione e, in prospettiva, di conflitto? Io penso che la risposta arriverà, come sempre, ma è evidente che non arriverà da noi. Arriverà da un’altra generazione con le proprie prassi e con le proprie parole d’ordine. Ma questo è il punto: tornerà ancora -e più di prima- la questione della riorganizzazione del conflitto. Perché le contraddizioni sono ancora tutte lì, se vogliamo, ancora più gravi.
Recentemente ho letto che persino Cottarelli ha dato ragione a chi protestava a Genova. Anche in certi ambienti si rivaluta quella fase.
Meno male.
Vedo dell’ottimismo nelle tue ultime parole riguardo nuove generazioni e speranze per il futuro. E’ tuo compito essere ottimista.
Non c’è bisogno di guardare per forza alle nuove generazioni. Ci sono segnali di un conflitto che riparte anche nei luoghi di lavoro, quello che accade nella logistica è il segnale che qualcosa torna a muoversi. Perché la radicalità delle contraddizioni ad un certo punto chiama il conflitto, non c’è storia.
Concludiamo così: tu, con tutto il tuo portato, cosa diresti ad uno come me che si sveglia al mattino e si dice che, tutto sommato, sarebbe andato in piazza?Che avrebbe fatto bene, come me e come le migliaia di persone che lo fecero. Che in piazza bisogna andarci e che la piazza bisogna prendersela. Sempre. Che la politica è anche se non soprattutto corpo e vita. Che il conflitto è il motore della storia. Che un altro mondo è possibile non era uno slogan generalista. Diceva invece che non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Che la storia non è finita, che la storia è per sua natura conflitto e che si incaricherà sempre di mostrare a tutti la sua verità: l’alternativa c’è sempre, ma la natura di questa alternativa non è scontata. Da che cosa dipende? Dai rapporti di forza, dall’esercizio del potere. E l’unica cosa per cambiare la distribuzione del potere è esercitare il conflitto.
