
#cinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: Il libro “Diario di Hiroshima e Nagasaki”
[…] raramente la realtà ha avuto così tanto bisogno di essere immaginata di nuovo, dacché è evaporata nelle televisioni, nei social media, che hanno decretato la propria esclusiva detenzione del vero. A nulla giova scrivere, protestare, alzare la voce, presto l’eco virtuale ce ne rimanda, deformata, un’altra. Per questo prendo come occhiello della mia rubrica il titolo di un film, September Tapes, del cineasta statunitense Christian Johnston (USA 2004, 95’) che, alla sua uscita, suscitò un vivace dibattito, in sede critica: il grottesco ed insidioso mockumentary (film di finzione che si inventa documentario) ci fa raggiungere Kabul, per vendicare l’attacco al World Trade Center, con i suoi due protagonisti, il documentarista Don Larson e il suo interprete afgano-americano Wali Zarif, per scoprire l’acqua calda, cioè che i media hanno inventato e mentito sull’11 settembre e la guerra in Afghanistan: all’inizio di ogni guerra c’è un pretesto menzognero, sin dalla fondazione del mondo. In verità, più che la ricerca delle verità oscurate, il film, tra personaggi veri e quelli inventati, sparatorie, esplosioni, Talebani e membri dell’Alleanza, autentici posti di blocco, avventure e pericoli della troupe che filmava in vera esposizione (la CIA e il Ministero della Difesa hanno chiesto il sequestro di molto di quel materiale) è il rilievo dell’estasi sessuale della macchina bellica, che soltanto così può svelare la pasta di cui è fatta: ricerca febbrile e godimento del corpo dell’altro in stato di soggezione e sua distruzione; il correlato di quella è l’industria della memoria, che conserva ed esalta i ricordi propri, occultando e cancellando quelli degli altri, la cui voce flebile, impotente mai giunge alle nostre orecchie. Più tardi richiamerò due film che scolpiscono questa situazione in maniera indelebile.
Allarmato, però, dalle tergiversazioni e dalle schermaglie tattiche, seppur sempre bellicose, gravide di terrori, attorno e fin dentro la centrale nucleare di Zaporizhzhia, ho ascoltato il suono mattutino della Campana della Pace, che suona ogni 6 agosto al cenotafio di Hiroshima, nel silenzio più straziante: in un sol colpo Little Boy a Hiroshima e Fat Man a Nagasaki cancellarono in un lampo accecante 200.000 persone e altrettante ne sconciarono per i decenni a venire in quei due giorni di agosto del 1945: quella campana suona ogni anno per impedire l’impossibile, quel che sembra affermarsi nel capolavoro di Alain Resnais, scritto da Marguerite Duras nel 1959, Hiroshima mon amour (Francia-Giappone, b/n – 90’): il vero dolore consiste nella coscienza che tutto presto sprofonda nell’oblio. Ho riletto perciò, con compunzione rituale e con rinnovata commozione, la parabola straordinaria che Günther Anders racconta al Fourth World Conference against H and H Bombs and for Disarmament (20 agosto 1958), e trascrive nel Diario di Hiroshima e Nagasaki (trad.it. Edizioni Ghibli – Milano 2014 !!!: i miei esclamativi per la distanza temporale dall’edizione tedesca del Tagebuch, segno certo della nostra esotica posizione nazionale: viviamo nell’era postatomica come se vivessimo ancora in quella preatomica). Si tratta dell’adunanza di lamenti e di grida, paragonati ad uno stormo di uccelli, che all’alba di quella bianca apocalisse presero il volo verso est per raggiungere l’orecchio del colpevole. Lo stormo dei sospiri, le grida di dolore e la processione delle urla spaventose attraversarono l’oceano e raggiunsero i monti e le pianure dell’America (del Nord). I primi giunsero a Washington, ignara del lampo orrendo che quell’altra città, da cui provenivano, aveva ricevuto: in ampie spirali si precipitarono verso la finestra aperta della stanza presidenziale (nessun dubbio che là dentro ci fosse il colpevole), stipandola, gli altri attendendo sui cornicioni l’adempimento del loro proposito. Cercavano l’uomo cui avrebbero gridato, trovarono un ragazzo dormiente dalla faccia rosea e sorridente, che, nonostante, ora, gli saltellassero perfino sul petto, seguitava a dormire indisturbato, come se niente lo turbasse. Certo, non si aspettavano questo. Si erano rappresentati la maschera dell’altro, violenta e fosca, che volevano affrontare per insegnargli ciò che aveva fatto, scopo del viaggio, ultima consolazione estrema. Ma questo non era il volto che si aspettavano, questo non aveva nemmeno un volto, che volto poteva avere questo ragazzo fiacco e dormiente, senza ira né resistenza, sorridente senza ragione? Non potevano immaginare come quel distruttore potente e furioso, al cui cenno il cielo aveva brillato di un lampo terribile e reso nulla tutto ciò che era il loro mondo, fosse questo ragazzo insignificante, per il quale avevano spiccato il volo. Nessuno aveva voglia di eseguire il proposito comune, di urlare nelle orecchie del malfattore, anzi si guardavano perplessi, muti e sconsolati, cominciarono a spingersi per guadagnare l’aria aperta, rispondendo ai richiedenti rimasti fuori che protestavano per gli indugi, che provassero loro allora, visto che forse si erano sbagliati città e uomo. Insomma lo slancio iniziale veniva meno, lo stormo si sarebbe presto sciolto se non fosse intervenuto uno di loro, il grido dell’accecato, che, fattosi largo, si spinse fin dentro, lasciato entrare da tutti quelli che pensavano fosse più libero dalla seduzione di quell’innocua ed insignificante bellezza dormiente. Il suo grido lacerante, acuto e stridulo, che incoraggiò tutti gli altri e li indusse a sperare, l’atrocità di quell’urlo invece non risvegliò il dormiente, non accadde nulla. Un urlo più grande, che sarebbe succeduto a questo, il più grande di tutti non avrebbe certo raggiunto quell’orecchio beato, perché non tutto ha accesso a quell’orecchio, né il troppo piccolo né il troppo grande. Perciò tutti, dopo questo, erano pronti a rinunciare sotto il peso della disfatta, se non fosse intervenuto l’ammutolito: nonostante l’assurdità (un ammutolito che si rivolge ad un sordo dormiente) nessuno pensò che fosse un evento unico ed irripetibile, perché per quanto sembri strano, non c’è niente di più vicino alla nostra ovvia quotidianità: viviamo in un mondo in cui gli uni stanno zitti e gli altri sono sordi e tutto ciò che chiamiamo dialogo consiste in questa conversazione tra muti e sordi. Insomma questo ultimo straziante spettacolo delle contorsioni del muto, che si sbatte per farsi sentire in vani moti, come il mutilato agita le mani, immaginarie, che ha perso, spalancando la bocca nell’illusione di avere la voce che non ha più, dimostrava non soltanto che le vittime non contano perché non possono più raccontare, ma spinse tutti a trovare una via d’uscita. Decisero infine che avrebbero abbandonato il dormiente e la città, si dispersero perciò in duecentomila punti in cui ciascuno prese la sua via, la propria missione. Non si sa chi abbia terminato il compito, si sa che alcuni di loro hanno trovato spesso orecchie ospitali ed amiche, preparati ad accoglierli con dignità, vigili. E se qualcuno di noi, che li ha accolti, non conosce gli altri che hanno compiuto lo stesso gesto, sappia che per quel gesto apparteniamo alla schiera del grido immenso di Hiroshima, a quella famiglia che non dimentica il passato e si frappone all’ultima minaccia.
Nel 1991, dodici anni dopo l’uscita di quel dannato, maledetto capolavoro di Francis F. Coppola Apocalypse Now (USA 1979, 153’ – nel 2019, quarant’anni dopo, nuova e definitiva versione del cineasta Apocalypse Now Final Cut – 183’, distribuito, dopo il restauro, in Italia dalla Cineteca di Bologna, che lo presentò su grande schermo in piazza Maggiore per il Cinema Ritrovato: lo vidi alla prima uscita italiana, a L’Aquila, durante una gita di Capodanno con un’allegra brigata amichevole e in solitudine, 40 anni dopo, a Bologna, nella nuova edizione, ribadendo entrambe le volte il giudizio sopraespresso), uscì il doc Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse (USA 1991, 96’). Materiali filmici dietro le quinte della lavorazione di questo monumento dei cineasti, Fax Bahr e George Hickenlooper e della moglie del regista, Eleanor Coppola in piena autonomia ed in empatica collaborazione, al tempo stesso, mostrano il dispositivo cinematografico come una macchina bellica, che niente ha da invidiare ai set bellici del Vietnam: shot è lo sparo fragoroso (l’odore mattutino del napalm, che piace tanto al militare Bill Kilgore (Robert Duvall) e l’inquadratura filmica (la performance di Willard, Martin Sheen, che nell’impeto dell’identificazione si ferisce davvero e si procura un infarto, che ritarderà le riprese finali per settimane). Lo stesso regista paragona il suo Vietnam cinematografico, nelle Filippine, ricostruito con il permesso del dittatore Marcos, con il Vietnam degli USA: denaro in quantità esorbitante, mezzi bellici spropositati, follia psichedelica. Gli elicotteri wagneriani dell’esercito filippino a volte servivano le scene del film, talvolta sparivano per compiere missioni punitive nel nord del paese contro gli insorti di una comunità musulmana. La differenza delle apocalissi: quella cinematografica realizzò negli incassi 5 volte l’impiego del denaro che Coppola impegnò, sfidando se stesso ed impegnando tutti i notevoli guadagni dei suoi due film precedenti (Padrino I – 1972 e Padrino II – 1974) con la sontuosa dimora che si era costruito; quella geopolitica fu una sconfitta sul terreno, con il suo corteo di morti giovani, ma ottenne quel che forse le menti strategiche, che l’avevano concepita, progettarono con il solito cinismo: il contenimento della diffusione del comunismo asiatico, a suon di bombe. La distruzione del set filippino, terminate le riprese, da parte dell’esercito, per cancellare le tracce di quell’operazione remunerativa, avrebbe dovuto concludere il film di Coppola e le fiamme di quell’incendio ardono ancora nei tizzoni neri dei titoli di coda del film, così come in Vietnam, la dipartita delle sconfitte truppe statunitensi lascia sul terreno una guerra civile, in apparenza pacificata, ma che segnerà per sempre la nuova società. Quella sconfitta militare, mai accettata, ha prodotto però un dispositivo industriale onnipervasivo che ha lavorato l’immaginario universale con i suoi film, le sue memorie e i suoi ricordi, che sembrano rovesciare la sconfitta in vittoria: gli altri non sono che i selvaggi dalla voce flebile e dai costumi cruenti cui il colonnello Kurz, trasfigurazione di quello conradiano nel Cuore di tenebra (1898), si è assimilato, meritando perciò di morire. I buoni, se ci sono, non hanno che da attraversare l’Oceano con i loro battelli: troveranno ciò che cercano, una nuova patria accogliente. Su tutto questo ha scritto pagine illuminanti lo scrittore vietnamita, nato negli USA, Viet Than Nguyen (1971) nel libro di saggi Niente muore mai (2016, trad.it. 2018) e con i suoi romanzi Il simpatizzante (2015, trad.it. 2016), I rifugiati (2017, trad.it. 2017), Il militante (2020, trad.it. 2021) ha raccontato in narrazioni straordinarie.
Ma la verifica Paul Virilio (1932-2018), secondo cui il cinema non soltanto serve la causa del belligerante ma presta servizio militare effettivo come unità operativa di eccellenza (dal libro Guerra e cinema. Logistica della percezione 1991, trad.it. 1996) è mostrata ed evidenziata in un doc impressionante, se possiamo ancora impressionarci e non fuggiamo subito al primo ustionante contatto dell’esposizione, della cineasta francese Éléonore Weber Il n’y aura plus de nuit ([Non ci sarà più notte], 2020 – 76’). In questo film si espongono registrazioni di missioni notturne compiute in Iraq, Afghanistan e Pakistan, in compagnia di un testimone, un pilota di elicottero, chiamato Pierre, nome dalle innumerevoli risonanze letterarie, che ha il compito di individuare con telecamere termiche il nemico e annientarlo con il mirino-inquadratura di alta precisione, non con quella precisione automatica del videogame bellico ma con una nuvola di colpi che però non lascia scampo al bersaglio. La vittima è annientata anche dalla sorpresa di quei fulmini celesti, che vengono scoccati da distanza siderale. Sarà un pastore o un guerrigliero? Una donna con bambino o un terrorista travestito? Una banda di ribelli o una marcia nuziale? L’interpretazione, aperta da quella distanza, dovrebbe sconvolgere se l’abitudine alla professione e l’invulnerabilità non l’assolvessero a priori da ogni errore e colpa: la vittima, chiunque sia, sbaglia a trovarsi in quel campo di battaglia, che l’occupante ha circoscritto. Al termine di quei voli mortiferi, il doc sembra perfino riconciliarci con il cinema ordinario: al ritorno dall’ennesimo volo si intravvedono due bambini che salutano il padre che sorvola il giardino, prima dell’atterraggio, come se ci si trovasse in un filmino domestico di prove tecniche Lumière; poco prima però avevamo assistito ad un impressionante rovesciamento dei trucchi cinematografici: la telecamera dell’elicottero illumina la notte come se fosse giorno, al contrario del filtro blu dell’obiettivo della mdp che trasformava il giorno nella nuit americaine (effetto notte), per ricordarci, se ce fosse bisogno, che questo ulteriore trucco ha il compito di rendere inevitabile la fine della vittima designata. Ma là dove non esiste più relazione diretta ma soltanto univoca, anche se in terreno di guerra, allora è evidente, come il vero sole, che l’umanità viene meno e giunge presto alla sua fine.
p.s. la sorpresa che l’ultimo Leone d’Oro di Venezia 79, assegnato alla documentarista Laura Poitras (1964) per il suo All the Beauty and the Bloodshed, ha suscitato, in verità non dovrebbe meravigliare, non soltanto per un suo precedente (Gianfranco Rosi con il suo Sacro GRA nel 2013) ma per le connessioni che permette all’interno dello stesso festival. La giuria ha potuto bellamente evitare, disperdendo il Leone Assegnabile negli altri numerosi premi, la vera gara tra film di finzione assai forti e meritevoli (per me: Saint Omer di Alice Diop, Love Life di Koji Fukada, Bardo di Alejandro Iñarritu, Beyond the Wall di Vahid Jalilvand, No bears di Jafar Panahi, Un couple di Frederik Wiseman), ma ha disposto, con un gesto sovversivo involontario, un percorso di lettura inquietante ma ineludibile. L’apertura della sezione del concorso era stata segnata da White Noise di Noah Baumbach (USA 2022, 136’ distribuzione Netflix: qui bisognerebbe interrogare con meno leggerezza), tratto dal romanzo omonimo di Don De Lillo, pubblicato nel 1984 (trad.it. 1987) in cui campeggiano due eventi che coinvolgono e sconvolgono la famiglia dell’hitlerologo in una piccola università di provincia (bella cattedra Advanced Nazism) Jack Gladney (Adam Driver), della sua quarta moglie Babette (Greta Gerwig), insegnante ginnico-posturale, e dei loro quattro figli (due maschi e due femmine, l’ultimo dei quali è della loro coppia): un’improvvisa nube tossica, la cui sostanza Nyodene D può rivelarsi fatale alla sua esposizione, e la scoperta del Dylar, un farmaco sperimentale che tenta di alleviare la paura della morte. In entrambi i casi si tenta di sfuggire alla morte e di reinterrogare la vita. Il documentario leonino racconta invece la vita inquieta e creativa della fotografa Nan Goldin (1953), poco conosciuta dal pubblico ma ben nota negli ambienti intellettuali americani ed europei. Qui viene in rilievo però l’ultimo, in ordine di tempo, suo impegno come fondatrice ed attivista di una associazione civica contro l’industria farmaceutica degli antidolorifici della famiglia Sackler, mecenate di alcuni musei e a cui sono intestate alcune sale di musei famosi. Si batte perciò contro l’ossicodone, che crea dipendenza e il suo spaccio autorizzato e, al contempo, per la cancellazione del nome di questa famiglia dalle sale dei musei, che l’accolgono. Battaglia dura che si accompagna a vittorie giudiziarie insperate. Accompagnate dai suoi splendidi album fotografici sui terribili anni 80 del secolo scorso, durante il flagello dell’AIDS. Così il cinema dominante non può evitare di affrontare in forma di finzione e di documentazione le piaghe che l’ultima modernità ha prodotto, in cui l’umanità soffre della sua stessa percossa vitalità: rileggerla nella sua attuale nudità e lottare per un’altra è un compito che anche il cinema non può evitare di affrontare. L’ovvietà di questa posizione, che non disprezzo né sottovaluto, mi spinge però a cercare un altro cinema, i cui gioielli sono sparsi qua e là: ne ho trovati alcuni perfino all’avaro Lido.