
#guerra #pace
Di Moreno Caporalini
In foto: Bambola bionda.
Raccontare la guerra è difficile. Lo è, anche quando l’arsenale al quale possono attingere giornalisti e commentatori e consumatori di notizie, è carico di tanti strumenti di comunicazione, come solo pochi anni addietro era inimmaginabile. Quello che stiamo vivendo in questi mesi ci spinge addirittura a temere l’esatto contrario. Lo fa temere la tempesta multimediale, scatenata attorno alla guerra in Ucraina, che investe indiscriminatamente anche quanti abbiano interesse a sapere e si sforzino per capire cosa stia realmente accadendo.
Certo, che l’informazione, la sua gestione, il suo indirizzo e controllo, costituiscano uno dei fattori determinanti di un conflitto bellico, è cosa conosciuta e riconosciuta da tutti. È stato così da sempre e dunque ha poco senso stupirsi se il racconto della guerra e la propaganda anche oggi si sovrappongano, al punto tale da confondersi, come molti stanno denunciando. Quello che tuttavia fa notizia, nel così detto mondo occidentale, è la palese contraddizione tra i valori di libertà, democrazia e trasparenza, peraltro invocati a fondamento della scelta di campo a sostegno dell’Ucraina e la ostentata violenza esercitata nei confronti di chiunque manifesti opinioni o esprima punti di vista che non siano perfettamente coincidenti con la narrazione ufficiale o rivendichi il diritto a coltivare il dubbio.

Proprio in occidente, il diritto a ricevere notizie, potendole distinguere dalle opinioni e a poter esercitare la critica, viene quotidianamente calpestato. Almeno questo è quanto percepisco dal nostro Paese. Una triste e pericolosa deriva, che ci consegna tuttavia diverse opportunità che sarebbe davvero imperdonabile non cogliere.
La prima riguarda la possibilità di riflettere finalmente sui danni provocati dalla censura, operata proprio nel mondo occidentale riguardo al tema della guerra mondiale a pezzetti, come da tempo ripete Papa Francesco. Pezzetti di guerra mondiale in corso da tanti anni, consegnati al disinteresse, a censure e autocensure, con il risultato di trovare impreparata una pubblica opinione privata da tempo di notizie e di informazioni utili a per poter elaborare un robusto punto di vista sul mondo.
Raccontare la guerra è difficile, ma per provare a farlo bisogna innanzitutto volerlo fare. Limitandoci ai trent’anni che ci separano dalla prima guerra del Golfo, si deve prendere finalmente atto che a gran parte dell’opinione pubblica occidentale è stato totalmente negato il diritto a sapere che decine di guerre si stessero drammaticamente svolgendo in quasi tutto il continente africano, dal Mediterraneo al Mar Rosso, dal Centro fino all’Atlantico. Un diritto a sapere, negato anche riguardo al Medio Oriente, con l’aggravante che, in questa parte del mondo, l’informazione ha invece acceso spesso i suoi riflettori sulle guerre, ma solo a supporto di specifici interessi da difendere. Prima in Iran, poi in Iraq, infine in Siria e ad intermittenza sul Libano e l’Afghanistan. Per non parlare di India, Pakistan e sud Est asiatico.
Raccontare la guerra è sempre difficile, perché prima bisogna volerlo fare. Ma, anche volendolo, resta difficile quando l’obiettivo è palesemente predeterminato. Tentando di prescindere da una posizione, convintamente avversa alla Russia per l’aggressione che ha deciso di scatenare in Ucraina, io dico che raccontare la guerra è altra cosa che fare la telecronaca dai luoghi più vicini alle azioni militari, o raccogliere testimonianze commoventi dei civili che subiscono gli effetti del conflitto, perché bisogna avere preliminarmente chiaro, e ribadirlo costantemente, che non esiste la guerra pulita, contrapposta a quella sporca. L’impegno al rispetto delle regole, sancite da ultimo dalla convenzione di Ginevra, non assicura mai una guerra pulita. La guerra è sempre morte, sofferenza, distruzione.
Quanto sta avvenendo conferma altresì quanto si stia rivelando pericoloso non aver coltivato il minimo interesse, politico e culturale, per quanto stesse avvenendo oltre i confini del proprio Paese o di un Continente. Perché, restando in tema, per raccontare una guerra è necessario ricordarsi e ricordare che quello che continuiamo a definire il più lungo periodo di pace dalla fine della seconda guerra mondiale, ammesso che lo sia stato, è valso solo e soltanto per una parte di Europa e per qualche altra piccola zona del Mondo. Perché il resto del pianeta non è mai stato in pace. Perché milioni di uomini e di donne hanno perso la vita a causa di decine e decine di conflitti che si sono succeduti in questo periodo, molti dei quali riconducibili alla alla categoria delle cosiddette guerre per procura.
Quanto sta accadendo ci dice quanto sia stato dannoso aver coltivato l’illusione che il benessere di una collettività potesse dipendere da ciò che accadeva all’interno di confini ristretti e conosciuti, generando ignoranza e inadeguatezza ad affrontare le crisi in fase acuta come quella presente.
Come mi accadrà di ricordare nei prossimi numeri, raccontare la guerra vuol dire infine riconoscere che di guerra si tratta, non soltanto quando si contano centinaia e centinaia di morti in un breve lasso di tempo e si trovano città interamente distrutta e si vedono eserciti schierati gli uni contro gli altri. Nella terra dove ho scelto di fare cooperazione allo sviluppo ho imparato che la guerra esiste ogni giorno, da almeno settantaquattro anni.




In questa terra, ancora militarmente occupata dello Stato di Israele, da almeno settantaquattro anni ci sono due popoli, quello israeliano e quello palestinese, che al perenne stato di guerra hanno adeguato la loro quotidianità e organizzato la società e l’economia. Donne e uomini di questa terra, al perenne stato di guerra hanno piegato la loro umanità e i loro progetti di vita. Se non si racconta in Italia e in tanti Paesi del cosiddetto Occidente quanto accade quotidianamente in Palestina/Israele, spesso con pesanti effetti collaterali in Libano, in Siria e in Egitto, certamente non è perché non c’è la guerra, non ci siano tante vittime civili, distruzioni materiali e disastro sociale, ma perché non raccontare questa guerra è una scelta, alla cui base c’è una visione predefinita, da coltivare da difendere oltre ogni evidenza. Al punto tale, che si può decidere, come sta succedendo in questi giorni, che non faccia notizia, neanche il recente omicidio di guerra di una grande giornalista come Shireen Abu Akhel, riferimento prima di tutto umano, per un popolo intero, proprio perché raccontava da decenni questa guerra, che la maggior parte dei media hanno ignorato e continuano ad ignorare. Una considerazione finale, riguardo alla violenza alla quale si è fatto e si sta facendo ricorso per mettere al confino, fino a cancellarla, la cultura pacifista. Col pretesto di raccontare la guerra alle porte di casa, si è tornati infatti a sdoganare l’idea della guerra come necessità in quanto componente ineliminabile della storia dell’uomo, per poter denunciare che solo poche anime belle, dietro le quali si nasconderebbe spesso la complicità con il nemico di turno, possono continuare ingenuamente a coltivare l’idea di un Mondo fondato sulla cultura della pace, della convivenza pacifica come si è detto nella seconda metà del 900, sul disarmo, sulla non violenza e il multilateralismo. Ecco, partendo ancora una volta dall’Umbria, abbiamo la possibilità di riaprire il confronto sulla cultura della pace.
In questo millennio appena cominciato, può essere anche questo un modo per volgere in positivo il dramma nel quale siamo immersi. Quel mondo della sinistra plurale, del quale voglio continuare a far parte, non può accontentarsi delle pur straordinarie parole del Papa, anche quando questo Papa si chiama fortunatamente Francesco.
*Moreno Caporalini, in Umbria lungamente impegnato in politica, dal PCI al nascente Partito Democratico, da oltre dieci anni dirige, fuori dall’Italia, progetti di cooperazione internazionale allo sviluppo, molti dei quali in Palestina. Comincia con questo numero la sua collaborazione a Sedicigiugno. Sue anche la foto di copertina e quelle che accompagnano il testo.