
#scuola
Di Lorenzo Monarca
In foto: Il chiostro della Scuola Media Piermarini
Da pochi giorni è suonata l’ultima campanella dell’anno scolastico; quest’anno è tornata a suonare anche per me, dopo oltre un decennio. La LIM, le mascherine, i plexiglass, i banchi singoli: tutto sembra cambiato, ma l’atmosfera è la stessa dei miei ricordi, anche se mi trovo dall’altra parte della cattedra.
Mi rimane molto difficile cercare di descrivere questo primo anno da insegnante: tante sono le cose da dire e metterle in ordine è un’impresa ardua. Inizierei dicendo che la cosa più importante da tenere a mente è che è un lavoro fatto di relazioni. Relazioni con i colleghi, con il personale ausiliario, ma soprattutto con i ragazzi, perché sono loro la materia prima che manipoliamo, l’argilla che tentiamo di far diventare una scultura di ceramica. Personalmente non credo sia possibile insegnare loro qualcosa senza instaurare una relazione: prima lo si capisce e prima si possono raggiungere risultati soddisfacenti.
Instaurare il giusto rapporto insegnante/alunno è tutt’altro che semplice: bisogna saper ben equilibrare due aspetti, apparentemente in contrapposizione. Su un piatto della bilancia c’è la tua capacità di essere un insegnante amichevole, disponibile e persino “simpatico”, ovvero essere in grado di utilizzare ironia ed autoironia in maniera appropriata; sull’altro c’è il tuo ruolo di educatore che deve dettare e far rispettare le regole, deve valutare, deve essere attento alle esigenze educative di tutti. Quello che ho potuto osservare è che alla fine dei conti essere un po’ sbilanciati verso il primo piatto può essere una strategia vincente: ognuno di noi è più ben disposto ad apprendere qualcosa quando hai un bel rapporto con il tuo insegnante. Chiaramente un rapporto sereno non può essere mimato: fondamentale per un insegnante è amare i propri alunni, solo così si verrà amati a propria volta.
Farsi amare dagli alunni forse è il più grande risultato che può ottenere un professore: vederli tristi alla fine dell’anno perché la tua supplenza è finita e non ci sarai più il prossimo anno è qualcosa che spacca il cuore, ma è quella garanzia che ti serviva per capire di aver fatto un buon lavoro. Lasciarti trasportare da quello che vogliono insegnarti è l’unico modo per insegnargli qualcosa: è un do ut des.
Un’altra cosa che ho imparato in questo anno di lavoro è che fare l’insegnante è un lavoro usurante, e forse questa è la cosa meno facile da capire per chi non lo ha mai fatto. Certo, non è usurante come 8 ore di turno in fabbrica o su un cantiere, ma ti logora in maniera diversa. Stare per qualche ora in una classe significa dover acutizzare ogni tuo senso al 100% per tutto il tempo. Questo per cogliere qualsiasi segnale, qualsiasi cosa fuori posto, qualsiasi malumore: può infatti capitare che davanti a te hai ragazzi che a casa o magari in classe stanno passando situazioni da inferno (e ce ne sono troppi di più di quanto si possa immaginare) e che quindi abbiano bisogno di esprimersi. L’insegnante deve essere in grado di capire ed intervenire, per quello che può. In secondo luogo la tua attenzione, molto più banalmente, è semplicemente obbligata dalla responsabilità che hai sulla loro incolumità e il loro comportamento può essere a volte imprevedibilmente pericoloso, specialmente se sono molto giovani. Le prime settimane sono state le peggiori: non mi sono mai sentito così stanco come in quei giorni. Poi, come in tutte le cose, ci si fa l’abitudine.
Mi domando quindi se anche a tutto il resto prima o poi farò l’abitudine: all’emozione del sentirmi chiamare “prof”, alle risate, alle dediche, al vederli in visibilio davanti ad un compito andato inaspettatamente bene, a considerarli tutti diversi tra loro e non robot da omologare. A tutto si fa l’abitudine: spero proprio che per questo non sia vero.