
#cultura #scienza #democrazia
Intervento di Matteo Santarelli
In foto: Matteo Santarelli
Buongiorno a tutti e a tutte, grazie per l’invito.
Il tema generale del festival è scienza e filosofia. Pertanto ho pensato di raccontare qualcosa che riguarda entrambi gli ambiti, ossia la scienza e la filosofia – in particolare il tipo di filosofia si cui mi occupo io, ossia la filosofia morale e sociale.
Il tema specifico del mio intervento è il seguente: il rapporto tra scienza e politicizzazione. Cioè, che succede quando la scienza viene politicizzata, quando le pratiche e le questioni scientifiche vengono pensate come politicamente rilevanti?
Il tema non è solo un tema accademico, ma è anche un tema del dibattito pubblico. Emerge una questione, una questione di cui si occupa la scienza, e bisogna capire varie cose: è una questione rilevante per la politica? La politica dovrebbe occuparsene? Se sì, chi? E come?
Due anni di Covid 19 ci hanno messo di fronte a infiniti dibattiti su tale tema. Molti giornalisti in Italia e altrove si sono chiesti: ma come è possibile politicizzare un virus? Che senso ha? Nessuno: è un virus, ha i suoi “interessi”, ossia quello di replicarsi il più possibile, che gliene importa al virus dei nostri interessi e valori politici? Che senso ha politicizzare una questione scientifica, che risolveremmo prima e meglio affidandoci a chi ha le migliori conoscenze e competenze sul tema, mettendo da parte i valori e gli interessi delle varie parti politiche, e concentrandoci solo sui fatti?
Mi sia concesso un inciso: questa diatriba politicizzazione vs. competenze la troviamo anche oltre l’ambito biologico medico. Si vedano le critiche che sono state rivolte a Lebron James da parte di uno dei maggiori pensatori contemporanei, ossia Zlatan Ibrahimovic. Ibra ha criticato Lebron sulla base di un argomento delle competenze: meglio che ognuno fa il suo, invece di invischiarsi sulle questioni politiche. Ci sarebbe da aggiungere che pochi giorni dopo queste esternazioni, Ibrahimovic è entrato un pizzico in contraddizione con questa sua difesa a spada tratta del primato delle competenze, presentandosi sul palco di Sanremo in qualità di presentatore. Ma questa è un’altra storia.
A ogni modo, la posizione di base sembra semplice e di senso comune: la scienza fa il suo, la politica fa il suo, la politicizzazione è un’intromissione.
In questo intervento vorrei presentare un’ipotesi alternativa. Vorrei presentare un’idea apparentemente bizzarra: talvolta la politicizzazione della scienza ha prodotto progresso sociale e progresso scientifico. In alcune situazioni rendere esplicita la posta in gioco politica di una questione di cui si occupa la scienza, ha prodotto risultati positivi per la società e per la scienza. La chiamo “ipotesi” non a caso: è una tesi che mi sembra attraente, ma non ho ancora le basi per assumere una posizione definitiva sul tema.
Prima di presentare questa ipotesi, un passaggio necessario in ogni discussione filosofica. Ogni volta che si introduce un concetto, bisogna avere le buone maniere e l’educazione di presentarlo. Pertanto, vi presento il concetto di politicizzazione. Che significa politicizzare? Una questione vecchia come la filosofia, che richiede di capire che cosa significa politica, in quanti modi si fa politica, qual è l’essenza della politica, e così via. Più prosaicamente, mi limito a presentare la concezione di politicizzazione che trovo più funzionale. Politicizzare una questione implica due movimenti: contestabilità + rideterminazione. In estrema sintesi, la contestabilità suggerisce che le cose potrebbero andare altrimenti, e che il modo in cui viene presentata una determinata questione è appunto oggetto di potenziale conflitto, disaccordo, contestazione. La rideterminazione implica che un determinato gruppo sociale può fare qualcosa per rideterminare il corso degli eventi.
Esempio classico: trattare un evento come una fatalità. Pensate al film Don’t look up: un gruppo di scienziati prevede che una cometa gigantesca si dirige verso la terra, e che l’impatto sarà distruttivo. Qui non c’è niente di contestabile: la cometa distrugge la terra punto e basta, al di là dei nostri valori, interessi, etc. Magari possiamo fare qualcosa, ma solo in senso scientifico e apolitico – distruggerla, deviarla, ma è incontestabile che la cometa arriva e sfonda tutto. Infatti appena gli interessi politici ed economici si intromettono politicizzando l’evento – ossia mostrando che “le cose potrebbero andare altrimenti”, e provando a intervenire così da produrre ricchezza economica dalla sciagura – ecco che (scusate lo spoiler) la cometa arriva e sfonda tutto. Morale della favola: meglio non politicizzare questioni di rilevanza scientifica, meglio che ognuno fa il suo.

Questa idea per cui è meglio non mischiare valori e interessi politici con questioni scientifiche è figlia di una lunghissima storia – da Platone (i sapienti al potere), Bacone (sapere è potere), Hume (non mischiare questioni descrittive con questioni prescrittive), fino a oggi. La grande formulazione però la troviamo da uno scienziato sociale, Weber, che afferma l’avalutatività delle scienze. Se sei un bravo scienziato, meglio che lasci i tuoi valori morali e politici fuori dal laboratorio, perché ti renderanno fazioso, partigiano (nel senso inglese del termine, non nel nobile senso italiano – per me è ancora nobile, per qualcun altro pare di no). Visto che la parola avalutatività è bruttina, suona male, e inoltre traduce anche in modo imperfetto la parola tedesca usata da Weber, da ora in poi opteremo per un più sobrio: neutralità della scienza.
Dopo le guerre mondiali, le democrazie liberali sembrano assumere questa idea della neutralità come tratto caratteristico. I totalitarismi e le democrazie non liberali invadono la scienza con la politica – pensiamo ai nazisti e tutta la storiaccia della razza, Oppure al caso sovietico di Lissenko, questo agronomo molto potente nella Russia stalinista che dichiara guerra alla genetica in quanto disciplina reazionaria, epurando tutti i fautori di tale scienza. Commenterà Jean Rostand: “non cadiamo nel ridicolo della politicizzazione dei cromosomi”. Le democrazie liberali no: lasciano la scienza libera, sono aperte anche in questo senso. Libera scienza in libero stato.
Però poi si leva qualche voce. Alcuni autori pongono la questione del rapporto tra scienza e responsabilità. Due eventi chiave, soprattutto per gli scienziati americani: Hiroshima e il Vietnam. Il progresso scientifico ha contribuito a costruire armi capaci di distruggere la vita umana in quanto tale. La capacità di mettere in discussione la vita in quanto tale attraverso le armi, come nota il filosofo Hans Jonas, richiede una nuova etica, l’etica della responsabilità e non quella delle intenzioni, l’etica delle conseguenze. Gli scienziati che partecipano alla costruzione di tali ordigni non sono responsabili verso la società? Non devono prendere posizione? Se sì, allora devono prendere una posizione anche etica e politica. La neutralità rischia dunque di de-responsabilizzare, di contribuire al male partecipando in forma presunta tecnica e avalutativa alla sua propagazione. In breve: la neutralità rischia di essere la spalla ideale della banalità del male, che Hannah Arendt denunciava proprio in quegli anni.
Altri autori ancora mettono in luce il rapporto tra scienza e potere. Alcuni saperi hanno la dignità di sapere scientifico, altri invece non meritano tale dignità. Questi saperi micro – ad esempio la micro-storia, la storia dei piccoli avvenimenti – diventano pseudo-saperi, in quanto non rientrano nel canone scientifico. Quindi nel definire qualcosa come scienza c’è una dimensione valutativa, di credito e discredito verso alcuni saperi critici della società – saperi che politicizzano, che mostrano che quello che diamo per scontato non è scontato. La microstoria delle istituzioni sanitarie e delle istituzioni penitenziarie mostra come i saperi scientifici ufficiali abbiano contribuito a legittimare e a trattare come “naturali” delle pratiche che invece giustificano, realizzano e consolidano pratiche di potere. Il maestro di questo approccio è ovviamente Michel Foucault. Celebre in tal senso la sua battuta: il problema del marxismo e della psicoanalisi non consiste nel fatto che non sono abbastanza scientifiche. Il problema è che sono troppo scientifiche. Tuttavia, in questa sede non ci interessano tali approcci, che pure hanno svolto un ruolo importante nella storia europea e italiana – per noi italiani/e, basti fare il nome di Basaglia.
Qui ci interessano piuttosto alcuni approcci che hanno affermato la rilevanza morale e politica delle scienze, senza con ciò rinunciare all’idea di oggettività. L’idea audace è la seguente: la scienza può essere oggettiva senza essere neutrale. In soldoni: è possibile affermare il carattere moralmente e politicamente rilevante di alcune pratiche scientifiche, e il fatto che tali pratiche debbano rispondere anche a considerazioni politiche e morali, senza rinunciare all’idea che: 1) la conoscenza scientifica sia la forma di conoscenza più affidabile che abbiamo; 2) che dobbiamo tenerci stretta l’idea di oggettività.
Per parlare di cose concrete, vorrei presentare brevemente due dibattiti rilevanti in tal senso.
In un recente articolo dello storico della scienza Gerardo Ienna, troviamo ben ricostruito un dibattito molto interessante, ossia il dibattito sulla neutralità della scienza negli anni ’70 in Italia. Ienna mostra bene come tra anni ’60 e anni ’70 si assista a una politicizzazione nell’ambito della scienza apparentemente più lontano da questioni morali e politiche: la fisica. I protagonisti di questo movimento sono Franco Selleri, Giuliano Toraldo di Francia, e Marcello Cini tra gli altri. Questa politicizzazione riguarda sia questioni molto concrete legate al finanziamento della ricerca – nel 1969 la SIF approva una mozione in cui si chiede di rinunciare a un finanziamento di 13 milioni proveniente dalla Nato – sia questioni più strettamente interne alla scienza – si chiede un maggiore interesse verso le questioni teoriche fondamentali, per la storia della scienza e una maggiore indipendenza dalla scienza applicata e dalle sue commissioni. Nel 1970 questi e altri autori presentano un manifesto – il manifesto di Varenna – in cui si afferma a chiare lettere che la scienza non è neutrale, perché da un lato dipende dal contesto storico e sociale in cui agisce, e in secondo luogo partecipa attivamente ai rapporti di potere. Il testo più noto prodotto da questo movimento culturale è senza dubbio L’ape e l’architetto, a cura del gruppo capitanato da Marcello Cini.
I protagonisti di queste attività si ispirano grossomodo a due autori: Thomas Kuhn, lo storico della scienza che ha messo al centro il concetto di paradigma, e il ruolo che i valori svolgono nel passaggio da un paradigma all’altro, e ovviamente Marx – con una certa antipatia verso il dogmatismo di Engels. A queste prese di posizione rispondono altri importanti intellettuali dell’epoca – es. Geymonat, Rossi, Colletti – i quali al contrario sostengono che non si può cedere sull’avalutatività della scienza, perché questo cedimento condurrebbe dritti all’irrazionalismo, che è sia poco scientifico, che poco marxista. Scrive Colletti: “i corpi cadono allo stesso modo secondo la legge della gravità nei paesi occidentali e in quelli sovietici”. Qualcuno ha chiamato questo dibattito Italian science wars.

Non è la sede per entrare nei dettagli storici. Ci limitiamo a sottolineare tre cose rilevanti per il nostro discorso. Primo, i critici della neutralità non rinunciano necessariamente all’oggettività – o quantomeno, non a forme complesse e non ingenue di oggettività –, né men che meno pensano che la scienza debba essere al servizio degli interessi politici di turno. Al contrario, una delle loro battaglie consiste nel richiedere un maggior ruolo alla fisica teorica rispetto a quella applicativa. L’idea è, al contrario, che quanto più la scienza si illude di essere neutrale, tanto più è ingenua e quindi manipolabile dagli interessi politici ed economici. Due, si tratta di un dibattito non solo accademico, ma di rilevanza pubblica per una certa area culturale e politica. Gli articoli della disputa escono su Repubblica e L’espresso, interviene persino E. Berlinguer, che democristianamente chiede di evitare gli opposti estremismi sul tema. Interessante quanto fossero diversi i tempi: ve l’immaginate Di Maio – ma anche Salvini, Renzi etc. – che interviene sulla neutralità dei saperi scientifici? Non è questione di livello di istruzione: anche accademici come Letta e Conte non lo farebbero, sono passati quei tempi. Nel bene o nel male? Lascio a voi il giudizio. Terzo aspetto interessante: come nota Ienna, contrariamente a quanto uno si possa aspettare, i più ardenti sostenitori della neutralità sono filosofi e scienziati, e i più convinti critici della neutralità sono scienziati. Non ha senso generalizzare, non voglio dire che gli scienziati sono meno dogmatici rispetto alla natura della scienza rispetto ai non-scienziati. Rimane però questa interessante asimmetria.
Il secondo ambito da cui viene una critica della neutralità della scienza che però non rinuncia all’idea di oggettività: i femminismi. Perché “i femminismi” al plurale? Perché mi sto riferendo a una corrente specifica del femminismo, che recentemente è stata chiamata empirismo femminista. L’idea di base di queste autrici (ad esempio Helen Longino, Sharyn Clough e Elizabeth Anderson) è la seguente: alcune teorie e pratiche scientifiche sono influenzate da valori maschilisti, e non lo sanno. Questo è un problema politico e morale, ma anche scientifico – questi valori rischiano di rendere la scienza faziosa in alcuni punti. Messa terra terra: se tu pensi che l’omosessualità sia una devianza, che le donne “per natura” facciano alcune cose piuttosto che altre, questo rischia di avere delle conseguenze nel modo in cui costruisci la tua teoria biologica, archeologica, antropologica, e nel modo in cui selezioni i dati a favore o contro tale teoria.
Bene, quindi cosa fare? Sembrano esserci due opzioni. Primo, costruire una scienza pienamente avalutativa, ancora più neutrale. Secondo, abbandonare l’idea che la scienza sia neutrale, accettare che vi siano valori che ispirano la scienza, che le pratiche scientifiche sono intrecciate a questioni e interessi di potere, etc., e che quindi le pratiche scientifiche partecipino di tale faziosità. In realtà queste autrici non sono contente di questa dicotomia. Contro la prima opzione, difendono dei valori femministi. Contro la seconda, pensano che i valori femministi in alcuni ambiti possano contribuire a una maggiore oggettività.
Sembra una posizione un po’ strana. Valori sì, oggettività sì, magari pure un fiasco d’olio – di quello buono, come si dice dalle parti nostre.
Ma nel 2004 Anderson fa un bell’esempio, quello del concetto di divorzio. Le ricerche su tale tema vedono contrapposti talvolta orientamenti teorici che adottano ed esprimono diversi orientamenti valoriali, che comportano delle chiare conseguenze sulle modalità con cui le ricerche vengono impostate e inquadrate concettualmente. Da un lato, gli approcci che si ispirano a una concezione tradizionale della famiglia concepiscono il divorzio come il momento di rottura di un importante legame relazionale, e quindi a livello empirico si focalizzano sugli aspetti traumatici di tale rottura. Al contrario, gli approcci femministi usano un approccio più ambiguo, in cui il divorzio viene concepito e analizzato non solo come un evento di rottura, ma come un processo tramite cui gli attori sociali coinvolti danno senso ai fallimenti e alle trasformazioni delle diverse relazioni familiari – fallimenti e trasformazioni che si estendono a fasi precedenti e successive rispetto al singolo “evento”.
Secondo Anderson, in questo caso un approccio chiaramente non-neutrale come quello femminista può produrre delle conoscenze nuove accessibili anche a chi crede in valori diversi. Il focus sul trauma comportato da approcci più tradizionali al valore della famiglia non viene screditato, ma al contrario viene inserito in una prospettiva più ampia. Tale ampiamento è certamente legato a una prospettiva valoriale non neutrale, e allo stesso tempo può essere riconosciuto come rilevante anche da chi sostiene valori differenti. Inoltre, le possibilità aperte da tale approccio femminista possono essere contestate e messe in discussione. Si può vedere se queste possibili conseguenze “positive” sia effettive, e se siano una prerogativa dei soggetti economicamente e relazionalmente più forti. Pertanto, la non neutralità non comporta necessariamente la perdita di imparzialità e di oggettività.
Due obiezioni a questo secondo esempio. Primo, l’idea per cui la scienza può essere non-neutrale e allo stesso tempo oggettiva funziona solo con scienze sociali. In questo ambito i concetti usati nella nostra vita sociale e quelli usati a livello scientifico sono simili (es. divorzio) e quindi c’è più interscambio). Seconda obiezione: in entrambi i casi, i soggetti attivi della politicizzazione sono scienziati/e, che condividono quindi un insieme di regole, pratiche e metodi. Che succede invece se i soggetti che politicizzano sono non-esperti? Se gli esperti hanno il dovere di stare ad ascoltare i propri colleghi, non è detto che lo stesso dovere si applichi quando i soggetti che mettono in discussione le teorie e le pratiche scientifiche sono persone “che non sanno quello che dicono”.
Una buona contro-obiezione a questa critica è il caso dei movimenti sociali sorti attorno alla questione dell’Aids, analizzato tra gli altri da James Bohman. Che succede qui? Succede che nelle prime fasi del problema gli scienziati che occupano un posto apicale nello studio si fanno un’idea sbagliata del virus, si come funziona, come si propaga, etc., probabilmente influenzati da un atteggiamento valutativo nei confronti degli omosessuali, all’epoca ritenuti gli unici “soggetti” interessati dal virus e dalla sua propagazione. Questo conduce a ipotesi arbitrarie e pericolose – es. l’aids come “malattia dei gay”, una concezione della vita sessuale delle persone omosessuali basata più su un documentario sulle scimmie bonobo che su reali conoscenze empiriche, l’idea che etero e lesbiche non sia toccate dal contagio, etc. I movimenti sociali svolgono qui un ruolo decisivo sia nella riconcettualizzazione dell’Aids, sia nelle procedure sperimentali e nel definire le norme e i criteri di tali procedure. Bohman non nega le difficoltà implicate dalla divisione del lavoro di indagine e dal rapporto tra esperti e persone coinvolte nella materia in esame. Tuttavia, a suo avviso i gruppi sorti attorno alla questione della diffusione dell’Aids negli anni ’80 mostrano come l’attivismo possa influenzare l’attività scientifica dall’interno, e non solo facendo pressione dall’esterno.
Nel caso in esame, questo è avvenuto in due modi. In primo luogo, l’attivismo ha contribuito a mettere in discussione alcuni profondi pregiudizi sull’omosessualità all’interno della comunità scientifica, che contribuivano a costruire una concezione sbagliata e pericolosa dell’Aids. In secondo luogo, l’attivismo ha influenzato direttamente le pratiche di sperimentazione dei farmaci anti-AIDS. Mettendo in primo piano i bisogni e le preoccupazioni delle persone malate, gli attivisti sono riusciti a ridurre gli standard di efficacia inizialmente richiesti prima di partire con la somministrazione dei farmaci. In tal modo, il bisogno di accesso rapido alle cure da parte di persone gravemente malate ha contribuito a ridefinire uno standard interno alle pratiche scientifiche – ossia, quale livello di efficacia va raggiunto prima di considerare un farmaco «sicuro». In questo caso, afferma Bohman, il pubblico degli attivisti non ha agito semplicemente come gruppo di pressione esterno, né ha screditato l’autorità degli esperti. Al contrario, esperti e non esperti hanno cooperato – talvolta in modo conflittuale – alla definizione di un problema e alla sua soluzione. Il risultato è un progresso sociale e scientifico – sia nella sensibilità verso la malattia, sia nella conoscenza scientifica della malattia. Un risultato dovuto a un processo di cooperazione e conflitto (di negoziazione cooperativa potremmo dire) tra scienziati e non-scienziati.
Ovviamente le interpretazioni non sono univoche tra gli studiosi. Qualcuno sostiene che questa negoziazione cooperativa tra scienziati e movimenti sia dovuta a condizioni molto specifiche e difficilmente ripetibili – una malattia a trasmissione sessuale, che quindi chiama in causa precetti morali e politici molto radicati; una forte posizione negoziale dei malati, che potevano sabotare i protocolli sperimentali ad esempio assumendo altri medicinali; l’alto livello di istruzione dei partecipanti a tali movimenti. Altri interpretano gli eventi in modo più light: gli attivisti non hanno cooperato alle pratiche scientifiche, ma hanno esercitato influenza dall’esterno. Come se dico che il terremoto del 1997 ha prodotto un incremento della conoscenza scientifica dei terremoti, non significa che gli scienziati abbiano negoziato le loro conoscenze con il terremoto.
Tutte obiezioni ragionevoli – tranne l’ultima forse, almeno nella forma estrema in cui l’abbiamo presentata. Tutte obiezioni che tuttavia non intaccano l’ipotesi di base di questo intervento. Un intervento che, ripetiamolo, non vuole sostenere che i rapporti tra attivismo sociale e politico abbiano sempre un lieto fine, né men che meno che la cooperazione e la negoziazione siano la migliore soluzione – talvolta è davvero meglio se ognuno fa il lavoro suo. Tuttavia, basta per il momento notare come l’incontro/scontro tra pratiche scientifiche e attivismo non abbia per forza implicato una rinuncia all’oggettività del sapere. Anzi, hanno prodotto un sapere più oggettivo – se permettete l’espressione – la cui oggettività può essere riconosciuta anche da chi sostiene valori differenti – es. il caso del divorzio: non è che se non sono un tradizionalista allora il divorzio è una festa; e non è che se sono tradizionalista nel 2022 allora rispetto all’AIDS la penso come un tradizionalista del 1980.
Per questo, l’intervento si chiude volontariamente con una domanda, piuttosto che con una affermazione. Forse è possibile, forse è giusto pensare a una via d’uscita alla dicotomia tecnocrazia-scientismo vs. (chiamiamolo così, in assenza di nomi migliori) populismo? Oggi da un lato troviamo chi afferma che la scienza istituzionalizzata non ha il diritto di limitare né la discussione pubblica sull’argomento, né un pronunciamento democratico sulle questioni sociali. Dall’altro, troviamo chi afferma che la scienza è una cosa troppo seria per essere data in pasto alla democrazia. In entrambi i casi, si assumono delle concezioni di democrazia e scienza non necessariamente condivisibili. Chi afferma che la scienza non è democratica e che la democrazia non è scientifica dimentica un fatto molto importante: la democrazia non è lo scontro deregolamentato di opinioni, non è solo il principio “una testa un voto”, ma al contrario una forma di vita individuale e sociale, provvista di specifiche istituzioni, che mira alla costituzione di interessi comuni che diano risposta a specifiche situazioni problematiche attraverso un processo di indagine. Da questo punto di vista, scienza e democrazia sono più vicine. Questo non significa che il rapporto tra comunità scientifica e gruppi e individui esterni a tale comunità sia pacifico e non problematico. Innanzitutto, è possibile che ciò che appaia come problematico ai membri della comunità scientifica – o quantomeno ad alcuni gruppi o membri di questa comunità – non appaia come tale ai cittadini e cittadine che non ne fanno parte. Ad esempio, gli scienziati che si occupano del clima possono giudicare gli stili di vita comuni come pericolosi, ma questa pericolosità può non essere percepita nel senso comune. Ovviamente, può valere anche il contrario: ciò che appare problematico ai cittadini, può non apparire come tale alla comunità scientifica. Pensiamo ad esempio alla questione della sicurezza: spesso vengono diffusi dati sulla diminuzione dei reati che non entrano in alcun modo in comunicazione con la percezione diffusa di insicurezza. L’ipotesi che abbiamo abbozzato in questa sede non è cieca rispetto a tali conflitti. Allo stesso tempo, essa mette in luce come una società in cui tali conflitti diventano cronici ed endemici è una società in cui la qualità della scienza e della democrazia è destinata fatalmente a crollare. Se la democrazia abbandona l’ipotesi dell’affermazione del metodo dell’indagine a totale favore dell’affermazione del metodo della conversazione, la democrazia abbandona se stessa. A qualcuno/a, i toni del mio intervento saranno sembrato troppo ottimistici. Ma è ancora più ottimistico pensare che il sistema democratico, già piegato dai lunghi anni della crisi attuale, possa sopravvivere a lungo alla scissione tra scienza e democrazia.