Cultura Teatro e Cinema

La meglio gioventù empatica (del cinema italiano)

Le nuove promesse del cinema italiano nell'articolo di Roberto Lazzerini.

#uscendodalcinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: Giulia


Uscendo dal cinema / […] se ogni epoca sogna la seguente, secondo una suggestione dello storico Jules Michelet (1798-1874), è tempo di riconoscere che il nostro sogno, da cui dobbiamo svegliarci, è un incubo. Dopo la caduta del Muro e l’inizio del nuovo millennio, nonostante le fioriere al posto dei vecchi varchi, i parchi e i musei nelle brecce abbattute, le spiagge di Berlino sulle rive del fiume Sprea, niente di questo idillio urbano pacifico è stato esportato. Come altrove, da noi, in Europa, si è invece allungata l’ombra, nera come la pece, di quel manufatto del secolo scorso, che difendeva l’intérieur europeo occidentale con qualche brivido, subito trasposto in film, a scopo catartico. Proprio questo è stato l’inizio di una serie inarrestabile di catastrofi, le cui ripercussioni oggi subiamo senza avere ancora il bandolo della matassa. Intendo quel sisma che ha scosso l’Europa occidentale e quella orientale, con quei nomi tanto problematici che apprendemmo allora ed ogni giorno a chiamare democratizzazione, unità europea, economia di mercato, in breve l’universalizzazione del sistema politico ed economico liberale. Mancò allora come oggi la piena consapevolezza della natura doppia dell’Europa: l’essere, cioè, nella realtà, un’appendice geografica occidentale dell’Asia, e al tempo stesso, nell’apparenza, il divenire di quello che sembra, ossia una parte preziosa dell’universo terrestre, la perla del globo, il cervello di un vasto corpo, per dirla con Paul Valery (1871-1945). Forse, allora, questa fatale incertezza, che non mette a frutto la problematica più viva (a dirla con parole crude, il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa, cioè non che non abbia un’identità ma di non potersi identificare, nel senso che non ha mai una sola origine, cui rapportarsi, perché l’origine unica è una mistificazione o una mitizzazione che occorre decostruire), ha reso possibile anche quegli autentici disastri, spesso criminosi, che sono stati i risorgenti nazionalismi, le piccole o grandi patrie tollerate in questa Europa a diverse velocità, in cui forse agisce ancora, in diversa forma, lo spettro di quell’inveterata inimicizia tra Francia e Germania, di cui parlava Ernesto Buonaiuti (1881-1946) nel suo splendido saggio Pio XII, pubblicato poco prima di morire e di cui si avverte l’operosa fecondità nello straordinario libro di René Girard (1923-2015) Achever Clausewitz (2007). Fa perfino impressione leggere, a distanza di anni, per chi rilegge ancora, la risposta di Angela R., raccolta nel capitolo 7 l’Europa unita del libro collettivo L’erba voglio (1972), a cura di Elvio Fachinelli, psichiatra (1928-1989), Luisa Muraro, filosofa (1940), il cui sottotitolo recava testimonianza di una pratica non autoritaria nella scuola e in cui si raccoglievano istanze critiche per argomenti, come risposta ad un fumoso testo ministeriale che ogni anno l’allora Ministero della Pubblica Istruzione assegnava come compito da svolgere alle scolaresche italiane. Ebbene, dopo aver constatato, suppongo con perspicacia, il fatto che il testo ministeriale contenesse già le dande del discorso, per il quale la sovrappopolazione europea per densità abitativa rispetto agli altri continenti e lo sviluppo intensivo dei centri urbani, le industrie e le comunicazioni, minacciassero con l’inquinamento dell’aria e dell’acqua tutte le forme di vita e turbassero la serenità del nostro rapporto diretto con la natura, Angela R., allora, prendeva la palla al balzo di quel tornito discorso in retorica richiesta di commento per delirare con lucidità, come se fosse la piccola lontana pizia di Elon Musk (1971), auspicando la colonizzazione di altri pianeti per scongiurare l’apocalisse, cioè ucciderci tutti l’un l’altro oppure temperarla, smettendo di fare figli, dopo le colonizzazioni. Non paga di queste imperiose indicazioni di strategia generale, la nostra arguta milanese auspicava in sorprendente anticipo temporale la conversione industriale e la limitazione alla proliferazione edilizia, con un tocco di impertinente anarchia predicava la conservazione e la difesa della natura e la distruzione di statue e monumenti storici, infine con altrettanta fiera preveggenza criticava tutta la classe dirigente politica, capace solo di arricchirsi e di pensare solo per il proprio particulare, compreso il Presidente e il Papa, dichiarando che avrebbe gettato tutto questo mondo nel fiume Seveso e questo gesto politico lo avrebbero dovuto fare, loro, tutte le ragazze come lei, evocando con acume profetico Greta Thunberg (2003). Tutte cose puntualmente avvenute: soltanto il solitario attuale pontefice oggi, con le sue encicliche, sembra corrispondere a distanza di tempo con Angela R. Insomma, per dirla con quell’umorista tragicomico di Sergej Dovlatov (1941-1990), per quanto riguarda il passato, tutto è (sembra) chiaro, tanto più per il presente: viviamo nell’era dei dinosauri; quanto al futuro, invece, ci sono opinioni differenti, molti ritengono perfino che il nostro futuro sia quello dei gamberi, all’indietro.

Perché questa lunga divagazione sull’Europa e soprattutto su Angela R.? Innanzitutto per il continuo insistente strazio che mi (ci) provoca la guerra ucraina, alla quale non riesco a rassegnarmi, cumulando ogni giorno ragioni su ragioni per comprenderne il senso, dal triplo e quadruplo fondo, che mette in discussione però anche nei suoi molteplici aspetti quell’Europa che richiamavo. Angela poi mi sembra la fiera, disinvolta  ragazza politica degli anni settanta del secolo scorso, che ha lanciato nel tempo un messaggio che è caduto su un terreno dissestato, impolverando tutte quelle ragazze che oggi troviamo nei più bei film del cinema italiano recente, sorelle minori di quell’incendiaria, che hanno accettato la propria condizione di vita precaria come un dato della loro natura. In verità si può dire, senza timore di sbagliarsi, che alla mancanza di una vera unità politica europea è apparsa come controfigura un’altra unità, che avremmo invece preferito non ci fosse, quella della consegna della vita e del lavoro della maggior parte della giovane nostra cittadinanza alla precarietà permanente.  I giovani cineasti italiani, allora, quasi con pronta reattività, con subitanea empatia, sono stati capaci in questi ultimi anni di scolpire figure di ragazze indimenticabili, che non potranno mancare nelle memorie a-venire. Giulia (Rosa Palasciano interpreta Giulia) di Ciro De Caro, Anima bella (Madalina Maria Jekal interpreta Gioia) di Dario Albertini, Californie (Kaadija Jaafari interpreta Jamila) di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, La santa piccola (Sophia Guastaferro interpreta Annaluce) di Silvia Brunelli, La tana (Irene Vetere interpreta Lia) di Beatrice Baldacci, Calcinculo (Gaia Di Pietro interpreta Benedetta)di Chiara Bellosi, Rue Garibaldi (Ines e Rafik Hackel interpretano se stessi) di Federico Francioni sono i film che voglio richiamare come esemplari. All’empatia di questo gruppo di cineasti nei riguardi del mondo che rappresentano corrisponde per una sorta di sovrinvestimento psichico l’empatia delle protagoniste nei riguardi del mondo, che non significa slancio vitale gioioso e un poco ingenuo, al contrario questa tonalità affettiva e cognitiva accoglie in sé anche la sofferenza, il dolore che, però, non è uno stato psichico vissuto come una mancanza ma anzi come un sovrappiù creativo di sensibilità. Soltanto nell’apertura e nell’ustione relazionale è possibile riconoscere la propria presenza (in)sensata nel mondo. Ma non tutto, come nel cinema accade, è reperto sociologico, anzi sarebbe limitativo constatare soltanto l’utilità psicologica e sociale di questi film: i cineasti e le cineaste di questo gruppo riluttano a questa riduzione, se lo fanno è soltanto a scopo (buono) promozionale. Il vecchio cineforum, talvolta rinnovato negli incontri con le scuole, o alla presenza degli autori, permette questa scoperta: più si approfondisce, in dialogo autentico, il senso del film più presto svanisce quell’aura riduttiva, appena richiamata. Le vicende nascono dentro questo mondo, che ha accettato la precarietà di vita, sentimentale e lavorativa, come un dato ovvio, ma i racconti di queste trame esistenziali scavano dentro questa ovvietà fino a trovarvi un’eccedenza di senso inaggirabile, un’ulteriorità. Conducono una lotta (im)politica, cioè giocata secondo logiche non direttamente politiche ma vòlte alla scoperta di quel dissesto del mondo, cui occorre porre riparo. La visibilità del fuori dei cardini, in campo aperto, nella luce dei giorni, nelle ombre della sera. Secondo questa scoperta, allora, il personaggio-persona coopera alla costruzione del suo senso, mobilitando una direzione del film. Non a caso, le interpreti di questi film hanno impresso al film lo stigma della loro presenza magnetica, radiante. E il film allora cessa di essere soltanto un fatto di buone convenienze narrative, poiché in quella ganga riluce spesso l’oro della persona. E lo spettatore viene interpellato, convocato ad assumere la responsabilità dell’altro, fosse pure in effigie. Non aggiungo altri elementi di curiosità filmica, poiché tutti questi film citati saranno proiettati nella rassegna del martedì al cinema, di consueto organizzata dalla Casa dei popoli e dall’Amministrazione Clarici, che inaugurerà la nuova stagione, il prossimo ottobre.

p.s.  che posto strano è l’Italia, dice Luca Guadagnino (1971). Ogni tanto si conoscono vite interessanti che lontano da qui trovano un senso alla loro vita, non soltanto per la precarietà generale, però. Per ostacoli di natura misteriosa, non identificati con certezza. Appena ieri ho appreso per via indiretta, da un’intervista ad una scrittrice italiana, che a Parigi vive una folignate, Isabella Checcaglini (1975), che colà si è laureata con una tesi su Stéphane Mallarmé, risiede ed ha aperto una piccola casa editrice Ypsilon di poesia ed altro, che pubblica con eleganza e sobrietà titoli importanti. Alla visita del suo sito, dai titoli esibiti traspare subito la nobiltà della sua impresa. Per via diretta, invece, perché lo conosco (frequentava il cineclub Astr/azioni alle proiezioni all’ex cinema Astra), figlio di una mia conoscente, Marco Valerio Carrara (1990) dal 2015 lavora nel mondo del cinema. Preso da passione sicura, durante l’ultimo anno di università, lo ricordo bene, in una conversazione memorabile, nel 2014 decide di dedicarvisi. Stagista in una casa di produzione (Interlinea Films), segue con tenacia tutti i lavori tecnico-operativi, dai direttori di fotografia agli assistenti ed operatori. Nel 2017 si iscrive alla Screen Academy Scotland di Edimburgo, orientamento in fotografia. Partecipa a moltissimi cortometraggi ricoprendo tutti i ruoli nell’ambito fotografico. In questo periodo matura la decisione professionale per il ruolo di assistente operatore, la figura che affianca l’operatore di ripresa e che ha compiti tecnici nel funzionamento della mdp, coordina il reparto nell’organizzazione dei tempi di ripresa e fornisce istruzioni su come organizzare il materiale tecnico. A Roma nel 2019 come aiuto operatore ha fatto parte della squadra di lavoro del doc di Sabina Guzzanti Spin Time,del film Koza Nostra di Giovanni Dota, Pier niente al mondo di Ciro d’Emilio e Notte fantasma  di Fulvio Risuleo. In ruolo pieno, in veste di aiuto operatore, nel 2021 partecipa al film Ipersonnia di Alberto Mascia. Dal maggio scorso è impegnato nelle riprese del film Inferno dell’artista Mimmo Paladino. Un futuro professionale perseguito con volontà e determinazione.       

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