Dossier Scuola

Cos’è l’acqua?

Il quinto contributo di Francesco Valecchi, già Direttore Scolastico del I° Circolo di Foligno,torna a riflettere sulle antinomie di Bruner. La prima, la seconda la terza e la quarta parte del saggio sono state pubblicate nei numeri 22, 23, 24 e 25 di Sedicigiugno.

La terza antinomia di Bruner e la ricerca di un centro di gravità permanente

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Di Francesco Valecchi
In foto: Centro di Gravità Permanente


Ho iniziato questa serie di articoli evidenziando quelle che, secondo J. Bruner, uno dei massimi interpreti della pedagogia moderna, sarebbero le difficoltà, o meglio le antinomie, che si trova a dover affrontare chi si occupa di educazione oggi, a tutti i livelli. 

Ricordo che la terza antinomia, rilevata da Bruner, mette a confronto due necessità che infiammano ogni dibattito concernente il concetto stesso di educazione: Occorre coltivare l’unicità delle varie identità, dando cittadinanza a tutte (estremo A), o rifarsi a una universalità di valori, significati, usanze umane (estremo B)?

La soluzione di un simile dilemma chiama in causa la natura stessa del concetto di educazione, ma va anche molto al di là dei problemi educativi, coinvolgendo la concezione stessa dell’uomo e quindi la qualità della sua vita e del suo destino. Qui ci troviamo di fronte al problema dei problemi, forse all’emergenza più significativa del nostro tempo: quella riguardante l’etica; anche se spesso lo ignoriamo o ce ne dimentichiamo. 

Spesso, ad esempio sentiamo affermare contemporaneamente che non è possibile o tollerabile una scuola che insegni principi etici, ma che la democrazia è un valore irrinunciabile. Altrettanto spesso, nei discorsi, nei dibattiti, nelle argomentazioni si afferma che una qualsiasi cosa o fatto sono giusti o sbagliati o sono bene o male, ignorando che stiamo dando, volenti o nolenti, una nostra interpretazione etica a quel fatto o a quella cosa. Ancora più spesso confondiamo etica, valori, diritti e doveri come se fossero la stessa cosa.

Torniamo all’ABC del vivere civile. Perché è sbagliato uccidere, rubare, rendere schiavo un altro o stuprare, discriminare le donne o una categoria sociale ecc.? Solo perché c’è una legge che vieta queste cose? Sappiamo che questi atti non sono stati considerati ingiusti in altre epoche e non lo sono tuttora, in vari paesi del mondo. Eppure sentiamo che qualcosa non va e che non possiamo accettare ogni fatto, a meno di non liquidare pilatescamente tutto ciò che ci succede intorno come se non ci riguardasse. Sappiamo che ci sono diritti non contrattabili, pena la fine della nostra civiltà. Allora, è possibile trovare un criterio valido per tutti gli uomini, per definire ciò che è giusto o sbagliato e ciò che è bene o male? È possibile trovare quel “centro di gravità permanente” di una giustamente celebre canzone di Franco Battiato, “che non ci faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”? 

A questo punto però, la strada si fa sdrucciolevole, non soltanto perché l’esigenza di mantenere e salvaguardare le varie identità si scontra con quella di trovare un sistema di valori condivisi in un mondo dominato dalla globalizzazione, ma anche perché la parola “etica” evoca l’esperienza terribile degli stati etici o teocratici e sembra incompatibile con il concetto stesso di democrazia liberale e con un’educazione funzionale a questa. Ci sono dei valori comuni a tutti gli uomini e che tutti possano condividere al di là delle barriere delle appartenenze, al tempo della globalizzazione? Chi può definire ciò che è giusto o ingiusto in un mondo che non accetta più la visione unitaria fornita dalle grandi narrazioni delle religioni e delle visioni ideologiche? C’è una piattaforma di valori irrinunciabili sui quali fondare una democrazia? È ancora attuale il concetto-cardine del diritto romano: veritas non auctoritas, facit jus (La verità, non l’autorità, crea il diritto)? Dove cercare la verità in un mondo che sembra proporre tante verità, spesso in contrasto tra loro? 

Qualcuno mi farà notare, a questo punto, che la nostra civiltà si è data delle Carte dei diritti  dell’uomo, che dovrebbero costituire altrettanti punti di riferimento per un’educazione ai valori da declinare nelle pratiche didattiche e che la nostra Carta Costituzionale contiene una serie di riferimenti a molti di tali valori (lavoro, libertà, educazione, salute ecc.) da porre a fondamento della nostra convivenza. Sono sufficienti a creare le condizioni per una cittadinanza planetaria o rischiano di rimanere lettera più o meno morta se non vengono interiorizzati, attraverso pratiche educative, nelle coscienze individuali e collettive? E se sì, come?

Cerchiamo innanzitutto di fare chiarezza sul linguaggio.

Etica e morale, valori, diritti e doveri non sono la stessa cosa.

Se la parola “etica” indica quella riflessione sul comportamento pratico dell’uomo di fronte al bene e al male, il termine “valore” concerne ciò che l’essere umano considera un bene di tale importanza da far da guida alla sua volontà, alle sue scelte, al suo comportamento. La parola “etica” è usata, spesso, come sinonimo di morale e l’espressione “valore morale” indica quindi “ogni condizione o stato che l’individuo o più spesso una collettività reputa desiderabile” (voc. Treccani). Il sostantivo plurale “diritti” (e “doveri” connessi, non ce ne dimentichiamo!) designa invece quel sistema di norme che regola l’impiego della forza in una società: è cioè “un sistema di norme a sanzione organizzata che è obbligatorio se è generalmente efficace” (voce Diritto: Enciclopedia dei Ragazzi Treccani).

Volenti o nolenti siamo immersi in un mondo che ci impone, ad ogni passo, di mettere alla prova la nostra volontà: i nostri bisogni o desideri non sempre possono essere realizzati come vorremmo, la nostra libertà ha limiti, costituiti dalla nostra stessa natura, dall’ambiente, ma anche dalla richiesta di libertà degli altri che hanno bisogni e desideri come i nostri, diversi dai nostri o magari in conflitto con i nostri (perché, magari, vogliamo entrambi la stessa cosa). 

L’uomo, per sua natura, ha bisogno di vivere e svilupparsi in due dimensioni: quella soggettiva, costituita dalle sue sensazioni, maturazione fisica, capacità cognitive, affetti ed emozioni; e quella inter-soggettiva, che si fonda sulle relazioni (accudimento infantile, amicizie, passioni, contatti quotidiani ecc.). Egli è immerso profondamente in una società che esprime una sua cultura, in un tempo e in un ambiente naturale dai quali dipende la qualità della sua esistenza. Questo intreccio, profondo e vitale, tra ciò che è dentro l’uomo e ciò che è fuori di lui, diventa, dal punto di vista etico, necessità di armonizzare i valori personali (ciò che è considerato giusto per me) con i valori comuni: ciò che la società in cui vivo ritiene giusto, buono e necessario fare per rendere più sano l’ambiente per tutti (e quindi anche per me).

La ricerca di equilibrio tra valori incontra uno scoglio ulteriore quando si tratta di definire una “verità”: ciò che è vero per me non è necessariamente vero per un altro (il mio concetto di ciò che è giusto non coincide con quello del mio vicino, la volontà del mio Dio non coincide con quella del suo ecc.). Io e l’altro quindi crediamo di possedere due verità dalle quali dipendono una serie di valori che tendono a trasformarsi in una concezione di diritti (e doveri) contrapposti ed esclusivi. 

Qui sono di casa intolleranza, fanatismo, stereotipi e pregiudizi. E allora? 

Allora possiamo considerare tutto vero, tutto buono o tutto accettabile (almeno fino a che le altrui azioni non confliggono con le mie), in quello che è chiamato relativismo dei valori (segmento A della terza antinomia di Bruner), scannarci per affermare la verità più verità delle altre (opzione non presa in considerazione da Bruner, ma la più frequentata, dando un’occhiata alla storia o alla cronaca), oppure confrontarci, per decidere, con argomentazioni logiche e coerenti, cosa sia più giusto volere e fare per il bene di ciascuno e di tutti, tenuto conto della nostra natura duale (interna ed esterna).

E questo è un compito della pedagogia o, se vogliamo essere più precisi, un settore attinente all’educazione e alla formazione. Da dove dovrebbe ripartire una scuola finalizzata al pieno sviluppo dell’uomo e non al sacrificio di questo sui sacri altari della religione del profitto, della produzione e del consumo? Partiamo con un esempio, utilizzando una nota storiella.  

Ci sono due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: «Salve ragazzi, com’è l’acqua da quella parte?».  I due giovani pesci continuano a nuotare e dopo un po’ uno di loro guarda l’altro e fa: «Che diavolo è l’acqua?». (riadattato da: D. F. Wallace).

Allora, qual è il problema?

Vediamolo. Stiamo anche noi nuotando in qualcosa e il sospetto, che è più di un sospetto per la verità, è che abbiamo smesso da un pezzo di chiederci dove siamo o, per essere più espliciti, in che sorta di mondo siamo avvolti.

Ecco, la scuola dovrebbe farci comprendere in che dimensione siamo immersi, a partire dalla nostra natura iniziando con il chiederci: Chi siamo? Dove siamo? Dove vorremmo andare? Dove stiamo andando? (o, stiamo solo seguendo la volontà di altri?). 

Siamo esseri immersi in un infinito misterioso di cui dovremmo sentirci, in qualche modo, figli, ospiti di un pianeta da cui dipende la nostra vita, soggetti al dolore e alla morte, desiderosi di felicità e amore. Abbiamo bisogno, per vivere e crescere, di un contesto sociale e culturale che ci stia intorno, che ci accudisca e ci dia le attenzioni affettive necessarie fin dai primi anni della nostra vita e viviamo da protagonisti o da personaggi secondari in vari quadri: sociali (famiglia, scuola, amici, lavoro ecc.), culturali (lingua, valori, tradizioni, credenze ecc.), ambientali (paesaggio, clima, beni culturali ecc.), ma al contempo dobbiamo acquisire autonomia e consapevolezza per esercitare la nostra profonda esigenza di libertà e di azione, partecipare con competenza alla vita della nostra società, soddisfare i nostri bisogni e coltivare desideri, sogni, ideali di vita. La nostra natura ci impone quindi di vivere in mezzo agli altri e questo fatto ci presenta a sua volta, un insieme di opportunità, ma anche dei limiti alla nostra azione. 

Esemplificando al massimo potremmo dire che, in tutto ciò che facciamo, seguiamo un percorso costituito da tre passaggi essenziali: a) una motivazione, cioè uno stimolo ad agire, costituita da bisogni, desideri, ideali, sogni, ma anche impulsi e istinti, b) una pianificazione (ciò che pensiamo di dover fare per soddisfare tale stimolo motivante),  c) l’azione (ciò che facciamo). In tutti e tre i passaggi, volenti o nolenti, risentiamo della nostra storia di vita, dell’influenza degli ambienti  in cui siamo cresciuti, della nostra capacità di tenere nel giusto equilibrio le nostre possibilità razionali e affettive. Sappiamo però anche che “l’azione che un individuo mette in atto ha una sua storia a monte, quindi è educabile” (Chiosso, 2018) e qui entrano in gioco la pedagogia, l’etica, i valori morali, la capacità di autocontrollo ecc..

I problemi di fronte ai quali si trova l’educazione ai valori oggi sono enormi, perché le esigenze di un tempo totalmente nuovo, che ci costringe a vivere spalla a spalla con modi di pensare e di agire radicalmente diversi, ci impongono di rispondere a interrogativi tanto urgenti quanto inevitabili. Vediamone alcuni.

Come trovare la strada per un nuovo senso educativo?

Come evitare le trappole dello stato etico in una società democratica fondata su valori comuni? 

Come insegnare i valori e l’etica senza manipolare le coscienze e intaccare la libertà degli individui?

Come sviluppare quell’intelligenza connettiva che metta insieme libertà e responsabilità personali, con valori e responsabilità comuni?

Come decidere se ciò che può fare la ricerca scientifica e tecnologica è sempre giusto?

Come educare alla partecipazione, alla cittadinanza e al bene pubblico?

Come educare al rispetto, all’empatia, alla solidarietà, alla prosocialità, all’assertività, alla cura? 

Sono, questi ultimi, valori su cui ci riconosciamo tutti? Vogliamo cominciare a discuterne?

Come educare all’autocontrollo in maniera che tra il desiderio e l’azione pratica (ciò che l’individuo fa) si sviluppi il dominio della ragione su quello delle emozioni o degli istinti?

Come inaugurare un mondo nuovo che faccia del bene individuale e comune (la “qualità” della vita) la stella polare di un’umanità più cosciente e più libera?

E, l’interrogativo forse più terra terra: come ritrovare la “fiducia” perduta nelle istituzioni, negli altri, in noi stessi?

Vediamo brevemente come hanno cercato di rispondere, a questi e ad altri interrogativi, tre grandi figure del dibattito educativo del nostro tempo.

L. Kohlberg (1927-1987) delineava tre livelli nello sviluppo naturale della formazione del giudizio morale nelle diverse età. In una prima fase, livello pre-convenzionale o pre-morale (2-9 anni) prevarrebbe il senso della paura (non faccio questo perché ho timore della punizione o di perdere l’affetto di mamma, papà, maestro ecc.); a questa ne seguirebbe una seconda (età adolescenziale), che Kohlberg chiama fase della morale convenzionale, in cui il ragazzo sviluppa le sue relazioni in un gruppo e inizia a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato (in questo, il gruppo adolescenziale svolgerebbe un ruolo fondamentale). Nella terza fase, che dovrebbe corrispondere all’età adulta (qui il condizionale è più d’obbligo che altrove), l’individuo dovrebbe comprendere il perché delle leggi che regolano la vita della società e orientare la sua esistenza su un’idea regolativa, fondata sulla profonda convinzione e coerenza di volere e dover fare ciò che è giusto.

MASSACHUSETTS, UNITED STATES – 1977: Moral philosopher Dr. Lawrence Kohlberg at Cambridge High School. (Photo by Lee Lockwood/Getty Images)

L’azione didattica, suggerita da Kohlberg, schiva le insidie della manipolazione delle coscienze attraverso la pratica didattica della discussione aperta di gruppo su dilemmi a sfondo morale. Il passaggio da un livello all’altro avverrebbe sulla base della naturale maturazione individuale stimolata da queste discussioni a sfondo etico. Molto simile alla strategia suggerita da Kohlberg, è la pratica di M. Lipman nella sua Filosofia per Bambini (Philosophy for children).

H. Gardner, docente di psicologia ad Harvard, la cui teoria sulla molteplicità delle intelligenze umane ha avuto risonanza mondiale, rileva che nell’essere umano sarebbero presenti, tra le altre, e quindi capaci di sviluppo, due intelligenze: quella che lui chiama rispettosa e quella etica vera e propria.  Nel richiamare l’importanza dei modelli adulti per il corretto sviluppo etico (genitori, insegnanti, in primis), egli scrive: 

Un individuo che si pone eticamente concepisce se stesso come membro di una professione e si interroga sul modo in cui dovrebbe comportarsi in quanto tale; o concepisce se stesso come cittadino di un paese, di una regione o del mondo e si interroga sul modo di cui dovrebbe comportarsi per adempiere a questo ruolo” . (H. Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano, 2007, pag. 151). 

Howard Gardner

E. Morin, sociologo e filosofo, che si è occupato di educazione in sue diverse opere, nel proporre una scuola che sappia formare teste ben fatte (e non ben piene) superando i rigidi compartimenti disciplinari su cui si fonda la didattica della scuola di oggi in nome della transdisciplinarità, rilancia il ruolo dell’educazione etica come Acquisizione di un’etica del genere umano. L’etica deve formarsi nelle menti a partire dalla coscienza che l’essere umano è un individuo che, però, fa parte di una società. L’insegnamento deve contribuire a una presa di coscienza del nostro essere individui liberi, autonomi, capaci di realizzare bisogni, ideali e desideri, ma anche della nostra appartenenza alla società, alla democrazia e alla comunità planetaria. 

Edgar Morin

Potrei aggiungere a questo quadro che il filosofo H. Jonas (1903 – 1993) nel suo classico di filosofia morale, “Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica” (Einaudi, Torino, 1973), rilevava l’importanza di un’educazione al rispetto del pianeta (come unica nostra casa) e alla coscienza della responsabilità di dover lasciare un pianeta sano alle future generazioni.

Intanto, per tornare alla storiella dei pesciolini e dell’acqua, possiamo lasciarci con la riflessione sul nostro tempo, fatta dal rabbino capo di Londra A. Sacks e riportata da A. Gardner (cit. pag. 145):

“Quando tutto ciò che conta può essere comprato o venduto, quando possiamo infrangere ogni impegno perché non ci fa più comodo, quando la nostra salvezza è lo shopping e gli slogan pubblicitari sono le nostre litanie, quando il nostro valore si misura da quanto guadagniamo o spendiamo, vuol dire che il mercato sta distruggendo quelle forze su cui fa assegnamento nel lungo periodo”.

Ci torneremo.                               

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