
#cinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: Il critico e scrittore piacentino Piergiorgio Bellocchio
[…] come mi càpita spesso, ormai da tempo, ahimè: ad ogni morte di qualcuno o qualcuna, cui devo qualcosa, molto o poco, cui soprattutto sono in debito culturale nella mia formazione, riprendo in mano i libri, se ne hanno scritti, e rileggo, tramando pensieri e immaginazioni, come memoria del loro tempo e sostegno per quello che mi resta. Piergiorgio Bellocchio (1931-2022) è uno di questi. Da giovane attendevo con trepidazione l’uscita dei Quaderni Piacentini (1962-1984), che cominciai ad acquistare e leggere con regolarità, verso la fine degli anni ’60 e al principio dei ’70 del secolo scorso, alla Libreria Carnevali di via Mazzini (la prima, intendo), per la precisione, dal n. 26 del marzo 1966 (nel tempo, recuperai anche qualche numero delle annate precedenti e nelle varie antologie che ne scandirono il percorso) e seguitai a leggerli dopo la chiusura ufficiale (aprile 1980): stamparono per qualche anno ancora (1981-1984), con l’editore Franco Angeli di Milano, ma ormai quell’esperienza culturale era conclusa e la sua seminagione dispersa in molti o interiorizzata in pochi. Così interiorizzata in me che seguitai a leggere i numeri, quasi segreti per la pochezza distributiva nella rete libraria nazionale, di Diario (1985-1993), la rivista che Piergiorgio Bellocchio, direttore dei Quaderni, condusse per 10 numeri con Alfonso Berardinelli (1943). Di questa rivista, tirata in 1500 copie, autogestita, senza pubblicità e redatta in casa Bellocchio (via Poggiali 41, a Piacenza) conservo qualche numero, ma soprattutto l’edizione di tutti i numeri che l’editrice Quodlibet di Macerata ha ristampato, in riproduzione fotografica integrale, nel 2010. Dico questo perché con i Quaderni (intendo le annate acquistate) andò diversamente. Lo dico con riluttanza e con un certo dispiacere: vendetti le annate, lette con appassionata puntualità, per acquistare tutto il Teatro di Shakespeare, in seconda edizione Einaudi (i Millenni) del 1960. I tre volumi, color avorio, in cofanetto (traduzione di Cesare Vico Lodovici, con note su Shakespeare di Borìs Pasternàk, illustrazioni di Henry Fuseli presentate da Giulio Carlo Argan), sebbene sapessero un poco di legno marcio, ed io non fossi né sono un collezionista di edizioni rare, mi tentarono così tanto e il loro costo era così elevato, che cercai per altre strade un rientro della spesa, che di lì a poco avvenne, con il mercimonio digitale corrente. Del bardo inglese avevo un’edizione incompleta dell’editrice Sansoni (che si involò in altra città con i QP), questa completa invece fu acquistata nel 2008 (era un dono non si sa a chi del Natale 1962 di un tal Alfredo Casati con tanto di firma) intronizzata, restaurata e profumata come si conviene, compulsata ogni tanto come si fa con Platone e la Bibbia (almeno io). Ero tentato di scrivere del fatto, in quel periodo, a Piergiorgio Bellocchio, ma poi rinunciai per pudore. L’impulso fu la sua comparsa sullo schermo in quel mirabile film di famiglia Marx può aspettare (2021, 90’) che Marco, il più famoso dei fratelli, divenuto cineasta, realizzò l’anno scorso sulla morte del più giovane di loro, Camillo. Insomma, come si dice in queste occasioni, Piergiorgio avrebbe approvato. Si sappia comunque che tutte le annate integrali della rivista sono conservate e accessibili alla lettura alla Biblioteca Centrale Sormani di Milano. Volevo però parlare d’altro. Nel primo numero che acquistai Goffredo Fofi, redattore, interviene con Il cinema italiano del 1965. In quella rubrica (film da vedere e quelli da non vedere: si fa per dire, tutti bisogna vedere per valutare, ma la sanzione era estetica ed etica), il pungente ed inflessibile critico esaminava con evidente partecipazione Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, Vaghe stelle dell’Orsa di Luchino Visconti, Il momento della verità di Francesco Rosi, I pugni in tasca di Marco Bellocchio e costruiva uno scontro tra il cinema di Marco Ferreri e quello di Pietro Germi, risolto a favore del primo. Suppongo che sia nato da queste note piacentiniane e dalla sagacia critica del gesuita Virgilio Fantuzzi (ho già parlato delle sue incursioni folignate in cineforum domenicali), il mio interesse per il cinema italiano, che non mi ha più lasciato, nonostante le mie onnivore passioni per altri mondi cinematografici. Anzi, alle prolungate e ripetute visioni dei film italiani ho dedicato due saggi, per non parlare delle centinaia di schede filmiche occasionali, il primo nel 2002 Il cinema italiano alla fine del secolo e il secondo nel 2004 Ombre sonore: la lingua nel cinema italiano che l’ospitale professore Anthony Verna pubblicò nella sua Rivista di studi italiani che stampava con cadenza semestrale, alla Toronto University, dove ha insegnato per molti anni. Ora la rivista, fondata nel 1983, esce quadrimestrale, dal 2005 in versione elettronica e pubblica articoli in lingua italiana, francese ed inglese. Il professore invece gode la sua pensione a Collebudino di Valtopina, dove si è ritirato da alcuni anni.
Encore un premier film qui vient confirmer la vitalité réjouissante de jeune cinéma françois diceva Le Monde per la penna del suo critico cinematografico Mathieu Macheret, riportata dal settimanale Utopia la Gazette de cinemas di Avignone il settembre scorso (2021) nel presentare l’esordio alla regia di Yassine Qnia (1988) con il film De bas étage (87’): un film solidement ancré dans le réalism, remarquablement construit sur une observation lucide e sensible du milieu qu’il embrasse e sur une belle étude de personages. Ebbene, che lo sappia anche Macheret, potrei dire anch’io tutto questo del nuovo, recente cinema italiano. E ha rafforzato questa mia opinione (non soltanto la lunga consuetudine di incontri, più di settanta, con i cineasti italiani al primo o al secondo film in Visioni d’autore che la sala Pegasus di Spoleto organizza da qualche anno, ora in attesa del riconoscimento ministeriale), il primo finesettimana del mese corrente, trascorso a Roma, nella visione di quattro film, dedicati alla causa. A quelli che ho segnalato in un numero precedente della rivista, bisogna aggiungere questi, appena usciti: Anima bella di Dario Albertini (1974), Californie di Alessandro Cassigoli (1976) e Casey Kauffman (1977), La Tana di Beatrice Baldacci (1993), Brotherhood di Francesco Montagner (1989); in attesa di una migliore distribuzione (tutti a dir la verità) anche La santa piccola di Silvia Brunelli (1988), Calcinculo di Chiara Bellosi (1973), Rue Garibaldi di Federico Francioni (1988). Questi film sono la prova evidente di una rinnovata vitalità del recente cinema italiano e mostrano con evidente consapevolezza la forza ereditata da una cinematografia, che, pur avendo avuto sempre un’industria debole, ha segnato per virtù propria il cinema europeo ed influenzato quello extraeuropeo. Allo sguardo inquieto, che il libro dal titolo omonimo (1994) di Fernaldo Di Giammatteo (1922-2005) assegnava al cinema italiano dal 1940 al 1990, occorre aggiungere quello empatico, che designa il modo in cui, alla fine del secolo e all’esordio del nuovo, i cineasti scolpiscono i caratteri dei loro personaggi e dell’ambiente in cui vivono. Agli elementi di struttura dell’immagine-tempo secondo il filosofo Gilles Deleuze [1925-1995] (l’immagine non rinvia più a una situazione globale, ma dispersiva. I personaggi sono molteplici, dalle interferenze deboli e diventano principali o ridiventano secondari; ciò che si è spezzato è la fibra di universo che prolungava gli avvenimenti gli uni negli altri o assicurava il raccordo delle porzioni di spazio: l’ellisse cioè cessa di essere un modo di racconto, un modo in cui si va da un’azione ad una situazione parzialmente svelata: appartiene anzi alla situazione stessa e la realtà è tanto lacunare quanto dispersiva. I concatenamenti, i raccordi sono deliberatamente deboli. Il caso diventa il filo conduttore. A volte l’avvenimento tarda e si perde nei tempi morti, a volte arriva troppo presto ma non appartiene a colui al quale succede; ciò che ha sostituito l’azione o la situazione sensorio-motrice è la passeggiata, l’andare a zonzo, l’andirivieni continuo: un girovagare urbano, prevalentemente, che non si fa più per necessità, interna o esterna, per bisogno di fuga, che ha perso ogni carattere iniziatico come il viaggio, ma risulta un andare in uno spazio qualsiasi, in un non-luogo contrariamente agli spazi qualificati del vecchio realismo, eccetera) succede un sentimento vivido di resistenza allo scollamento, un moto di empatia, che non può restituire l’integrità ai mondi dispersi, ai vissuti disossati e alle relazioni spezzate, ma testimonia dello sforzo che i cineasti compiono per combattere le stereotipie: come può il cinema, che è fabbrica di stereotipi, combatterli? Che cosa può opporre loro contro? Un certo modo di schivarli, adottandoli, oppure elevandone uno contro tutti gli altri, denudandolo della sua necessaria superfluità: viviamo in un mondo di complotti (della stereotipia universale) oppure in uno di conflitti (delle relazioni e dei vissuti sempre rinnovati)? Se la stupenda Giulia (Rosa Palasciano) di Ciro De Caro è il suo andare a zonzo, la sua schivata dell’incontro affettivo, del radicamento, e la forma che le corrisponde è l’elemento informe per eccellenza, la meravigliosa Gioia (Madalina Maria Jekal) di Anima Bella di Dario Albertini accede ad un universo schilleriano (da Friedrich Schiller [1759-1805]), anzi sembra generata dalle pagine di Grazia e Dignità (1793): un’anima bella trova nella sua natura istintiva un accordo con la legge morale, compie con naturalezza i più penosi doveri, affronta i più duri sforzi, talvolta eroici, con candore, nel suo moto perpetuo verso l’umanità. Contrariamente a ciò che pensava Hegel, poco più tardi, l’anima bella riesce invece a realizzare il pensiero nell’essere, poiché il suo pensiero sta nelle azioni che compie con sublime sprezzatura. Dario Albertini, preso da una sua idea di coppia perfetta anerotica ma spirituale, non ci aveva pensato, io sì, invece, gli ho detto, non sono più anziano di te per nulla. Al prossimo pezzo, sarò puntuale ed analitico su questi film italiani, senza svelarne l’intera trama, cui non potete però rifiutare il consenso e la complicità.