
#storiaememoria #noterelle
Di Fabio Bettoni
In foto: Il manifesto del Partito Comunista (1847)
Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo. Comincia così il preambolo del Manifesto comunista. I nostri lettori si chiederanno perché tirar fuori dall’armadio delle anticaglie questo opuscoletto scritto da Karl Marx, un dottore in filosofia di estrazione borghese, e Friedrich Engels, un autodidatta in filosofia come egli stesso si definisce, destinato dal padre a conseguire prestigiosi allori in campo manifatturiero. Due giovanotti molto radicali (il primo è nato nel 1818, il secondo nel ’20), i quali, militando nel Bund der Kommunisten e diventati “i due grandi agitatori Alemanni” (così Pietro Gori nel 1891), tra il dicembre del 1847 e il febbraio dell’anno successivo, ossia del ’48, scrivono e danno alle stampe la “quintessenza del socialismo, il vero programma della democrazia socialista internazionale”, per usare le parole pronunciate da Karl Kautsky nel 1890 ricorrendo il 70° compleanno di Engels.
Lo tiro fuori, il volumetto, perché in questo febbraio 2022 ricorrono i 174 anni dalla sua stampa effettuata al numero 46 di Liverpool Street di Londra. Anniversario di per sé privo di significati particolari se non fosse che in quel febbraio del ’48, e precisamente il giorno 24, il flusso evenemenziale della storia registrò in Parigi quel moto insurrezionale che rovesciò la monarchia Orleanista, determinò l’avvento della seconda Repubblica francese, e avviò uno scossone rivoluzionario via via dilagato in tante plaghe d’Europa, Italia compresa. Ed anche perché, il messaggio diffuso da queste paginette è tutt’altro che inattuale se pensiamo che si debba cambiare in profondità, rivoluzionare insomma, questo mondo di sfruttamento economico-sociale, razzismo, sopraffazioni etnico-religiose, discriminazioni di genere, mercati finanziari dominanti, alleanze e guerre tuttora e sempre imperialistiche, dittature; anzi: dirò con il filosofo marxista Étienne Balibar che “Il Manifesto è l’incarnazione di quell’idea di rivoluzione che gli uomini e le donne ancora oggi nel XXI secolo continuano a temere e a sognare”.
Una prima citazione del Manifesto mediante poche pagine di sunti ed estratti, la si lesse in Italia ne Le scuole economiche della Germania in rapporto alla quistione sociale, libro di Vito Cusumano pubblicato in Napoli nel 1875; una seconda menzione seguiva nel gennaio del 1888, allorché, su La Giustizia periodico del Circolo di Propaganda Socialista in Reggio Emilia, si annunciava che nella sera del giorno 9 si sarebbe cominciato “a leggere questo breve e profondo lavoro, che per quanto ne sappiamo non fu ancora tradotto in italiano”, pur trattandosi di “una delle più splendide e interessanti creazioni del socialismo scientifico moderno”. Nel 1889, tra l’agosto e il novembre, l’opuscolo usciva a puntate su L’Eco del Popolo di Cremona, forse tradotto da Leonida Bissolati (1857-1920, avrebbe occupato la scena politica italiana fino alla morte), ma si trattò di una edizione parziale. Quindi, nel 1891, per la traduzione di Pietro Gori (1865-1911, organizzatore e pubblicista anarchico), vedeva la luce in Milano mercé l’editore-tipografo Flaminio Fantuzzi, con il titolo Il Manifesto del Partito Comunista, 1847. Volume unico, di 99 pagine. Subito appresso, grazie alla traduzione di Pompeo Bettini (1862-96, giornalista, poeta e drammaturgo sociale), apparve in versione integrale tra il settembre e il dicembre 1892, su Lotta di classe. Giornale dei lavoratori italiani organo ufficiale del neonato Partito dei Lavoratori Italiani (Genova, 14-15 agosto), embrione fondativo di quello che nel 1895 avrebbe assunto il nome definitivo di Partito Socialista Italiano. E infine, nel 1893, si aveva altra versione completa de Il Manifesto del Partito Comunista. Con un nuovo proemio al lettore italiano di Federico Engels, in opuscolo di 46 pagine con traduzione dello stesso Bettini, pubblicata dagli Uffici della Critica Sociale (il periodico fondato nel ’91 da Filippo Turati, 1857-1932), nella collana la Biblioteca della Critica Sociale e per i tipi della Tipografia della Soc. Coop. degli Operai in Milano. Il libretto conteneva il Manifesto esemplato sulla quinta edizione tedesca data in Berlino nel 1891, e una raccolta di altri testi: la prefazione di M. & E. all’edizione tedesca del 1872, quelle del solo E. del 1883 (ed. tedesca) e del 1890 (ed. tedesca), prefazione quest’ultima ìncludente altra prefazione del 1882 per l’edizione russa a firma di entrambi i Dioscuri del comunismo.
L’edizione tedesca del 1872 è passata alla storia editoriale del Manifesto come “nuova edizione” in quanto i due Autori vi apportarono qualche modifica marginale e fissarono il titolo definitivo del testo in Das Kommunistiche Manifest. Con questo stesso titolo: Il Manifesto Comunista nel 2018, anno bicentenario dalla nascita di Marx, il Collettivo C17 ha dato alle stampe una traduzione dal tedesco ad opera di Marina Montanelli, esemplata sull’edizione del 1890 l’ultima autorizzata e curata da Engels, il quale avrebbe lasciato questo mondo nel ’95. Un gran lavorio, dunque, per un grande lavoro del quale si rinnova costantemente la concreta riproposizione a perpetua memoria.
Opera solo apparentemente semplice, il Manifesto si compone di un prologo e di quattro capitoli: 1. Borghesi e proletari, con il celeberrimo incipit: La storia di ogni società esistita sin qui è la storia di lotte di classe. Un vero e proprio profilo di storia economica dualistica, antinomica, dialettica, sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro. Quindi, 2. Proletari e comunisti, a dire dei dati oggettivi della società di classi e di quelli soggettivi incardinati sul pensiero critico che non si basa “in alcun modo su idee, su principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo”; un pensiero che si compendia in 10 punti programmatici: sulla proprietà fondiaria: da espropriare; sulla progressività dell’imposta; sulla successione patrimoniale da abolire; sulla statalizzazione e centralizzazione del credito, e del trasporto; sulle nazionalizzazioni delle fabbriche e collettivizzazione della terra, nonché formazione di eserciti industriali e agricoli, industrializzazione dell’agricoltura; sulla educazione dell’infanzia pubblica e gratuita con eliminazione del lavoro minorile. Ancora, 3. Letteratura socialista e comunista, un piccolo e impareggiabile trattato pungentissimo di filosofia politica, la lettura del quale non è particolarmente agevole per chi non avesse avuto allora e non avesse oggi l’opportuna attrezzatura teorico-teoretica: ma il Manifesto si rivolgeva e si rivolge al proletariato cosciente e munito delle armi della critica. Infine, 4. Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione: una carrellata internazionale sui detti partiti, fondata sul presupposto che “i comunisti lottano per il raggiungimento di scopi e interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano al contempo il futuro del movimento”; e che “in una parola i comunisti sostengono ovunque ogni movimento rivoluzionario contro la situazione sociale e politica attuale”; giacché essi “dichiarano apertamente che i loro scopi possono esser raggiunti soltanto con un rovesciamento violento di ogni ordinamento sociale esistito sinora”. Perciò: Proletari di tutti i paesi unitevi!
Una proposta “femminista” mancò dalle pagine del grande libretto. In proposito, nella ricchissima raccolta di testi e notazioni realizzata da C17 (la lettura della quale caldeggio vivamente), saranno da leggere le pagine che Alisa Del Re dedica ad una rivisitazione dell’analisi marx-engelsiana del modo di produzione capitalistico introducendo la categoria di lavoro riproduttivo; e quelle di Silvia Federici sull’asserzione assai netta dei due Alemanni secondo la quale “le differenze sessuali e di età non hanno più alcun valore sociale per la classe operaia”; nonché quelle di Verόnica Gago su ciò che significa, o potrebbe significare, “pensare l’esistenza proletaria dal punto di vista femminista”.