
#ascuoladipace
Di Sabina Antonelli
In foto: Gianni Rodari
Parlare di scuola. Parlarne ogni mese. Parlarne perché si riconosce a questa istituzione un ruolo fondamentale all’interno della società, in ogni luogo e in ogni tempo.
Parlare… perché se il dialogo è una delle forme di relazione e cura di sé e dell’altro da sé, e per questo va continuamente alimentato, sostenuto, proposto, la scuola è, o almeno dovrebbe essere, la terra fertile che lo accoglie, lo protegge e lo fa fiorire.
Parlare crea ascolto e questo, a sua volta, produce pensieri e nuove parole, che hanno modo di incontrarsi in quello spazio di rispetto reciproco che dovrebbe sempre esistere tra due o più persone che comunicano ben sapendo che ogni discorso, ogni confronto ed anche ogni discussione, non hanno mai un punto fermo che li conclude.
Gianni Rodari, nella sua filastrocca “Il Dittatore”, dice così:
Un punto piccoletto,
superbo e iracondo,
“Dopo di me” gridava
“verrà la fine del mondo!”.
Le parole protestarono:
“Ma che grilli ha pel capo?
Si crede un Punto-e-basta,
e non è che un Punto-e-a-capo”
Tutto solo a mezza pagina
lo piantarono in asso
e il mondo continuò
una riga più in basso.
Sarebbe bello se anche le persone seguissero i suggerimenti delle parole della filastrocca, lasciando a “mezza pagina” e “in asso” tutti “i punti-e-basta”, nessuno escluso.
Sarebbe bello sì. Come sarebbe bello che in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, ci fosse la consapevolezza del ruolo che l’insegnante può avere nel costruire occasioni di incontro e dialogo tra pari o tra alunni e adulti di riferimento.

Franco Lorenzoni in un suo intervento dal titolo “Il dialogo come luogo educativo necessario” afferma:
“Nella scuola ci sono troppe volte le parole vuote, le parole non credute, le parole senza corpo, senza energia. Quelle che sovente ci accontentiamo di usare noi docenti, e che gli studenti fanno fatica ad ascoltare. Parole che non comunicano e non generano nulla perché non suscitano inquietudine, non mettono in movimento e in discussione, non inducono a porci domande e a dubitare, e dunque non producono scintille e non fanno scaturire nuove idee.
Credo che discutere e ragionare con bambine e bambini, ragazze e ragazzi sempre su tutto sia indispensabile oggi perché il dialogo è il contrario della guerra È dunque il tempo di compiere nella scuola un grande lavoro di ecologia della parola. Nel senso etimologico: trovare casa alle parole, offrire casa alle parole. La casa delle parole è insieme un luogo e una tensione: il luogo è il corpo di chi le pronuncia tutto intero, sempre bisognoso di attenzione, la tensione è lo sforzo di avvicinarci agli oggetti della conoscenza. In qualche modo mi verrebbe da dire che autentica è la parola che non si accontenta, la parola che ricerca. Molto meno la parola che chiude il discorso, che afferma definitivamente.”
Per intenderci “il punto-e-basta” di Gianni Rodari.
Ma come parlare con i nostri alunni? Siamo in grado di farlo o a volte, e forse troppo spesso come dice Lorenzoni, usiamo parole vuote, che cadono nel nulla, non accendono scintille e non riescono a germogliare?
Per rendere fertile il nostro dialogare con loro dobbiamo innanzi tutto essere noi stessi “cercatori di senso”, aperti ad una continua formazione, pronti a metterci in gioco coltivando i nostri interessi e le nostre passioni. Inutile allungare la mano per donare loro qualcosa se non abbiamo niente nelle tasche.
In secondo luogo dobbiamo essere disposti ad ascoltarli, rispettando i loro tempi e le loro modalità, partendo dal principio che sono persone con un particolare modo di sentire e vedere la realtà che li circonda. Hanno loro stessi, sin da piccolissimi, una grande capacità di ascoltare il mondo e la vita, con una intensità che noi adulti, molte volte, sottovalutiamo. Sono in grado di fare ipotesi, di sperimentarsi e sperimentare e assorbono come spugne ciò che li colpisce creando spazio ad un pensiero bambino di fronte al quale dovremmo solo inchinarci.
L’ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze di Pasqua, ho portato i miei bambini in giardino tutta la mattina. La festa prima della festa è un bellissimo modo di accogliere i giorni speciali che stanno per arrivare, un modo di predisporre gli animi alla bellezza, alla gratitudine, alla gioia.
Sotto il mio sguardo correvano, saltavano, parlavano, si organizzavano e giocavano. Solo ad un certo punto mi sono accorta che una decina di loro si erano sistemati lungo il muretto che delimita il cortile e davanti al grande cancello di entrata. Erano particolarmente coinvolti nel gioco che stavano facendo e spingevano con tutta la forza che avevano sia il muro di recinzione che il cancello davanti al quale, qualcuno, si era seduto a terra, le gambe incrociate e parlava, lanciando ogni tanto un sassolino fuori sulla strada. Mi sono incuriosita. A che stavano giocando?
Mi sono avvicinata e ho sentito queste parole:
“Non ti preoccupare, noi ti stiamo aiutando. Stiamo buttando giù questo brutto muro, intanto prendi questo (e tiravano un sassolino). È un panino, è un succo di frutta, è un biscotto, è una fetta di torta…” Ho chiesto “Posso giocare anche io?” “Certo” mi hanno risposto i “distruttori”.
“Facciamo che noi buttiamo giù tutti i muri per far entrare i poveri, quelli che scappano dalle guerre, quelli che hanno bisogno e intanto loro al cancello gli preparano da mangiare. Tu dove ti vuoi mettere?”
Mi sono messa a buttare giù i muri che cucinare mi piace poco. Però ho tenuto lo sguardo basso per non far vedere quella commozione che ha sospeso il mio respiro per un lungo, interminabile, dolcissimo istante.
Se bambini di 4 e 5 anni giocano “ad aiutare chi ha bisogno” c’è speranza per questo mondo. C’è speranza di poter buttare giù i muri, non solo quelli edificati con cemento e mattoni ma anche, e soprattutto, quelli che crescono dentro di noi moltiplicando distanze, creando mostri, arroccando vite e pensieri in posizi9oni così estreme da mettere in pericolo tutta l’umanità. C’è speranza che il dialogo sia veramente il contrario della guerra e che il parlare, il confrontarsi, il raccontare la vita nella sua bellissima diversità, possa far venire alla luce una coscienza collettiva che è conoscenza personale, influenzata dunque dai propri pensieri, dalle ragioni personali e dal proprio punto di vista, ma è condivisa e mediata attraverso un percorso di arricchimento con lo sguardo degli altri, con i loro pensieri, le loro ragioni, i loro punti di vista.

Mario Lodi diceva:
“I bambini di oggi non sembrano molto diversi da quelli di un tempo […] I bambini di oggi hanno ancora voglia di giocare, necessità di affetto, anche fantasia. Ma c’è una cosa che essi sanno e si portano dentro, che i loro genitori e i loro nonni, quando erano bambini, non avevano e non sapevano. Una cosa triste come un’ombra: essi sanno che l’uomo, con la sua intelligenza ha inventato una quantità di macchine utili, ma nello stesso tempo ha prodotto armi che possono distruggere la vita sul pianeta. Essi sanno che il mondo è diviso e che su ogni parte stanno puntati missili pronti a partire, carichi di bombe. Sanno che in pochi minuti la terra può essere distrutta e gli uomini morire. E loro, i bambini, non avere il diritto di vivere la loro vita”..
Ecco…forse la soluzione alla guerra i bambini la conoscono meglio di noi. Ce l’hanno dentro, stampata in ogni loro cellula: accogliere, proteggere, prendersi cura di chi ha bisogno e noi dobbiamo soltanto imparare a vivere nel rispetto di questo loro sentire meraviglioso.