Le luci di Pasqua nell’ora delle tenebre

#ascuoladipace
Di Francesco Valecchi
In foto: Pasqua, di M.Ortiz (2012)
I cannoni sono tornati a urlare le loro frasi di sangue, di paura, di dolore e di morte.
Oggi che, di bocca in bocca, torna a risuonare la parola “guerra”, com’è stato per migliaia di anni, fin dai primordi della storia umana, oggi che la stupidità minaccia di distruggere l’intero pianeta, tutte le illusioni di cui ci siamo nutriti nei nostri giorni più spensierati e vuoti sembrano cadere, una dopo l’altra, nel triste snocciolarsi delle infamie che ogni guerra comporta. Dolore e morte, ancora, segnano il risvegliarsi dei demoni oscuri, sepolti nelle profondità dell’animo umano e parlare di Pasqua, in questo nuovo inferno, in cui si stanno scrivendo nuove e tremende pagine della storia della follia umana, sembra fuori luogo.
Eppure …
La parola “Pesach” indica una festa, la Pasqua ebraica, ed è tradotta in italiano come “passaggio”. Tale ricorrenza viene anche chiamata “Zman Cherutenu“, cioè “tempo della nostra liberazione” (Wikipedia). Per il popolo ebraico la Pasqua rappresentava e rappresenta il ricordo del passaggio del Mar Rosso e la liberazione dalla schiavitù d’Egitto.
Per i cristiani, la Pasqua accenna a un nuovo passaggio e ad una nuova liberazione. Ma quali? E, che c’entra questo, con la pedagogia di cui dovrei occuparmi in queste righe?
Tranquilli; non sto per fare un’omelia, né tantomeno un articolo di teologia: non mi spetta e non ho le necessarie competenze. Allora, che c’entra la Pasqua? Che cosa significano passaggio e liberazione in questa primavera di sangue? Passaggio per dove e liberazione da cosa? Comincerò con un ricordo di scuola.
Un giorno venne da me un’insegnante che mi mostrò un regalino che aveva ricevuto dalla mamma di un suo alunno proveniente da un altro paese e mi chiese cosa ne pensassi.
Il dono consisteva in una piccola rappresentazione, in carta lucida, del Crocefisso, incollata su legno. Oggetti simili si trovano abitualmente anche da noi, nei negozi di articoli religiosi, come la riproduzione dell’immagine del Cristo tardo-bizantino custodito nella cappella di San Giorgio della chiesa di Santa Chiara di Assisi: lo stesso che avrebbe parlato a San Francesco nella chiesetta di San Damiano (dove oggi c’è una copia). Il dono della mamma all’insegnante somigliava a una di quelle rappresentazioni, ma con una fondamentale differenza: il Cristo in croce sorrideva. Nei dipinti cristiani più antichi, Gesù in croce appare composto e sereno nel suo supplizio, ben lontano da quel corpo, contorto e straziato dal dolore, di quella che resta una delle rappresentazioni artistiche più impressionanti, cruente e realistiche della passione, come il celebre Crocefisso dell’altare di Isenheim (1510-15) di Matthias Grunewald (1470-1528), custodito nel museo di Colmar, ma non certamente felice, come in quel dono.
Quel regalo mi colpì, forse mi turbò. Poi mi attraversò la mente una riflessione su cui cercai conferma nei giorni successivi.
Presso alcune culture, un dio non può soffrire come uno schiavo, un delinquente o un assassino. Ciò è inammissibile e blasfemo. La morte in croce di Cristo è stata motivo di scandalo tanto che, in alcune ricostruzioni postume (come nello scritto apocrifo di origine gnostica intitolato Secondo trattato del grande Set), Cristo sarebbe stato sostituito sulla croce da un sosia, magari da quell’uomo di Cirene (il Cireneo) di cui parlano tre vangeli.
La realtà è che la morte in croce di Cristo rappresentava un bel problema per i primi cristiani e la teologia stessa cercò di attenuarne, in tutti i modi, la portata. Un dio che soffre, muore e offre se stesso come sacrificio ribalta totalmente il tradizionale rapporto uomo-Dio.
Fino alla morte di Cristo era l’uomo a offrire sacrifici agli dei (prodotti della terra, animali); in molte religioni del passato si sacrificavano esseri umani (il dono più gradito agli dei). Nella Fenicia, vicina alla Galilea, fino a qualche secolo prima della nascita di Cristo, si bruciavano bambini al dio Moloch (Ba’al Hammon). C’era un rapporto do ut des (io do affinché tu dia) tra l’uomo e Dio: “Io, misera creatura, ti sacrifico questa cosa, a me cara, me ne privo; tu, Dio, non mandarmi malattie, carestie, guerre, siccità, disgrazie, morte”.

Con Cristo il rapporto si ribalta in modo rivoluzionario: non è l’uomo che si sacrifica per Dio, ma è Dio stesso che si sacrifica per l’uomo; perché il dio di Cristo é “Amore” e l’amore è un regalo che, come tale, si fa gratis (e il dono più grande che qualcuno possa fare per i propri amici è quello della vita). Assurdo, inaccettabile per gli stessi cristiani (di scandalo della croce, parlerà San Paolo che ricordava pure che nella Bibbia è scritto:“Sia maledetto chiunque è appeso al legno”); anche perché con Cristo il mistero del senso dell’uomo, invece di diradarsi, s’infittisce. Ma questa è la dimensione del Sacro, dove l’uomo d’oggi sembra aver smesso di avventurarsi, spazio dove la ragione si arresta e s’inchina.
Il centro dell’insegnamento cristiano è nel kerygma, cioè nella “proclamazione” del Regno di Dio fatta da Cristo, (e riportata sostanzialmente da tutti i vangeli) e nell’annuncio dell’avvento del regno dell’amore.
Vediamo il vangelo di Matteo (22,34-40):
“In quel tempo i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova:
«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Il vangelo di Giovanni (13,34-35) riporta:
“Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri».
Il Comandamento nuovo di Cristo è molto di più di un comandamento (da questo dipendono infatti tutta la legge e i profeti). È un processo, sono tanti i sentieri dell’amore cristiano su cui incamminarsi, con un’unica meta da raggiungere: un’umanità dominata dall’amore. Per definire questo processo si può prendere a prestito dalla filosofia il concetto di ideale regolativo (Kant). L’amore di cui predica Cristo è un ideale regolativo, tante strade che si snodano e che convergono verso un orizzonte comune, che non deve mai essere smarrito e che richiede il costante esercizio e cura di ragione e sentimenti: l’Amore, appunto.
Il comandamento è articolato su due piani. Da un lato c’è Dio (da amare con cuore, anima e mente), ma Dio, come dice Gesù, “nessuno lo ha mai visto” (Giovanni, 1, 18) e quindi il dubbio sulla sua esistenza c’è, c’è sempre stato e ci sarà. Per cogliere Dio bisogna possedere fede che lui ci sia, ma la fede nessuno (come il coraggio di don Abbondio) può darsela da sé. Qualcuno ce l’ha, qualcuno la cerca, qualcuno la perde, qualcuno la trova in qualche parte della sua vita, qualcuno non ce l’ha, qualcuno ne fa una ragione di vita, qualcun altro non se ne cura.
Dio è, per definizione, absconditus. Nessuno può imporre a un altro di avere fede. Ma subito dopo la fede in Dio c’è il secondo comandamento che pesa come un macigno. Se per amare Dio occorre possedere la fede che egli esista, per amare l’uomo non c’è bisogno di questa fede. L’esistenza dell’altro non può essere messa in dubbio. Egli è qui, davanti a me. L’altro è il suo volto, l’epifania del suo volto (Levinas), il suo nome (Lacan), è relazione (Buber), è la sua storia: c’è, è qui, davanti a me e il suo sguardo m’interroga e il mio sguardo lo interroga. L’altro, lo sappiamo, può essere un santo o un criminale, un anonimo operatore di pace o un tiranno sanguinario e feroce, un homeless che sopravvive sotto i ponti o un ricco che non sa nemmeno quanto denaro possiede: il suo esserci può costituire una benedizione o una maledizione.
Mentre il cannone romba lontano le sue litanie blasfeme d’odio e di distruzione, possiamo tornare a dire che non c’è salvezza, non ci può essere salvezza, al di fuori dell’ideale regolativo dell’amore. La parola salvezza non indica qui un cammino verso l’inferno o il paradiso dell’aldilà, ma una più terrena sopravvivenza della specie. Per essere più espliciti: o troviamo un modo per convivere, per stare insieme con orizzonti comuni di conoscenza, di tolleranza di pace o siamo destinati all’auto estinzione, in un inferno che avremo costruito con le nostre mani, con i nostri demoni interiori che, dall’alba dell’uomo, si nutrono del nostro dolore, del nostro sangue, della nostra angoscia.
Il cammino verso l’orizzonte dell’Amore, costantemente insidiato dai vecchi e nuovi baal, conduce a un orizzonte di cui, ogni tanto, perdiamo la memoria e tale orizzonte coincide con il miglioramento della condizione umana. Per inciso, ricordo che Baal era una delle principali divinità della religione siro-cananea e fenicia, ma il nome di baal viene comunemente, nella Bibbia, associato a varie divinità. Nell’Antico Testamento si parla, infatti, dei baal come di statue e statuette a cui si offrivano sacrifici, probabilmente anche umani e contro i quali si scagliava l’ira di Jahvè. I nuovi baal non sono più statuette e non risiedono più sulle alture sacre, ma sono anch’essi assetati di sangue. Che altro sono, se non nuovi baal, la sete di profitto, di avere, di potere, di negazione di ogni valore e dignità umani per il vantaggio personale di pochi? Una nuova religione è sorta sulle macerie delle vecchie e i suoi grandi sacerdoti hanno i volti di uomini di potere, di cavalieri d’industria, di sornioni guru della grande comunicazione. Le celebrazioni dei nuovi idoli si sono solo spostate dalle chiese e dai templi alle banche, alle multinazionali, alle borse, ai mezzi di comunicazione. A questi nuovi baal, lontanissimi da ogni idea dì amore, perché questa è sostituita dalla sete dell’avere e dal tornaconto, si può e si deve opporre una diversa concezione del mondo che non è solo cristiana, come vedremo, ma che trova nel cristianesimo modelli, simboli e significati che possono illuminare il cammino per un orizzonte alternativo a quelli del profitto, del denaro e del potere.
Luciano Manicardi, ex priore della comunità di Bose, in un bell’articolo comparso sulla rivista Rocca (1/10/2021, pp. 44-52 – numero monografico dedicato all’educazione) e intitolato La pedagogia di Gesù, riassume la valenza formatrice dell’evento-Cristo, che è modello di comunicazione, di vita, di compassione. La pedagogia cristiana, quella autentica, non quella che ha dimenticato il suo mandato, si articola sulle attività didattiche relative all’ascolto, al comunicare (la pedagogia è arte del comunicare, ricorda Manicardi), all’originalità che scompagina i luoghi comuni, che motiva all’interpretazione e alla riflessione per guidare alla revisione del giudizio, che fa da stimolo all’immaginazione e alla creatività, allo stupore che spinge sui sentieri del nuovo e dell’inusitato, che accetta il conflitto per trovare composizioni pacifiche e assertive alla sua soluzione. Essa utilizza pratiche come il paradosso (le beatitudini), il racconto (le parabole), l’ammonimento. Del resto è la terapia della relazione, con l’invito a rendersi disponibili a rivedere se stessi, a trasformarsi, ad accettare l’altro anche nelle sue resistenze, la pratica-didattica preferita dal Cristo-maestro.
Nell’auspicabile, prossima caduta delle divisioni religiose, ideologiche, nazionali, etniche, nel lento estinguersi del loro Rumore (sul concetto di Rumore, come disturbo e distorsione del giudizio umano, così come introdotto da D. Kahneman, tornerò in un prossimo articolo), prodotto da altre stagioni culturali, può crescere l’albero di una nuova umanità. Disperse le nebbie dei furori antagonistici, scristianizzanti o anticristiani, che hanno messo sullo stesso piano: il clericalismo complice di poteri inguardabili e i martiri della pace e della giustizia; l’arrocco antimoderno della chiesa tridentina e i testimoni dell’attenzione per gli ultimi; il conformismo di gerarchie, abbacinate dai nuovi baal del profitto e del consumo e la vita silenziosa di chi rinuncia a ogni agio per vivere con la frugalità e l’amore per gli scarti della società; il fango di chi ha affondato le sue promesse nelle più oscene lusinghe della vita e coloro che possono mostrare le macchie delle miserie del mondo (in cui si sono volutamente immersi per alleviare le angosce della povertà, dell’emarginazione e dello sfruttamento), come medaglie del loro percorso di vita, può mostrarsi, in tutta la sua potenza, la trasformazione dell’uomo nell’amore del maestro di Nazareth. Tale spirito rivoluzionario, che ha attraversato come un fiume carsico, anche le più oscure lande della storia, si declina nelle pratiche formative per la vita, la libertà e la dignità di ogni persona (intesa nel suo valore di unicità e insostituibilità e contro ogni pratica di massificazione), per il rispetto del creato, per il discernimento del bene dell’altro che si traduce in solidarietà, empatia, assertività, prosocialità, tolleranza, pace, attenzione e cura.
Il sentiero del ritorno all’autentica sorgente del valore cristiano dovrebbe diventare il percorso da compiere per riattivare tutte quelle fonti sinceramente umanistiche della storia che hanno visto interrotto il loro flusso dalle intolleranze religiose e ideologiche e perdere la loro motivazione in sogni che si sono trasformati in incubi o che si sono adagiate nell’ipnotico richiamo del turbo-capitalismo. Le sorgenti autenticamente pro-uomo-persona della storia dovrebbero convergere in un grande fiume che, evitate le secche dell’ignoranza, del fanatismo settario, delle rigidità e delle intolleranze, scorra verso il grande oceano degli ideali regolativi del benessere dell’uomo. A chi minimizza o addirittura tende a ridicolizzare l’ideale cristiano, vorrei ricordare che è l’Amore ciò che fa da trama al tessuto del racconto della vita di ciascuno. Che altro è (o almeno dovrebbe essere), se non un atto d’amore e di responsabilità, quello che ci ha fatto nascere? Di cosa si è nutrito, per nove lunghi mesi, il nostro spirito-bambino, se non dell’amore di colei che ci ha portato in grembo? Non è in quel rapporto unico dei nostri primi anni, che in psicologia si chiama attaccamento con nostra madre, fatto di fiducia, di emozioni condivise, di complicità, che si sono forgiati il nostro carattere e le nostre capacità relazionali? Non è nel bene dei nostri cari, dei nostri amici, dei nostri insegnanti, che abbiamo trascorso gli anni intensi dell’infanzia e dell’adolescenza? Non è nell’intesa profonda con un partner che abbiamo investito la nostra vita? Non è sulla tenerezza per la nostra famiglia, i nostri figli e nipoti che abbiamo dato sapore ai nostri giorni più belli? Non è, magari, in quell’affetto particolare che è la motivazione al lavoro, che abbiamo speso gran parte delle nostre energie e del nostro tempo? Non è nella bellezza della natura, dei paesaggi, degli ambienti che abbiamo vissuto i nostri momenti più profondi? Non è amore la tenera lacrima che scenderà un giorno, quando sfoglieremo quell’album dei ricordi che è la nostra storia? Non è di amore che abbiamo bisogno quando, sui sentieri della vita, ci scopriamo fragili e soli?
Occorrerebbe riflettere dunque sulla necessità di una pedagogia ri-fondata sull’ideale regolativo dell’amore per gli altri, come dell’unica arma possibile per cacciare le ingiustizie del mondo. Per chi crede, la Pasqua è Resurrezione (più che morte) e speranza di un nuovo futuro, qui e nell’aldilà, dove è in attesa un dio misterioso che è Misericordia, Amore, Compassione. Per chi non crede, la Pasqua può essere motivo per ragionare, sperare e operare per una Resurrezione dell’uomo che scacci i demoni delle iniquità, dell’angoscia, del dolore e della guerra e crei le condizioni per un mondo di giustizia, di reciproca comprensione e fiducia, pace e cura: di amore, appunto.
Comunque la pensiate, Buona Pasqua.