Politica

Il baby-boomer riluttante

Le riflessioni sulla bomba e sulla pace di un baby boomer riluttante.

Ovvero: come imparai a rispettare la bomba.

#pace
Di
Fausto Gentili
In foto: La bandiera della pace


La prima, scomoda verità che fummo costretti ad imparare, noi baby boomer nati a ridosso della bomba di Hiroshima, era più o meno questa: quell’evento tragico e criminoso cambiava per sempre la storia dell’umanità e la natura stessa della guerra. La prossima guerra sarebbe stata l’ultima e nessuno, ma proprio nessuno, l’avrebbe vinta, dopo di che l’umanità avrebbe lasciato il campo a specie viventi più sobrie, magari elementari ma meno inclini all’autodistruzione: licheni, molluschi, anfibi, cose così. Se proprio gli uomini non potevano fare a meno di massacrarsi reciprocamente avrebbero dovuto accontentarsi, da allora in poi, di modeste guerre locali e periferiche, che avrebbero coinvolto solo indirettamente, oppure solo una alla volta, le grandi potenze; ma una bella guerra totale, nibelungica e globale come erano state le due della prima metà del Novecento, in cui le potenze mettano in campo tutta la loro capacità distruttiva, fino all’ultimo proiettile e/o all’ultimo uomo, quella dovevamo scordarcela. O, in alternativa, scordarci di avere un futuro e dei progetti: il mutuo da pagare, le vacanze al mare o in montagna, primi e secondi baci, figli e nipoti da mettere al mondo, compleanni, anniversari, libri da leggere, film da vedere, denti da raddrizzare, squadre per cui tifare, ricette di cucina, passeggiate nel verde… 

Che la controversa storia dell’umanità fosse infine approdata a quest’ultima spiaggia, e proprio mentre penicillina, radiografie e vaccinazioni di massa ci liberavano dalle minacce più antiche e devastanti, era senz’altro un paradosso difficile da digerire. Non lo digerimmo, infatti, e – un po’ per realismo, un po’ per necessità – divenimmo pacifisti. Seguimmo Capitini sulla via tra Perugia e Assisi, leggemmo Gandhi e don Milani, ascoltammo Bob Dylan e Fabrizio De Andrè, organizzammo manifestazioni, convegni e sit-in. Il che non ci impediva, con una contraddizione più apparente che reale, di parteggiare per il Che Guevara ed i Vietcong, né di distinguere l’occupante israeliano dagli occupati palestinesi (a cui nessuno, naturalmente, si sogna di inviare armi per ristabilire il diritto internazionale e l’integrità dei confini e/o guadagnare un tavolo di negoziato). Non eravamo nonviolenti, in effetti: eravamo realisti. E spaventati: volevamo la pace perché avevamo paura della Bomba e sapevamo che la pace passava per il disarmo. Controllato, bilanciato, condiviso, persino graduale, se proprio non si poteva fare tutto in una volta. Ma disarmo.

Ci spiegarono che invece la pace (la pace nucleare, intendo, non l’impossibile pacificazione degli innumerevoli focolai di guerra prodotti da nazionalismi, tribalismi, faide ancestrali, nonché dalle inconfessabili, ovvie necessità dell’imperialismo contemporaneo) riposava non sul disarmo ma sulla deterrenza. Se tutti sanno che colpire per primi non basta a mettersi al riparo dalla risposta del nemico, ci dissero, nessuno oserà il primo colpo. Non era il massimo, anzi era e resta una prova inconfutabile del fatto che c’è davvero qualcosa di storto in noi umani, ma finimmo per accontentarci (che altro potevamo fare ?) del fatto che almeno si fosse invertita la tendenza: dopo il Trattato di non proliferazione (1970) le testate in giro per il mondo scesero da circa 70mila ad “appena” 23mila (23mila, avete letto bene) e lì, più o meno, siamo rimasti: oggi sono forse 20mila le testate disseminate per il mondo (un centinaio anche in Italia), il cui controllo è attualmente distribuito tra otto potenze: USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina, Israele, India, Pakistan, più forse qualche artigianale prototipo in Corea del Nord. Ventimila testate. Fossero anche venti, sarebbero venti di troppo, per quanto mi riguarda.

Capita ora, a seguito dell’aggressione russa all’Ucraina e del prolungarsi della guerra che ne è seguita, di veder comparire sempre più spesso, nelle pagine della grande stampa dipendente, il riferimento ad un possibile ricorso “tattico” ad alcune (due o tre ? una decina? un centinaio?) delle suddette testate, e quello che colpisce è il tono neutro, apparentemente realistico di tali considerazioni. Si parla di bombe nucleari come di “casi di scuola”, ipotesi teoriche, mosse eventuali di una sorta di partita a scacchi: il Cattivo di turno, si dice, è più o meno con le spalle al muro, e siccome è davvero cattivo potrebbe anche prendere in considerazione la possibilità di  ricorrere a qualcuna delle 11mila bombe nucleari di cui dispone.

Se il tono pacato e per così dire oggettivo di una simile previsione può lasciare perplessi, si resta addirittura senza fiato di fronte alla conclusione che la suddetta stampa ne ricava. Non già l’invito ad avviare quanto prima un negoziato che ridimensioni le sue pretese e al tempo stesso gli offra una qualche via d’uscita volta a  distoglierlo dall’intenzione catastrofica che gli viene attribuita, ma tutto il contrario: quegli stessi che sette mesi fa ci spiegavano che bisognava inviare armi agli aggrediti per impedirne la capitolazione e creare le condizioni per un negoziato, mostrano ora di aver cambiato idea. Saremmo davvero dei fessi, dicono, se allentassimo la presa adesso che, proprio grazie a quelle armi, le sorti della guerra sembrano volgere al meglio. Quello che si vuole,  insomma, non è più (ammesso che mai lo si sia voluto) creare le condizioni per il negoziato ma, né più né meno, vincere la guerra.

Il che ci riconduce alle prime righe di questo articolo e induce i baby.boomers riluttanti come me, per quello che può valere la loro voce, a partecipare senza esitazioni alle manifestazioni in programma a Perugia il 23 ottobre e a Roma il 5 novembre.

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