
#ricorrenze
Di Fausto Gentili
In foto: Il manifesto del Film “Madres Paralelas” di Pedro Almodòvar
Sarà un caso oppure no (e certo non lo è per quanto riguarda l’accorta, sensibile programmazione di Martedì al cinema) ma quest’anno a Foligno per intessere un dialogo significativo con i propri morti conveniva andare al cinema o a teatro piuttosto che portare al cimitero fiori destinati a loro volta, come sempre, a sfiorire nel giro di pochi giorni. In pochi giorni, invece, anche il più apatico degli spettatori ha avuto occasione, a più riprese, di misurarsi con le diverse declinazioni del tema, universale e insieme particolarissimo, della perdita: universale perché tocca a tutti, prima o poi e non una sola volta, andarci a sbattere la testa; e particolarissimo perché la mia perdita non è la tua, è – come dice un filosofo francese- “ogni volta unica” e in un certo senso irrimediabile. Eppure siamo qui, noi vivi, grazie al filo invisibile con cui abbiamo ricucito, uno dopo l’altro, gli strappi e proseguito un cammino del quale pure conosciamo in anticipo l’esito ma non il decorso.
Il fatto è che il decorso è più interessante dell’esito, la vita più interessante della morte, e vale ogni volta la pena di operarli, quei rammendi. Questo ci dice, in mezzo a cento altre cose, l’ultimo film di Pedro Almodòvar (Madres paralelas, al Politeama dal 28 ottobre al 10 novembre). Varcata la soglia dei settant’anni, Almodòvar (1949) invecchia bene e non smette di invitare anche noi a mantenerci vivi, vigili, creativi, curiosi, aperti a quanto di sorprendente c’è nella vita. Torna anche stavolta sui temi che gli sono cari e che hanno caratterizzato gli altri suoi capolavori, da Tutto su mia madre (1999) a Volvèr (2006) all’insuperato e forse insuperabile Parla con lei (2002): l’identità, il desiderio, la maternità, la perdita, la famiglia. (A proposito di famiglia: se la giustizia fosse sbrigativa e rieducante come in Arancia Meccanica – S. Kubrick, 1971 – il truce e superfluo senatore Pillon se la caverebbe con tre mesi di full immersion 24/7 nella filmografia di Pedro, e ne sortirebbe un uomo, se non migliore, almeno più innocuo). La perdita, dicevamo: un nuovo figlio, maschio o femmina che sia, non ti restituirà la figlia perduta e non colmerà un vuoto che niente e nessuno può né deve colmare; servirà però a farsi lui stesso progetto e libertà, a spostare un po’ più in là gli equilibri della tua esistenza, a consentirti di riprogettarla senza affondare nelle sabbie mobili del disappunto e della nostalgia. E senza rimuovere quello che hai perduto. Se qualcosa o qualcuno era stato rimosso, anzi, non è mai troppo tardi per mettere mano a zappe e picconi, dissotterrare gli scheletri, sottrarli all’oblio, dare loro – fosse solo per un’attimo, un’inquadratura che si mette a fuoco e subito si dissolve – pienezza di corpi e vigore di memoria. Anche se sono passati ottant’anni.
Non ottanta anni ma cinquanta è durato invece il rimosso di Marco Bellocchio. Tanti ne sono trascorsi tra il 1968, quando il suo gemello Camillo si tolse la vita, e la laboriosa realizzazione di questo Marx può aspettare, visto il 2 novembre sempre al Politeama. Un rimosso imperfetto, pieno di spifferi e fessure: situazioni, battute, immagini, sequenze che attraversano praticamente tutta la sua cinquantennale filmografia e che indirettamente rimandano a quella tragedia familiare. Bellocchio le infila quasi di soppiatto, tra una sequenza e l’altra di questo formidabile film-confessione, come a dire: ecco, questo è stato, per cinquant’anni, il mio modo di misurarmi con la domanda posta dalla scelta di Camillo. Un modo obliquo, indiretto e insufficiente, evidentemente, se è vero che – in vista degli ottant’anni, e con quattro dei suoi sette fratelli e sorelle, tutti maggiori di lui, ancora in vita – ha avvertito il bisogno di prendere di petto quella vicenda invece di continuare a girarci intorno. Ricostruire il quando e il come, il prima e il dopo (non certo l’inconoscibile perché) di quella scelta, e misurare il suo esito nella lunga, residua esistenza dei superstiti: il lavorio congiunto e difforme della memoria e dell’oblio, il peso del senso di colpa, le domande destinate a restare inevase. Mentre scorrono i titoli di coda del film, tra i più belli e significativi di Bellocchio, le immagini sintetizzano magistralmente quello che poteva essere e non è stato: prima la foto dei due gemelli insieme, più o meno ventenni, poi – affiancate – quelle di Camillo, forever young, e di Marco che, inesorabilmente, avanza attraverso i decenni della sua lunga vita di successo. Poteva restare un documento privato, lasciato ad impolverarsi in qualche cassetto della grande casa di famiglia; Bellocchio ha scelto invece di regalare al pubblico la sua tardiva elaborazione del lutto, e dobbiamo essergliene grati.

In foto: Il manifesto del Film “Marx può aspettare” di Marco Bellocchio
Gratitudine è peraltro il sentimento, credo unanime, dei pochi fortunati ammessi a partecipare a The walk, della compagnia Cuocolo-Bosetti: evento organizzato nel quadro del festival Umbria Factory ma che a fatica definiremmo teatrale giacché (come ben scrive Carolina Balucani nel numero di Sedicigiugno in distribuzione dal 16 novembre) “cambia irreversibilmente qualcosa in chi assiste, come sempre dovrebbe succedere con l’opera d’arte”. Si tratta infatti di una sorta di rito, una procedura attraverso la quale siamo introdotti – proprio mentre attraversiamo gli spazi più pubblici e familiari che esistano, le vie e le piazze della nostra città – nella dimensione più intima e inaccessibile e indicibile, quella di una coscienza altrui intenta ad elaborare un proprio lutto privato, una perdita improvvisa che terremota i suoi equilibri, disattende i suoi progetti, cambia il significato degli oggetti che popolano la sua vita. Più che di fronte ad una rappresentazione (infatti la bravisssima Roberta Bosetti non è mai di fronte a noi, semmai avanti, come una guida, una conduttrice di anime o un pifferaio magico) siamo dentro un cammino, nel vivo di un’esperienza spirituale. Qualcosa che ci coinvolge interamente, mettendo in contraddizione (e questo non sarebbe potuto accadere nel caldo confortevole di una sala di teatro) la passività dell’ascolto in cuffia con l’attività meccanica del nostro corpo che cammina, mentre ci misuriamo con lo scandalo della morte improvvisa ed imprevedibile che scompiglia la rassicurazione (“tutto è in ordine, tutto è come sempre”) che proveniva, fino a ieri, da ogni pietra, ogni dettaglio del paesaggio urbano.
Se scherzare con la morte di chi ci era caro è impossibile, prima ancora che proibito, lo stesso non si può dire per la nostra. Forse perché, nonostante milioni di esempi contrari e in barba alle nostre razionalistiche certezze, l’inconscio continua a rappresentarsela come un evento improbabile e comunque inattuale. E dunque accade spesso di evocarla a sproposito, nelle più diverse circostanze, persa com’è in un futuro opaco e perciò stesso meno verosimile. Saremmo più impacciati, credo, se ci fosse concesso di riferirne a cose fatte e, per dir così, col senno di poi. E’ quanto capita al fantasma di William Shakespeare, temporaneamente reincarnato nel brillantissimo Woody Neri, sul finire di Shakespearology (visto allo Zut ! il 23 ottobre; anche di questo riferirà il bell’articolo di Carolina Balucani).Invitato dai suoi invisibili intervistatori a rievocare le circostanze della propria morte, persino Shakespeare esita, gira al largo, prende tempo. Ci intrattiene, prima di venire al dunque, con un’esilarante sequenza delle “sue” morti per interposta persona: la morte di Amleto, quella di Mercuzio, quelle di Otello, Desdemona, Ofelia, Antonio, Cleopatra… Manciate di sabbia gettate nella clessidra per provare anche lui, come peraltro tutti noi facciamo, a procrastinare quell’appuntamento fatale.