
#ascuoladirisvegli
Di Fabiana Fattorini
In foto: Fabiana Fattorini con i suoi alunni
Tornare in classe in un nuovo anno segnato ancora da una pandemia in atto, nell’incertezza del quando e come poter svolgere la quotidianità della relazione educativa che si instaura fra docente e discenti, offuscata da tamponi, tracciamenti, quarantene, DAD. E’ una dura e concreta realtà per chi fa l’insegnante, inevitabile di questi tempi, ma è contemporaneamente una sfida per chi, oltre a svolgere il mestiere del professore, o del maestro, avverte chiara dentro di sé la consapevolezza, la responsabilità e l’intimo orgoglio di essere un insegnante. Tanti sono stati negli anni i contributi di pedagogisti, sociologi, scrittori e docenti stessi, che hanno riflettuto sulla centralità educativa dell’istituzione scolastica. Hanno discusso su disfunzioni, ruolo della famiglia, fragilità degli alunni, su quello che Pennac, professore e romanziere parigino, chiama il “mal di scuola”. Altrettanti continuano a riflettere sulla figura del docente, ne declinano le competenze, tracciano nuovi orizzonti di professionalità, contributi senza dubbio rilevanti per svolgere tale lavoro. Tuttavia, il nodo centrale sembra essere proprio questo: ognuno di noi, entrando in classe, giorno dopo giorno “fa” l’insegnante, o “è” insegnante? Temo che talvolta si rischi di sentire perfino troppo grande il peso di “essere” un docente, di assumersi pienamente onori ed oneri di un ruolo così centrale nell’educazione dei giovani, nella formazione dei futuri cittadini.
Cosa ci può sostenere allora nel riappropriarsi delle prerogative sociali dell’essere un docente? Ritengo che la semantica ci possa aiutare sostanzialmente. Perché ci chiamiamo insegnanti o maestri, mettendo in secondo ordine il termine professore, titolo che richiama all’erudizione e non alla relazione educativa, che ritengo centrale nella nostra professione? Insegnare deriva dal latino In-signare con il significato di segnare, imprimere e l’attività dell’insegnare, quindi, non è volta alla trasmissione del sapere fine a se stesso, consiste nel “segnare” la mente del discente, lasciando impresso un metodo di approccio alla realtà, che va ben oltre lo studio. Credo fermamente in tale chiave di lettura del ruolo dell’insegnante e cerco quotidianamente di metterla in pratica. In ogni ordine di scuola, e a maggior ragione nella scuola secondaria di primo grado, nella quale ho scelto di lavorare, è fondamentale guidare i propri ragazzi ad orientarsi nella complessità della vita lavorativa, sociale, affettiva che affronteranno nel loro futuro. Bisogna, per questo, che anche noi, insieme a loro, ci mettiamo in gioco, offrendo le nostre conoscenze e competenze, invitandoli a cibarsi alla mensa della cultura, con l’auspicio che ne assaporino, con noi e per mezzo della nostra professionalità, la bellezza e l’utilità per il loro futuro.
Qualcuno potrebbe rimproverare una eccessiva idealità a tale visione dell’insegnamento e potrebbe ricordare, come controcanto, i momenti di frustrazione, la crescente disistima sociale, la fatica quotidiana. Tutto giusto, ma non ci si può arrendere, con un disincanto che spegne giorno dopo giorno la nostra passione per tale professione e, cosa ancor più grave, rischia di arrivare alle giovani personalità, ancora in elaborazione, dei nostri alunni. Ecco, allora, un auspicio per tutti noi insegnanti: che continuiamo a sentire quei giovani “nostri”, centrali nella nostra vita, che abbiamo il desiderio, non solo che conoscano la matematica o la storia, ma che siano felici, realizzati nel loro futuro personale e lavorativo, ricordando con rispetto e affetto quel tratto di strada percorso a scuola con i loro insegnanti. Tutto ciò va costruito giorno dopo giorno, anche in una quotidianità complessa quale è quella che stiamo vivendo.
Tornando alla mia realtà di docente di scuola media, la sfida è particolarmente difficile. Entrano in classe, con i miei alunni, fragilità, ansie, difficoltà di apprendimento, incertezze sul futuro scolastico, particolarmente caratteristiche della pre-adolescenza, che vanno sostenute, accompagnate. Tuttavia sono ben presenti, su quei banchi, accanto a me, anche sogni, progetti, potenzialità, originalità che sento il dovere e ancor più l’intenso desiderio di coltivare, perché possano esprimersi a pieno. Grandi ideali, certo, che a volte cozzano con la fatica quotidiana dell’insegnare. Tuttavia non vedo, almeno per me, altra via per ritrovare, ancora una volta, rientrando in classe, l’energia e la passione di concludere questo anno scolastico che ancora ci attende, con tutte le sue luci ed ombre. Quando, varcando la soglia dell’aula, torneremo a dirci “Buongiorno, ragazzi”, “Buongiorno prof…”, come di consuetudine, la magia del fare scuola si imporrà su tutto il resto. Come non fare proprie le parole di Daniel Pennac nel suo “Diario di scuola”, quando afferma: “Forse è questo insegnare, fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio”?