
#politica
Di Franco Calistri
In foto: Repertorio su schede elettorali
Astensionismo e sconfitta della democrazia Il 25 settembre su di un corpo elettorale di 46milioni di elettori sono andati alle urne in Italia in 29,350mila, pari al 63,79% (Estero su di un corpo elettorale di 4milioni 800mila, hanno votato meno di un milione e mezzo, 30,1%), il che vuol dire che sono rimasti a casa in 16 milioni e 700mila elettori, ovvero il 36,21%.. La cifra sale ulteriormente portandosi a 18 milioni se si considera il milione e 250mila di schede bianche e nulle. Per avere un termine di paragone i voti ottenuti in questa tornata dalle due coalizioni/alleanze, centrodestra e centrosinistra, sono 19 milioni e 600 mila. Certo l’astensionismo c’è sempre stato, è un fenomeno ormai diffuso e che colpisce tutti i sistemi democratici e che con il passare degli anni si è andato accentuando. Tutto vero, tutto giusto, ma quello che sorprende, in questo caso, al di là dell’ampiezza del fenomeno, è la crescita esponenziale verificatasi nell’arco di un quadriennio, ovvero rispetto alle precedenti politiche del 2018. Tra le due tornate elettorali (2018/2022) il livello di astensionismo passa dal 27,06% al 36,21%, quasi 9 puti percentuali; in termini assoluti una crescita di 4milioni e mezzo (sempre per avere un termine di paragone, una forza politica dell’ampiezza attuale del Movimento 5 Stelle). Una crescita di tale portata ed intensità non si era mai verificata. Guardando all’andamento della partecipazione al voto nel nostro paese dal dopoguerra ad oggi, si possono individuare tre grandi periodi. Il primo periodo, della stabilità e della partecipazione convinta (che guarda caso coincide con la stagione dei grandi partiti di massa) che copre l’arco di un trentennio e va dal 1948 al 1979, anni nei quali la partecipazione al voto, con qualche oscillazione si colloca su valori pari o superiori al 90 per cento. Un secondo periodo, che va dal 1979 alla prima metà degli anni Duemila (2006) che vede una costante e progressiva erosione della partecipazione, che, nell’arco di 27 anni, scende a valori attorno all’80 percento. Il terzo periodo, che arriva ai giorni nostri, che vede decrescere in maniera più accentuata i livelli di partecipazione, che, dal 2006 al 2018, passano dall’83,6% al 72,9%, accusando una decrescita di 10 punti nell’arco di 12 anni). Nel 2018 si assiste ad un vero e proprio crollo di poco meno di 10 punti percentuali, ovvero quello che prima si verificava nell’arco di decenni adesso esplode repentinamente nel breve volgere di una stagione politica, tra una consultazione elettorale e all’altra.
Tab. 1 Partecipazione al voto (elezioni politiche, valori percentuali)

L’altro elemento che fa riflettere e porre interrogativi è che questo incremento dell’astensionismo, nella misura dei 9 punti percentuali, interessa tutte le aree del paese, l’aumento del non voto presenta una trasversalità impressionante. Per fare alcuni esempi: l’Emilia-Romagna, la regione con il più alto livello di affluenza, passa dal 78,31% del 2018 all’attuale 71,97%, nel Veneto dal 78,85% si scende al 70,17%, in Lombardia dal 77,02% al 70,09%. Ancora più pesanti sono i dati delle regioni meridionali: in Calabria si va dal 63,57% al 50,80%, in Campania dal 67,85% al 53,23%, nella piccola Basilicata dal 71,11% al 58,77%, in Sardegna dal 65,76% al 53,16%.
Tutto ciò non può non porre pesanti interrogativi, sopratutto se si pensa che questa impennata del non voto si verifica in un momento di particolare difficoltà del paese, da poco uscito dalla fase più acuta della crisi pandemica e che oggi si trova ad affrontare i pericoli di un conflitto, del quale non si vede la fine, e di una pesantissima crisi energetica. Certo, se queste elezioni dovevano essere una cartina tornasole della fiducia del paese nelle istituzioni e nella politica, non c’è da essere molto soddisfatti. Quindi sulla base di questi dati la prima ad uscire sconfitta da questa competizione elettorale è la democrazia. L’affermazione risulta ancor più fondata se si cerca di capire da chi è composto questo 36% di cittadini che disertano le urne. Sicuramente una parte consistente è formata da coloro che hanno perduto ogni fiducia nella politica e nelle istituzioni (il popolo del “tanto sono tutti uguali, pensano solo ai propri interessi e del resto se ne fregano”), ovvero il prodotto di anni ed anni di “antipolitica” di caduta di tensione civile, di desertificazione sociale, alla cui formazione e crescita la “politica”. Ma forse c’è anche di più; c’è anche tutta una parte di società, di fermento sociale, mobilitatosi in questi anni, che ha costruito esperienze e pratiche di intervento attorno alle due grandi emergenze di questo scorcio di secolo, l’emergenza ambientale e, come suo corollario, quella pandemica; esperienze di militanza sociale diffusa che sono arrivate la dove lo Stato non riusciva ad arrivare (coprendo l’ultimo miglio), intrecciando e innovando terreni già ricchi di questi fermenti. Tutto questo mondo, pensiamo ai giovani di Fryday for future che hanno manifestato alla vigilia del voto, al di là di affermazioni retoriche, non hanno trovato risposte e forme di presa in carico delle loro istanze da parte delle elites e della politica. L’astensionismo come prodotto di un crescente iato tra politica e sistemi sottostanti.
Tab. 2 Italia: elezioni politiche 2022 e 2018 (dati Camera), europee 2019

Ha vinto la destra, ma sono sempre gli stessi. Innanzitutto chiamiamo le cose con il loro vero nome: ha vinto la destra, e questo non può che preoccupare e preoccuparci. A guardare i numeri il risultato ottenuto da Giorgia Meloni e da Fratelli d’Italia, sono un chiaro segnale di ulteriore slittamento a destra di parte consistente di un elettorato (e questo è il punto) che all’inizio degli anni duemila aveva aderito al Bengodi berlusconiano, poi aveva cerato, per una breve stagione, riparo e conforto alle proprie paure nelle politiche securitarie di Salvini, ed oggi si affida a Giorgia Meloni. Ma, attenzione, al netto di movimenti interni (in questo caso la cannibalizzazione di Lega e Forza Italia da parte di Fratelli d’Italia) sono sempre gli stessi. Anzi, per la verità, sono leggermente di meno. La coalizione di destra in queste elezioni conquista 12 milioni e 300mila elettorali, nel 2018 (precedenti politiche) i voti erano stati 12milioni e 250 mila, un modesto incremento di 150mila voti, ma alle europee del 2019 aveva raggiunto i 13 milioni e 200mila voti, per cui oggi accusa una perdita di 900mila voti, che non sono poca roba. Se andiamo indietro nel tempo, all’epoca del Berlusconi trionfante, nel 2001 la coalizione di centro-destra vinse con 17 milioni di voti e nel 2008 arrivò ai 18 milioni di voti. Quanti consensi persi per strada dal centro-destra.
Quindi se in termini numerici sono pressappoco gli stessi di quattro anni fa, sono gli stessi anche da un punto di vista territoriale; il tutto si consuma all’interno del lombardo-veneto e del regno sabaudo, con qualche puntata lungo la costa adriatica, fino a minacciare il vacillante granducato di Toscana del Pd, che seppur per pochi decimali di punto percentuale continua ad essere la prima forza politica (Pd 26,39%, Fratelli d’Italia 25,95%). Al Sud, in tempi passati storico bacino della destra (che qui rappresentava gli ultimi) non passa, scontrandosi con il muro 5 Stelle, che in Basilicata, Calabria, Puglia, Sardegna e Sicilia sono prima forza politica ed in Campania, da soli, battono l’intero coalizione di destra.
Dove è la differenza. Ha vinto la destra ma comunque non è maggioranza del paese, visto che ha raccolto il 43,79% dei consensi, il che vuol dire che oltre la metà del paese non è con la destra di Giorgia Meloni. Affermazione vera, consolatoria, ma che non coglie il nocciolo della questione. A differenza di Berlusconi e dello stesso Salvini, Giorgia Meloni ed il ristretto gruppo dirigente di Fratelli d’Italia sono figli, profondamente intrisi, di una cultura di destra, che, in posizione minoritaria, è sempre stata presente nel nostro paese, tenuta ai margini, coltivata nei circoli del Fronte della Gioventù, ma presente. Non è un caso che GiorgiaMeloni nelle sue dichiarazioni, a ridosso dei risultati elettorali, abbia più di una volta usato il termine “riscatto”; finalmente un’idea di società, diversa da quella di sinistra, ma anche da quella che, dopo la caduta del muro, è divenuta egemone nelle democrazie occidentali, esce dalla “minorità” e, addirittura, si fa governo del paese; un’idea di società che riteniamo inaccettabile e contra la quale la Sinistra si è sempre battuta. Qui sta la pericolosità di questa vittoria della destra.
E’ un salto di non poco conto e, oggettivamente, rappresenta un pericolo per i danni e le manomissioni che in nome di questa visione si possono produrre, a partire (ed in Umbria lo vediamo in atto da tempo) dal tentativo di costruire un’altra narrazione del paese. La destra non è maggioranza nel paese ma, per la prima volta, è l governo del paese e ha a disposizione tutta una strumentazione che, se saputa usare, porterebbe ad un cambio della costituzione materiale del paese.
In tutto ciò non va dimenticato che questo successo della destra italiana non è un fatto isolato ma sta dentro un 2vento” che sta un po’ attraversando tutta l’Europa, basti pensare ai risultati svedesi o a Vox in Spagna che i sondaggi accreditano attorno al 15% (nonostante la presenza del Partito popolare spagnolo, forza politica data in forte crescita e da sempre dichiaratamente di destra). Non solo, ma va tenuto presente, a seguito dei risultati elettorali di Svezia ed Italia, il mutamento di rapporti di forza che si verrà a determinare all’interno del Consiglio europeo (27 membri), con il gruppo dei socialisti e democratici che continueranno ad essere la prima forza dentro il Consiglio, tallonati da vicino dal gruppo dei conservatori e riformisti europei, di cui è presidente Giorgia Meloni, che superano il partito popolare europeo.
La prova del governo.Ma come dice un vecchio detto il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi, che in questo caso si chiamano “prova del potere”. Ai 7milioni e 300 mila italiani che hanno votato Fratelli d’Italia, che l’altro ieri votavano Berlusconi, ieri Salvini, dell’anti-antifascismo, del presidenzialismo, della supremazia del diritto nazionale su quello europeo, di leggere obbligatoriamente nelle scuole Evola, di mettere al bando tutte le unioni che non siano eterosessuali, di non dare asilo e case agli immigrati, frega poco o niente, hanno altro a che pensare. E quello cui pensare è pesante come un macigno.
All’indomani del risultato elettorale, il governo dimissionario in carica, ha approvato il Nadef, che sarebbe la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza. Nel documento, con la previsione di una crescita per l’anno in corso del +2,4% si dà per scontato la fine del breve rimbalzo post Covid, mentre si prevede per il 2023 un magrissimo +0,6%, ottimistica previsione che sconta attorno alla metà dell’anno un calo del prezzo dei prodotti energetici. Nel corso della presentazione del Nadef il ministro Franco ha poi, quasi per inciso, fatto presente che nel 2023 per rifinanziare i vari decreti Aiuti (accise sui carburanti, bollette, credito imposta impresa, ecc) + qualche euro per adeguamento pensioni inflazione + qualche euro contratto pubblico impiego + spese inderogabili (es. missioni all’estero) servono 40/45 miliardi di euro. Praticamente per mantenere lo status quo servono 40/45 miliardi. E che fine faranno le diverse promesse elettorali, del tipo flat-tax (costo a regime 60 miliardi), pensioni a 1.000 euro mensili minimo (40 miliardi), revisione Fornero ed introduzione quota 41 (18 miliardi). Questo per rimanere alle “bandierine” più significative (l’intero programma della destra è stato stimato presenta un costo tra i90 ed i 140 miliardi di euro). Dove si vanno a trovare le risorse per mantenere qualcuna di queste promesse elettorali. Facendo dei tagli. Ma anche qui, dove?. Abolendo il reddito di cittadinanza, che costa solo 9 miliardi, con il rischio di innescare una rivolta in tutto il mezzogiorno, o rivedendo il già tanto complicato meccanismo del 110, aprendo un contenzioso senza fine tra imprese, proprietari condomini e quant’altro.
Ma la questione è che i 7milioni e 300mila elettori di FdI, i 12 milioni e 300 mila elettori del Cd, vogliono queste cose, non il presidenzialismo o l’abolizione del 25 aprile o la messa al bando dei gay. E qui si aprono tutta una serie di difficoltà e di contraddizioni per chi si sta apprestando a governare questo paese non di poco conto.
Le difficoltà a trovare un equilibrio nella composizione del governo sono una spia di questo stato di cose, ma anche di altro.
Frammentazione della rappresentanza. Grazie a questo infame sistema elettorale, che porta la firma di Ettore Rosato, deputatp Pd che agiva per conto di Matteo Renzi, il quale reduce dal trionfo delle Europee (Pd al 40,82%) pensava di diventare il monarca d’Italia, la coalizione di destra sulla carta dispone di una solida maggioranza alla camera, 237 su 400 deputati, e di una maggioranza discreta al senato, 115 su 200. A tutt’oggi, fino a quando non si riunirà il Parlamento, non è possibile valutare la consistenza dei singoli gruppi, in quanto manca l’attribuzione ai gruppi dei 147 deputati e i 74 dell’uninominale. Comunque nella coalizione di destra, che ha conquistato 121 collegi uninominali alla Camera e 59 al Senato, la ripartizione per singole forze politiche favorirà le due componenti più deboli, Lega e Forza Italia, che prenderanno proporzionalmente più seggi rispetto al loro effettivo peso elettorale. Per intenderci, facciamo il caso dell’Umbria, dove i tre seggi dell’uninominale sono andati uno per uno a tutte e tre le componenti. Questo aumenterà ulteriormente la frammentazione della rappresentanza, già evidente a guardare i risultati elettorali.
Anche in questo caso, andando indietro nel tempo, all’epoca della vituperata prima repubblica, avevamo tre forze politiche (Dc, Pci e Psi) che da sole concentravano tra il 70 fino ad un massimo delll’80 per cento dei consensi. Adesso abbiamo una situazione che vede Fratelli d’Italia, la prima forza politica nazionale, al 26%, il suo principale competitore, il Pd, attorno al 20% (insieme non fanno il 50%), segue il Movimento 5 Stelle al 15% e tre forze politiche, Lega, Forza Italia ed Azione-Italia Viva, che navigano attorno all’8%. E questa sarà pressapoco anche la geografia parlamentare, al netto dei cambi di casacca in corso d’opera. E’ del tutto evidente che questa frammentazione rende difficile l’esercizio del governo, costretto a continue mediazioni all’interno della sua maggioranza ed esposto ad incursioni corsare da parte di pattuglie dell’opposizione.
Con questo non si vuol dire, come affermato da taluni commentatori ed esponenti politici (Calenda in primis) che la vita di questo governo sarà breve, anzi brevissima. Si vuole semplicemente sottolineare le contraddizioni, le difficoltà, le mine vaganti che questo governo incontrerà nella sua non certo facile navigazione. Quindi la partita non è chiusa, o meglio il 25 settembre si è chiuso il primo tempo di una partita, c’è tutto il secondo tempo da giocare, pur partendo da na posizione di svantaggio, la rimonta è possibile. Molto dipenderà da come l’opposizione sarà capace di ristrutturarsi, di riallacciare quei fili, da tempo troncati, con il paese, promuovendo mobilitazione e, in un momento come questo dove le diseguaglianze hanno raggiunto livelli non più sopportabili, conflitto sociale.
Umbria. E’ presto detto. In un quadro di aumento del non voto ( l’affluenza alle urne passa dal 78,23% del 2018 al 68,83%, la coalizione di destra, cogliendo un 45,82% vince, ma arretra rispetto al trionfale 58,84% delle regionali del 2019 (europee 51,18%, politiche 2018 36,78%), collocandosi sotto la soglia dei 200mila voti ed accusando, sempre rispetto al tetto delle regionali 2019, un arretramento di 13 punti percentuali pari ad una perdita secca di 46mila voti. A determinare questa situazione è il pessimo risultato della Lega che tra le regionali 2019 e le politiche di domenica 25 settembre perde la bellezza di circa 120mila voti crollando dal 36,95% al 7,75%, realizzando in Umbria il peggior risultato di tutto il centro-nord. Questi 120mila voti sono solo parzialmente recuperati da Fratelli d’Italia che, pur crescendo di oltre 20 punti percentuali, incrementa il proprio consenso di 91mila voti. Per certi versi va meglio a Forza Italia che, cannibalizzata dalla Lega alle regionali del 2019, con poco meno di 30mila voti porta a casa un certo non esaltante 6,83%. Non è necessario essere dei raffinati analisti per capire come a determinare il pessimo risultato della Lega sia l’altrettanto pessimo giudizio che gli umbri danno sull’operato della giunta regionale a trazione leghista.
Tab.3 Umbria: elezioni politiche 2022 e 2018 (dati Camera), regionali 2019

Il problema è che di questa crisi del Centro destra e segnatamente della Lega non se ne avvantaggia il Pd, che con 91mila voti ed il 20,89% arretra rispetto alle regionali del 2019 (93mila voti, 22,23%) sia nei confronti delle politiche 2018 (127 mila voti e 24,81%). Questo perché il Pd continua ad apparire agli occhi degli umbri il maggior responsabile dei disastri del primo quindicennio degli anni duemila e, sopratutto, una non credibile alternativa. D’altro canto questa atmosfera era già stata percepita da un sondaggio realizzato l’anno scorso da Umbria24, dal quale emergeva da un lato un giudizio durissimo e pesantemente negativo sull’operato della giunta Tesei, dall’altro una incertezza generalizzata nell’orientamento di voto (tanto è vero che comunque il centrodestra risultava maggioritario), quasi gli umbri non trovassero un’alternativa al conclamato malgoverno di centrodestra.
Dei voti persi da Pd se ne avvantaggia Azione-Italia Viva, che in Umbria, grazie all’accordo stretto con i CiviciX di Fora, porta a casa uno dei migliori risultati a livello nazionale e con i suoi 36mila voti (8,17%) supera Lega e Fratelli d’Italia. Al contrario Movimento 5 Stelle recupera in parte dal Cd (alle regionali 2019 aveva accusato un forte flusso in uscita nei confronti della Lega) in parte dal Pd, portandosi con 55mila voti al 13%. Non sono i 140mila voti delle politiche ma neanche i 31mila delle regionali. Infine va bene l’Alleanza Verdi-Sinistra che mantiene le posizioni (15/16mila voti, che valgono tra il 3 ed il 4 percento).
Il dato elettorale a livello regionale ci consegna una situazione in forte movimento. Il primo elemento è chiaro, quel quasi 60 per cento di umbri che nel 2019 aveva deciso di affidare e di affidarsi al centro-destra, dopo poco più di due anni e mezzo, in parte ci sta ripensando, forse non è stata la scelta giusta. Quindi si stanno, in qualche modo riaprendo i giochi e diverse situazioni tornano ad essere contendibili. Per fare un esempio, al comune di Perugia il centro-destra raggiunge il 40%, le forze di opposizione, ovvero centro-sinistra a trazione Pd, 5 Stelle e Azione/Italia Viva, mettono insieme il 53,6%. A Terni a fronte di un centro-destra al 44,83%, l’insieme delle opposizioni è al 48,22%. Se da un lato, centro-destra, è in campo, pur con tutti i distinguo e le contraddizioni del caso, una coalizione di governo, dall’altro è un semplice esercizio aritmetico. Il problema è se e come questa sparsa opposizione sarà in grado nei prossimi mesi di trasformare una somma aritmetica in progetto politico praticabile. E’ qui che si gioca la partita, sulla capacità di mettere in campo un progetto politico, capace di attrarre e rimotivare quella parte consistente di elettorato che in questi anni si è ritirata nell’astensionismo e che non vede un’alternativa valida per la quale valga la pena di impegnarsi. Deve tornare in campo la politica con una sua progettualità.