
#uscendodalcinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: Le Chant des Oiseaux.
[…] non l’Epifania ma le epifanie non il Ritorno ma i ritorni. E non parlo della deprimente pandemia, che ci costringe ormai a vivere così, chissà per quanto altro tempo, di certo per questo inverno: neanche fossimo ferrigni cartesiani, prima di calcare la scena del mondo, avanziamo mascherati (lui, il nostro René, annunciava, parlando d’altro però, tra l’imbarazzo dei molti, larvatus prodeo). Noi invece tutti uguali, malgrado un’esigua minoranza, ostinata e invincibile. Con qualche ragione per protestare, con nessuna per negare le evidenze empiriche. Un groviglio inestricabile, sembra. Perché se si mette a bersaglio questa minoranza, con le sue logiche discorsive, si compie un doppio atto pericoloso: ci si spinge in una distretta sociale, che è quella del capro espiatorio (è colpa loro, interveniamo con fermezza, poi saremo salvi), dall’altro, nel contempo, assumiamo nel nostro discorso quella faziosità che pensiamo di combattere. D’altronde viviamo così malamente, ignari dei nostri privilegi, che fingiamo di dimenticare che non si può sanare una pandemia in una parte piccola del mondo, se il resto è sprovvisto dei necessari antidoti: da ciò le continue metamorfosi virali. L’abbattimento dei diritti di proprietà del brevetto industriale dei vaccini e la vaccinazione estesa al resto del mondo, potrebbero essere una soluzione. Come da noi le evidenze più critiche sono state e sono ancora la struttura attuale della sanità pubblica e il sistema dei trasporti. Questioni di politica grande, nazionale ed internazionale. Basta. Ho parlato come cittadino coinvolto, né politico né scienziato.
Proprio nei trascorsi giorni festivi, impedito in molte attività sociali (avevo però frequentato, alla fine di novembre e i primi di dicembre, il Torino Film Festival con numerose straripanti visioni), con rare incursioni nelle sale cinematografiche (un paio di film, poco interessanti: Diabolik l’ultimo del vecchio anno e House of Gucci il primo del nuovo anno, ma il 15 dicembre avevo visto Cry Macho del vecchio e compassionevole razzista Eastwood (1930), secondo lo scrittore vietnamita Viet Thanh Nguyen (1971), in cui l’indomito Clint non si tira indietro nell’abbracciare donne piacenti, fossero anche messicane, ma quando si tratta di attendere alla domatura di cavalli selvaggi cade nel ridicolo, in sede di montaggio, con l’eccesso di cavalcature e controfigure), ho recuperato dalla mia cineteca un film, che amo molto, di Albert Serra (1975), filologo catalano e cineasta di grande valore, Le Chant des Oiseaux (2008, b/n, 90’ – vost in francese) che mi permette di divagare sulle epifanie. Il film fu proiettato a Foligno il 29 dicembre del 2016 alla Galleria dell’ex cinema Astra, con non pochi spettatori rispetto alla capienza di quello spazio. Questo film mette in scena i Re Magi. Chi non conosce questa storia della tradizione cristiana? Su questa base comune si può divagare: d’altronde, se con i soli 12 versetti di un capitolo del vangelo di Matteo (Mt 2,1-12) si è elaborato un così sontuoso dispositivo religioso, non solo presepiale (vedi il duomo di Colonia), è perfino ovvio che il fuori testo, così attrattivo per menti creative, generi e faccia proliferare storie non autorizzate dal canone religioso. Così è il nostro caso cinematografico, che iscrive nel corpo del film questa potenza generativa di epifanie. I tre re, sempre a piedi, con pastrano, mantello e corona (due anziani e un giovane), sono immersi in paesaggi cangianti: con lentezza invidiabile, o esasperante, dipende dal punto di vista dello spettatore e della sua teologia, si interrogano come raggiungere un’asperità di roccia, su un altopiano freddo e ventoso, si gettano in acque tiepide tra le onde tumultuose di un mare, attraversano con fatica un deserto arido, si addormentano a ridosso l’uno dell’altro, si raccontano sogni singolari, strappano erbe di cui si nutrono, scrutano il cielo e i suoi bagliori, nel frammezzo del peregrinare, sostano nei pressi di una casa semidiruta, dove un giovane si ripara all’ombra dei muri, una giovane giocherella con un agnello e in casa un neonato dorme, si prostrano poi di fronte al bambino, ormai sveglio, in braccio alla madre, depongono alcuni doni in silenzio. Un ragazzo, un angelo supponiamo, avverte Joseph che i Romani giungeranno a sera, meglio riparare in Egitto, i Magi si allontanano con l’usata calma, la giovane Maria è pronta per la fuga, ignara che questa volta, supponiamo noi che sappiamo, l’agnello non sarà il Sostituto, come al tempo di Abramo. Se Matteo l’evangelista ha impiegato 12 versi per edificare il racconto sull’arrivo dei Magi e sulla loro Adorazione del Bambino, scolpendolo con lo stilo e aprendolo poi ad una tradizione visiva millenaria, Albert Serra il cineasta impiega 90 minuti per disperderlo nella Natura, nei suoi Elementi, in cui si confonde il silenzio delle sabbie, il sibilo del vento, il tumulto delle acque, il borbottio dei Magi, il bagliore del cielo, il venire sempiterno della notte e del giorno. Lontano allora si avverte, se si avverte, il belare dell’Agnello. Forse è questa la differenza tra scrittura religiosa e visura cinematografica: l’una stringe il racconto in canone esclusivo, l’altra lo disperde in atti in cui ognuno può vedere ma non ottenere certezza di lettura.

Ma, anche in tempi di durevole pandemia acuta, non mancano, per fortuna, coincidenze e occasioni felici di incontri significativi. Qualche settimana fa, un’amica di lunga data, Paola Blasucci (cito il nome non per ostentazione ma per riconoscenza: è stata per anni professoressa creativa di lettere in una scuola media cittadina, ha intrapreso un teatro di burattini con una sua piccola compagnia Blabusker esibendosi in spettacoli e laboratori, ha perfino realizzato un videofilm Il coraggio di costruire la pace [2014] per il 70esimo della Liberazione della città di Foligno [1944-2014] che fu proiettato anche alla Galleria ex cinema Astra il 16 ottobre dello stesso anno), mi ha lasciato in dono un catalogo d’arte che ho molto gradito per due motivi: contiene alcuni particolari disegni di Giorgio Antinori (1936), pittore e scultore di Fano, periodico residente a Foligno (è marito di Paola), che stimo ed apprezzo da tempo, per la sua vivida, permanente sperimentalità, inoltre questi disegni, e l’intera operazione del catalogo, hanno incontrato il tempo di alcune mie letture, potenti e coinvolgenti. Comincio da queste ultime. Daniel Mendelsohn (1960), ebreo di Long Island (USA), è autore di una monumentale opera di ricostruzione delle memorie familiari, Gli scomparsi (2006, 722 pagine), riguardanti la Shoa, prima e dopo la Catastrofe. Se non ricordo male, il libro fu presentato anni fa, dalla storica Luciana Brunelli, a Foligno, per uno degli incontri che l’Officina della Memoria dedicava alla Ricorrenza di gennaio (il 27, Giorno della Memoria, legge italiana n. 211 del 2000 e risoluzione dell’ONU n. 60/7 del 2005). Altresì Mendelsohn è docente di lettere classiche, filologo, al Bard College (NY). A questa sua attività di insegnamento ha dedicato uno splendido libro, Un’Odissea. Un padre, un figlio, un’epopea (2017), in cui racconta un’evenienza straordinaria: in occasione del semestre che avrebbe dedicato alla lettura dell’Odissea per gli studenti del primo anno, il padre Jay, 81 anni, ricercatore scientifico in pensione da tempo, gli chiede di poter partecipare al seminario. A Telemachia invertita, il seminario si svolge con bizzarre, divertenti, argute incursioni paterne tra i giovani studenti incuriositi dalla singolare presenza. Più tardi, qualche mese dopo la fine del seminario, addirittura la relazione familiare prosegue con una crociera nel Mediterraneo, nei luoghi dell’Odissea, dove però, per congiunture impreviste, a differenza di Ulisse, non potranno attraccare ad Itaca, né insonnoliti né giubilanti. Ma la relazione, tra padre e figlio, sempre incerta e mal espressa, troverà un suo cielo provvisorio, in quei liquidi lidi. Da studioso, Daniel sa, per tradizione costitutiva (Fredrich August Wolf [1759-1824], filologo emerito, fondatore di studi classici ad Halle, consulente spinoso della seconda cerchia di influenti alla corte di Goethe) che i poemi omerici si devono a tutta una serie di poeti sconosciuti, i cui canti solo più tardi vennero redatti in forma unitaria e divulgati con il nome di Omero, sa inoltre che il Ritorno di Odisseo è tessuto anche di altri ritorni, dei sopravvissuti di quella lunga guerra decennale, le cui peripezie sono disperse nei racconti che si ascolta(va)no e si travestono anche nei nostri racconti odierni. Alcuni anni fa (2012), Paola Blasucci condusse un laboratorio teatrale per i più piccoli su queste omeriche, alla Biblioteca Comunale Ragazzi (che dizione!) della nostra città, con l’ausilio dei disegni e delle maschere di Giorgio Antinori. Nel tempo, sono tornati a rielaborare quell’esperienza: Paola ha allestito un’antologica dei due poemi omerici, Giorgio ha disegnato (a carboncino su cartone) 45 tavole illustrative, La Casa degli Artisti di Deruta ha pubblicato in uno dei suoi Quaderni (il catalogo, appunto), conseguenza della mostra (dal 16 al 30 ottobre del 2021) al Centro d’Arte Contemporanea “Antica Fornace Grazia”. Amo il fare artistico di Giorgio: le polveri, le pietre, le foto, i colori, tutto quello che serve nella sua officina artistica ha sentore di operoso, ironico e ludico inventare, nel senso latino della parola. Qui, i suoi disegni mi richiamano i cartoni di scenografie da allestire per opere-film mai visti, gli stucchi di palazzi mai visitati, i fregi di templi abbandonati, i cartigli con influenze orientali, le copertine di vecchi libri scolastici: tutto è di rigore stilizzato, come si deve per queste opere grandiose, cui dobbiamo il pensiero e le sue relazioni in forma di canto. Ritorna in questo un moto dimenticato: tutta la polvere d’oro di questi racconti caduta nell’infanzia (ne ho vivida memoria), carbonizzata nell’adolescenza per via di un canone scolastico, noioso ed opprimente (il mondo dell’insufficienza psicologica, del compromesso morale, dell’indecisione erotica e dell’oscillazione politica), si solleva di nuovo per via alchemica (l’opera dell’arte), nella tarda età a rendere ragione a quel detto aureo in cui l’essere felice è colui che sa collegare la fine della sua vita con il principio. Buon anno.