Teatro e Cinema

Divagazioni autunnali

"Insomma, anche noi spettatori cinefili latitiamo in presenza, ancora per il timore covidico, proiettiamo in altro le nostre angosce, cerchiamo rifugio nei nostri congegni elettronici, ma siamo attesi alla verifica dei poteri, secondo i quali potremo tornare alla realtà o dissolverci tutti in attese snervanti." Cinema con Roberto Lazzerini.

#storiaememoria
Di Roberto Lazzerini
In foto: Swamy Rotolo, protagonista del film “A Chiara”


[…] perfino il protagonista dell’ultimo romanzo, in ordine di tempo, del sofisticato scrittore argentino Alan Pauls (1959), La mitad fantasma (SUR 2021), scritto a Berlino, in un anno di ospitalità del Berliner Künstlerprogram des DAAD, esibisce una marcata cinefilia, che si diffonde nella realtà virtuale della sua relazione amorosa. Savoy, il singolare protagonista, ama Carla, housesitter, che si sposta di continuo da una casa all’altra, da una città all’altra, da un continente all’altro con invidiabile leggerezza e mercuriale rapidità, per esercitare il suo mestiere, cioè la custodia temporanea di case. Astretti da queste lontananze, si amano via Skype. Con effetti sorprendenti, fino ad un finale inquietante. Nel rovello amoroso, che questa ubiquità provoca nell’amante, per descrivere con esattezza la crudeltà dell’istinto omicida, la sua fantasia in lui, e l’impaccio doloroso della terzietà, tra sé e l’amante schermata, cioè il fuoricampo immaginato dalla sua gelosia, il Savoy ricorre alla citazione di due film: Breve film sull’uccidere di Krzysztof Kieslowski (1941-1996), quinto film dei 10 mediometraggi (55’) del suo Decalogo (1988-89), ispirato a quello biblico, incarnato in racconti di vita quotidiana e Messaggero d’amore (The Go-Between, 1971) di Joseph Losey (1909-1984), un romanzo di conflitti di classe in questioni amorose, agli inizi del secolo scorso, vissuti da un ragazzo, poi adulto, che non smette suo malgrado di essere un intermediario, cioè un essere di passaggi, di scambi. Entrambi i personaggi citati riflettono lo stato di incertezza del protagonista: proietta invano sul ragazzo polacco che uccide un tassista per un nonnulla, sarà giustiziato dalla vendetta di uno Stato carnefice, la sua impotenza amorosa e trova nel messaggero inglese la finzione del suo stato. Insomma, anche noi spettatori cinefili latitiamo in presenza, ancora per il timore covidico, proiettiamo in altro le nostre angosce, cerchiamo rifugio nei nostri congegni elettronici, ma siamo attesi alla verifica dei poteri, secondo i quali potremo tornare alla realtà o dissolverci tutti in attese snervanti. Al contrario dei piccoli dispositivi della virtualità, che fomentano il narcisismo di massa e il sentimento di onnipotenza, il dispositivo cinematografico, ancorché declinante secondo molti osservatori, accoglie nell’oscurità e nel silenzio i sentimenti e i pensieri più potenti, che cercano poi di riavvolgersi o svolgersi nelle nostre esperienze reali. Nell’ultimo capolavoro di Marco Bellocchio, Marx può aspettare, visto  per la seconda volta, nel giorno commemorativo dei Defunti, nel Martedì folignate, ho sentito, tra l’altro, nell’enormità del racconto familiare, che rende decifrabile per buona parte tutta la sua filmografia, di nuovo, il tocco profondo e gentile del gesuita padre Virgilio Fantuzzi (1937-2019), critico cinematografico, che spesso veniva a Foligno per alcune matinée domenicali che un altro padre gesuita romano, esiliato a Foligno per indisciplina, colto e cinefilo, approntava al Supercinema, più di mezzo secolo fa. Quegli incontri volgevano in idee chiare e distinte (seppi poi che aveva contribuito alla scuola semiologica parigina di Christian Metz) ciò che in me era magma incandescente di visioni, così come Le mepris (1963) di Jean-Luc Godard fu la mia cresima cinematografica, cioè mi insegnò a prendere congedo dai miti e dalle leggende dell’infanzia, conservandone il senso ctonio, per ascendere al cielo delle narrazioni frattali, un universo composto di conflitti narrativi, senza ricomposizioni misericordiose né linearità rassicuranti. In fondo, l’arte (anche cinematografica, che lotta contro il suo destino di merce) sta al suo altro, l’esperienza mondana, come un magnete ad un campo di limatura di ferro. 

   Se il dispositivo cinematografico fatica a riarticolare le sue procedure, poiché un astuto calcolo commerciale prolunga lo stato di pausa covidica (investimenti sulle piattaforme dove una quantità sempre più grande di film circola con poca spesa, ritiro dell’investimento libidico da parte dei più deboli consumatori, i più instabili, dalle brevi abitudini, legati ai richiami pubblicitari e agli eventi roboanti), alla riapertura integrale delle sale al pubblico (fatti salvi i protocolli sociosanitari ancora vigenti) una massiccia offerta di film ne ha saturato subito i palinsesti: ogni settimana tre o quattro film si contendono la prima visione e tutti (i più devoti al rito, intendo, i più assidui) accorriamo più di due volte a settimana al cinema, malgrado le visioni festivaliere. Sarebbe un lusso ostentato, se fosse la norma, essendo un’eccezione, lo viviamo con dispetto contenuto, una paziente sopportazione al tempo del lento ritorno a casa, che forse, temiamo, non sia più quella che abbiamo lasciato mesi e mesi fa. Anzi, questo ritorno sarà (è, è stato) come quell’attimo prodigioso, dove il tempo sovrano non stacca la data di quel giorno dal calendario, anzi lo riallaccia a quelli passati tanto che lo spazio della sala (di qualunque sala) finisce per contenere i suoni, le immagini, le forme dei film visti, in grado di aiutarci a dare possibilità ulteriori al nostro comune vedere, sentire e comprendere. In Umbria, come altrove. In questo locale particolare, che è la sala cinematografica, sono le sfarzose suppellettili che tintinnano e brillano ad attrarre l’attenzione, cioè i film. Nel cinema italiano, esclusi i più noti e presenti nel mercato mediatico (Sorrentino, Martone, Moretti, Bellocchio, il più grande, perfino Mainetti, il più spericolato) a brillare in questo periodo autunnale, anche da noi, nelle nostre sale umbre, da Perugia a Spoleto e Terni, passando per Foligno, sono stati almeno quattro i film che segnalo, in ordine di comparizione: A Chiara di Jonas Carpignano, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, Il buco di Michelangelo Frammartino e I Giganti di Bonifacio Angius, non a caso autori impuri di cinema (quelli che amo di più), nel senso tradizionale del mestiere: documentaristi i primi due, anche videoartista il terzo, purista il quarto, cioè alla ricerca (im)possibile di un cinema tragico, in perfetto schema euripideo. Se Di Costanzo, nonostante la grettezza veneziana lo abbia reclutato tra i fuori concorso, ha occupato buone e meritate posizioni di mercato, gli altri sono più lenti (a Foligno ci saranno, se il Martedì proseguirà nel nuovo anno, anche senza il patrocinio comunale né il modesto finanziamento della legge regionale, come in questo scorcio stagionale) a guadagnare posizioni, perché non hanno nei crediti quella notorietà dei volti, che fanno accorrere, di Silvio Orlando e Toni Servillo: con fine astuzia l’autore napoletano, dopo anni di solida ma marginale maestria (L’intervallo 2012 e L’intrusa 2017), ha giocato una carta vincente per un dramma dal forte impianto, un apologo dalle molte diramazioni, non soltanto carcerarie. A Chiara conclude la splendida trilogia di Gioia Tauro, dopo Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017) con la stessa profonda empatia e potenza del cineasta, che nel frattempo si è trasferito a Palermo, per un’altra avventura; Il buco è un gioiello sotto una teca di quel locale, di cui parlavamo: viene dopo anni di altre imprese non cinematografiche e dopo due lungometraggi distanziati (Il dono 2003, Le quattro volte 2010). Alcuni speleologi nel 1961, scendono nel buco del Bifurto, lungo 683 metri, nel parco del Pollino, in Calabria, mentre sale al cielo il Pirellone, a Milano, e in terra calabra, attorno al buco, un vecchio mandriano muore in silenzio. L’altezza, la profondità e la superficie si ricongiungono sotto lo stesso sguardo, come in un disegno cosmocentrico. Il giovane sardo di Sassari, Bonifacio Angius, con i suoi Giganti  giunge al terzo lungometraggio (Sagràscia 2010, Perfidia 2014) e numerosi cortometraggi di studio e compie un perfetto ed audace salto in alto, in cui salda frammenti visivi e motivi ricorrenti delle esperienze precedenti con una nuova tensione drammaturgica. Chi vivrà, vedrà. Anzi chi andrà al cinema, vedrà, se non obbedirà oscuramente alla sentenza del film: ci sono persone che dicono di fare una cosa, poi ne fanno un’altra. 

   In Umbria, ci sono molti festival cinematografici, come dappertutto in Italia: da Narni, via Terni, a Montone, via Perugia, senza tralasciare Spello. Si è concluso da non molto la settima edizione del PerSo Film Festival a Perugia (5-10 ottobre), del cui valore e delle sempre più magre risorse finanziarie ha parlato Maurizio Giacobbe, nel numero 10 di Micropolis, la rivista umbra in edicola, ogni mese, con Il Manifesto. Si svolge in questo periodo (6-14 novembre) il Terni Film Festival (Popoli e Religioni), in cui è forte l’impronta pedagogica ecclesiastica e il richiamo mediatico temperato. Narni e Montone si svolgono in estate ed hanno una caratteristica fisionomia: il primo, “Le vie del cinema”, valorizza, con i restauri, il patrimonio cinematografico italiano, l’altro, “L’Umbria Film Festival”, sotto il patrocinio di Terry Gilliam, si apre al cinema internazionale. Spello, infine, alla sua XI edizione, annunciata per la fine dell’inverno, si è scavato una nicchia, “Le professioni del cinema”, interessante ma di scarse vedute. Insomma, in mezzo a tutta questa profusione, ci mancava Paolo Genovese, il direttore dell’Umbria Film Commission (ultima commissione in Italia ad essere insediata nel marzo di questo anno), a promuovere, con grande spesa (più di 100.000 euro), l’antipasto romanesco di Umbria Film Festival, a Todi (17-19 settembre 2021). A Mantova, alle giornate del Cinema d’Essai (27-30 settembre), tra gli umbri presenti, quasi tutti esercenti, se ne parlava, anzi mormorava, così male, che non se n’è scritto niente, con l’evidente timore del potere, che seleziona e distribuisce. Alla edizione annunciata, ne parlerò con più cognizione, anche se l’avvio è pessimo. D’altronde, lo dico con disappunto, chi (intendo le classi dirigenti) ha lasciato cadere il progetto Antonioni “Cinema Movimento Colore” (1979), e poi fatto emigrare altrove Le Giornate del Cinema Africano (1982-1994), merita di consolarsi con la visione dell’intronizzata, non solo dall’intervista del Primo Direttore Commissario, Madrina folignate di tutti gli umbri, da 8 anni residente a New York, festeggiante l’ultimo Capodanno presidenziale con la famiglia Trump: lei prende i cinofili per cinefili.  

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