Cultura Teatro e Cinema

Bagatelle in tempo di guerra

Il cinema in tempi di guerra, con Roberto Lazzerini.

#uscendodalcinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: La grande lllusione. (1937) Jean Renoir


[…] il colmo del masochismo non aspetta la battuta esplicativa ma è un annuncio pubblicitario Netflix, la piattaforma digitale odierna più aggressiva (il grande cinema a casa tua), presentato poco prima del film del giorno in una sala cinematografica deserta (due persone in un recente pomeriggio). Come succedeva per Skytv, qualche tempo fa. Con qualche spettatore in più. Prosegue, con un improbabile ritorno in forze, l’abbandono delle sale cinematografiche: spettatori diminuiti del 50% circa, in Italia, soprattutto. Finiti i ristori governativi, dopo la tregua pandemica, si vedrà. Si sente ogni tanto qualcuno alzare la voce, che si abbassa poco dopo la rabbia momentanea per lasciar tutto come prima, secondo lo stereotipo dell’italiano, raffigurato nel più bel film delle anteprime al 40°Bergamo Film Meeting (26/03 – 3/04 2022), Vortex di Gaspar Noé (2021, 135’), rispetto a cui auspico la proibizione del doppiaggio o l’interdizione della copia doppiata. In questo splendido film, una coppia di anziani coniugi, lei psichiatra (Françoise Lebrun, la già magnifica interprete di La maman e la putain [1973, 210’ b/n] di Jean Eustache), lui, critico cinematografico, di origine italiana (Dario Argento in ottima forma attoriale, che parla un buffo francese), vivono gli ultimi mesi della loro vita. Il figlio, tossicodipendente e inconcludente, reagisce con una battuta, rivolta alla madre, alle rimostranze paterne: è italiano, no, la sfuriata passerà presto. Quello che non passerà, invece, anzi durerà a lungo, è il tormento bellicoso di questi giorni: vedere ogni giorno scene di distruzioni, cumuli di rovine e cadaveri abbandonati ovunque, in Ucraina, nell’Europa dell’Est, è uno strazio insostenibile, toglie l’illusione, se mai l’abbiamo coltivata, di quella lunga pace, di cui sembrava avremmo goduto ancora, prima del congedo, graziati da una nascita tardiva, dopo la seconda guerra mondiale del secolo scorso. Le file di nostri simili, provenienti da almeno due continenti, per mare e per terra, respinti, come fossero l’inumano, con i più svariati metodi, moltiplicando i muri, spettri di pietra e di filo spinato di quello abbattuto nel 1989, però ci avevano avvertito che il mondo è da tempo fuori dai suoi assi (out of joint, per dirla con l’Amleto di Shakespeare) e a scardinarlo così non è stata affatto una fatalità, ma la conseguenza delle nostre azioni dissennate, individuali e collettive. La decantata globalizzazione, dai più, è stata, ed è tuttora, un’opera di incessante distruzione dei luoghi e delle persone. Se avessimo ascoltato, con più analisi razionale e meno deliri ideologici, le minacce dell’inverno nucleare (in senso epocale, non stagionale), per citare il titolo di un libro senile di inchieste ed interviste (1986) di Alberto Moravia (1907-1990), in cui lo scrittore romano decise di servirsi della scrittura per delimitare un campo utopico, cioè combattere una guerra di liberazione dalla guerra; se avessimo seguito con più decisione Gunther Anders (1902-1992) e Robert Jungk (1913-1994) nei loro piani di studio e nei civili metodi di lotta contro la sproporzione prometeica (dispositivi tecnologici prodotti per l’apparato militare ed industriale che l’immaginazione umana non riesce più a controllare), per il disarmo forse non avremmo avuto sempre queste cicliche tragedie, sparse ovunque, poiché solo per gli ignoranti ci sono cose nuove a questo mondo. Ci sarebbe stato bisogno di altre classi dirigenti in Europa, e altrove, per stare all’altezza di quell’apocalisse che, secondo i nostri studiosi, è cominciata nel 1914 e prosegue senza remissione in tutto il mondo. Altro che secolo breve! Perfino il testo esplicito di Moravia, una contraddizione evidente rispetto allo spavento nucleare, secondo cui soltanto una definitiva industrializzazione porta a compimento la civiltà, cancellando in via definitiva le arcaiche resistenze contadine, soffre di uno squilibrio analitico, per eccesso di polemica fraterna con Pier Paolo Pasolini: in verità, qualche forma di resistenza, cosiddetta arcaica, ma non lo è, può invertire le direzioni univoche e distruttive. Ne è così consapevole il lucido anziano Volker Schlöndorff (1939), cineasta presente a Bergamo come giurato dei 7 film in concorso, che ha presentato il suo ultimo film The Forest Maker (2021, 90’), come strumento di lotta ecologica e in cui segue, con passione ed empatia, il lavoro decennale di Tony Rinaudo (1957), agronomo australiano di ascendenze siciliane, nella riforestazione naturale del Sahel, nell’intera fascia media africana da Ovest ad Est, ricostituendo i terreni desertificati da economie predatorie e restituendo dignità ai saperi contadini, legati da tempo invece a devastanti monoculture.       

Nel frattempo, così forte è il bisogno di consolazione, nelle grandi sventure, come in quelle piccole, i cinefili riscoprono le memorie di sala, nell’auspicio di un ripopolamento. Anzi si moltiplicano i ricordi. L’ultimo libro, in ordine di tempo e conoscenza, è La grande illusione. Storie di uno spettatore (Milano 2021). Roy Menarini, l’autore [1971] (il padre cinefilo, mi ha raccontato a cena, dopo la presentazione del libro alla sala Pegasus di Spoleto, sabato 16 aprile, gli ha assegnato questo nome eccentrico per l’amore di un film, Una pallottola per Roy [1941] di Raoul Walsh, epico gangster movie in cui il protagonista Roy Earle è impersonato da Humphrey Bogart), che insegna all’Università di Bologna Cinema e industria culturale, si concede lo spazio barthesiano (da Roland Barthes) di una semiologia privata. In dieci stanze (nel senso metrico, parti del componimento complessivo oppure, anche in senso arcaico, soste nell’itinerario) rammemora i film decisivi della sua formazione, dall’infanzia all’età adulta, connettendoli a problemi di teoria e storia della spettatorialità cinematografica. Così evidenzia, senza intenzione esplicita, per ovvia diacronia, la necessità di libri paralleli, che esaltino le differenze di quella postura nel tempo. Il richiamo esplicito, questo sì, nel titolo del libro al film di Jean Renoir  (1894-1979) La grande illusione (1937) rimette in gioco la stratigrafia complessa di quel memorabile racconto, in cui si intrecciano tanti temi, per definire per analogia la figura dello spettatore nel sistema dell’industria culturale. Lo storico Pierre Sorlin (1933) nel suo capitale libro Sociologia del cinema (1977) poneva la necessità di interrogare il che cosa si guarda e si vede, si trattiene e ci sfugge, si discute e si riproduce, quali parole e quali stereotipi, assunti  nella visione: questi insiemi costituiscono i materiali per la definizione di sé degli individui e delle classi sociali. Non disponendo che di generalità, per ora, dobbiamo anche accogliere, come documenti preziosi, le memorie personali, che potranno costituire la determinazione di quello spazio audiovisivo e della sua importanza sociale, nella nostra formazione. Foss’anche per constatarne la sua fine.

The Northman

P.S.  un film in costume, visto l’altro ieri, a Foligno, in compagnia, (si fa per dire: ognuno a debita e giusta distanza) di tre giovani cinefili spoletini, vicini ai trenta e di mia conoscenza,  Northman di Robert Eggers (USA 2021, 138’) mi ha gettato di nuovo in una situazione infantile, quando cominciai a frequentare le sale cinematografiche: abitavo allora, a 50 metri da una sala. E, per ovvia connessione, con il libro citato di Menarini, da poco letto e discusso con l’autore. La differenza degli immaginari che si susseguono nel tempo, le età evolutive che si distendono in questi mutamenti di immaginario: questo mi piacerebbe indagare. Questo ultimo film mi ha lasciato indifferente (ne ho ammirato, certo, la fattura compositiva, la speziatura etnografica, la modulazione del canto e della musica, la demonologia, la selvaggia violenza dei corpi in lotta), ha catturato invece, del tutto, e rapito, a loro dire, i miei appassionati amici trentenni. È un Hamlet senza la potenza e la grazia di Shakespeare, è Amled  delle Gesta Danorum, elaborate da Saxo Gramaticus, storico danese del XII secolo d.C., ruvido incunabolo di quello che sarà poi il racconto diventato famoso, e da questo dipende. Il fatto è che io ero conquistato, e talvolta rapito, nell’infanzia, da questi film. Uno dei primi che mi conquistò, simile a questo, per certi versi, fu una coproduzione internazionale The Vikings (I Vichinghi, 1958, 114’) di Richard Fleischer, robusto cineasta di generi, con Kirk Douglas e Tony Curtis, Janet Leigh e Ernest Borgnine con la voce fuori campo, seppi molto più tardi, di Orson Welles (allora doppiato, però). A lungo rimasto nella mia memoria, insieme ad altri di questo genere e tenore, se ne andò con gli altri alla epocale (per me) visione di Le Mépris (Il disprezzo) di Jean-Luc Godard (1963, 86’ versione di allora, sconciata di 20 minuti dal produttore Carlo Ponti, di 105’ in verità, che recuperai più tardi, intorno ai 30 anni)  con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance e Fritz Lang, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia (1954).

Le Mépris

Questo film, in una sequenza memorabile, tuttora commovente per me, mi aiutò ad uscire dall’infanzia, come fosse un operatore semiotico implicito, che io riconoscevo come maestro illuminante. Uno sceneggiatore (Michel Piccoli), tormentato dai dubbi sul suo mestiere, alloggiato in una villa di Capri, abbandonato dalla moglie (Brigitte Bardot), che fugge con il produttore (Jack Palance), con il quale muore in un incidente automobilistico, prende congedo dal luogo, salendo l’interminabile scalinata che conduce alla veranda della villa: là, il regista Fritz Lang sta realizzando il suo peplum italiano Il ritorno di Ulisse. In un’inquadratura lunga ed elaborata Ulisse saluta con un grido il ritorno ad Itaca, mentre lo scrittore lascia il set, scendendo le scale della villa straordinaria di Curzio Malaparte. Con lui, anch’io me ne andai da quei film, per sempre. Ecco la mia considerazione: nella mia generazione vi erano riti di passaggio, scansioni delle età con diversi operatori (spettatore implicito del film, cineforum guidati da adulti e formatori, religiosi e laici, pubblici differenziati anche da censure piagetiane [da Jean Piaget, lo psicologo dell’età evolutiva]: vietato ai 14, ai 16 ai 18); nelle epoche successive, il mercato dell’industria culturale ha abolito, nel consumo, le differenze di età, di visione, realizzando opere di fantasia universali, rivolte a tutti senza distinzioni in cui il godimento infantile, per così dire, è il godimento universale, di piccoli e adulti. Se volessi spingere fino in fondo la suggestione, vorrei giungere invece in quel luogo, dove, prima del congedo definitivo, poter rivedere tutti i film che mi hanno fatto conoscere le diverse persone che sono stato, non l’unica che questo mercato vuole che io sia e che mi rifiuto di essere.        

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