
#uscendodalcinema
Di Roberto Lazzerini
In foto: Beyond the wall
[…] di recente un’amica: al cinema, dice, le cose sembrano più chiare e lucide, non per via della luce soltanto, suppongo, aggiungo; quel mostrare, di rosselliniana impronta, quando è assunto nell’orchestrazione del visibile, presenta le cose nella loro effettuale fatticità, nel loro essere esposte al nostro sguardo, quel fare è molto lontano dall’ipocrita autocritica del politico all’indomani di cocenti sconfitte, poiché manca a questa la nuda e necessaria spietatezza: si fa spesso, quasi sempre, come si fanno, per lo più, i film di genere o le tiepide commedie, con il mestiere ma non con la forza creativa della verità. Quest’ultima genera fatti e discorsi (film, nel nostro caso) che hanno difficile circolazione nel pubblico, sempre desideroso di sviamenti piacevoli, di riassunti veloci, di notizie stupefacenti, per cui non c’è vita vera che nella falsa. Pensavo proprio questo, mentre deponevo o facevo deporre, con occhiuta vigilanza, le mie due schede elettorali nell’urna e nel contempo chiedevo alla presidente del seggio di verbalizzare una mia dichiarazione firmata, approntata dall’ottimo avvocato, già senatore, Felice Besostri (1944), di protesta civica contro l’attuale legge elettorale, che presenta vistosi elementi di incostituzionalità, come d’altronde le precedenti (ma il disastro iniziò, come fosse un rito di purificazione nazionale, con l’alluvionale consenso al maggioritario, ottenuto dai referendum del 1991 e del 1993 promossi da Mario Segni (1939) e sostenuti anche da Achille Occhetto (1936), aruspici infelici del male oscuro, che non cessa di affliggere quel partito che si autoproclamò, nel rinnovamento partitico, di sinistra (1991) o di centro-sinistra (2007), non soltanto però per i diversi stratagemmi elettorali partoriti in una ventina di anni). Pochi, pochissimi, ci opponemmo, rivendicando il proporzionale, di cui rimango sostenitore con ferma ostinazione razionale. A Venezia, nel florilegio dei possibili vincitori del Leone, gareggiava il terzo film del cineasta iraniano Vahid Jalilvand (1976): se, alla fine della proiezione, ha fatto storcere la bocca a molti, se lo sgomento suscitato da questo possente film ha reso finalmente muti, i più loquaci degli accreditati e del pubblico occasionale, questo è dovuto a quel principio implicito della socialità attuale, secondo cui bisogna alleggerire il peso dalla zavorra del mondo per riuscire a comunicare meglio e bene. Cioè proprio l’impossibilità attuale, per il semplice fatto che nel peso del mondo non c’è zavorra. E il film, che non ha ancora una distribuzione italiana, lo mostra con una potente sinfonia visiva e sonora. Sin dalla chiarezza esemplare del titolo Shab (Sera e Notte) Dakheli (Interno) Divar (Muro), perfino didascalica, con scansione poetica. Il titolo inglese (internazionale) Beyond the Wall rende parziale giustizia a quel mirabile senso, poiché l’interno è l’esterno, l’al di là del muro è già tutto contenuto nell’al di qua del muro. Ali, ipovedente (il protagonista del racconto), relegato nel suo appartamento, in cui è assistito da un medico e tormentato da poliziotti, nonostante il suo desiderio di morire (l’inizio del film è straordinario: il tentativo di morire con l’acqua della fontana domestica), trova una ragione di sopravvivenza nella doppia appartenenza del suo interno all’esterno. Infatti Ali è appartenuto a quell’esterno che lo tormenta, come agente attivo che ha subito un trauma (lo sappiamo dai lampi visivi della sua memoria) e nel suo interno domestico fa irruzione una donna, Leila, ricercata dalla polizia, accusata di aver provocato la morte di un poliziotto durante una manifestazione, in cui, secondo la versione della stessa, lei invece cercava il figlioletto confusosi nella folla. Siamo in una trappola insostenibile, in cui si distendono doppie e triple versioni della realtà, che si sdoppia e triplica infatti, gettandoci nello sconforto. Quella trappola da cui vogliono districarsi oggi le donne iraniane, che non cessano di protestare. Nella notte, il muro si abbatte o si elude, dall’interno all’esterno, prendendo l’unica via possibile: mentre i persecutori e i carnefici entrano, la vittima trova il pertugio per sfuggire alla cattura o, se può, quando può, si fa forza dirompente. Il film ha suscitato ammirazione per la sua compatta bellezza, tiepidezza nella sua accoglienza e altresì riserva, almeno tra i più attivi nel mostrarle, per un motivo semplice: noi spettatori siamo collocati dalla parte dell’ipovedente e della vittima ricercata, siamo privati della consueta onnipotenza e questo ci fa soffrire. Non siamo in grado di comprendere e prevedere, siamo gettati nell’orditura senza poter risalire allo svolgersi dei fili e del subbio su cui si sono avvolti ormai, inestricabili. La stessa angoscia che dobbiamo provare oggi in Europa, se siamo ancora uomini vivi, al nostro risveglio. Non più illusi della stabilità del mondo, sprofondiamo nella caducità: quello che ci circonda, domani, potrebbe essere già stato, ogni giorno sempre più caduchi, più di tutti quelli che ci hanno preceduto, non perché siamo più mortali, lo siamo come loro, né perché possiamo essere uccisi da un momento all’altro, anche gli altri lo potevano, perché possiamo scomparire come umanità, en masse, e se scompariamo come umanità, scompare con noi quella del passato e quella del futuro. Perciò dobbiamo, al solo pensiero oggi possibile (l’atomo!, come direbbe il mio maestro Günther Anders), fare come le donne iraniane, se non vogliamo che il tempo sia stato un interludio tra un nulla e l’altro. Altro che intrattenerci con gli esperti di geopolitica, come fossimo al bar o in qualche buvette!
Jean-Luc Godard (1930-2022). Non era l’idolo che Jan Nemec voleva abbattere nel maggio ’68 a Cannes, come racconta il cineasta praghese nella sua divertente e mossa autobiografia Volevo uccidere J-L Godard (2011, trad.it. 2016), né il misantropo che non risponde all’amica Agnès Varda, due anni prima che lei morisse. Entrambi gli episodi riguardano la persona Jean-Luc, illustrano il suo carattere difficile. Nel primo racconto, il capitolo 5 del libro rimanda al maggio ’68 di Cannes. Qualche mese più tardi, i fuochi di artificio francesi si tramuteranno, nel destino cèco, nello strascico pesante dei cingolati sovietici a Praga. Lo stesso Nemec riprenderà la catastrofe cecoslovacca nel film di montaggio Oratorio per Praga (1968) e Philip Kaufman (1936) lo utilizzerà come inserto nel film L’insostenibile leggerezza dell’essere, venti anni dopo (1988), tratto dall’omonimo e fortunato romanzo dello scrittore Milan Kundera (1929). E quattro anni prima, Nemec aveva girato uno splendido capolavoro Diamanti nella notte (1964), che ebbi la fortuna di vedere a Pesaro, nell’edizione (in-di-men-ti-ca-bi-le) del cinquantesimo del festival (1964-2014), incastonato, nel suo marmoreo bianco e nero, quasi muto, nell’Evento Speciale, tra alcuni capolavori delle prime edizioni della Mostra (le peripezie di due ragazzi ebrei che riescono a saltar via da un treno che li conduce a un campo di concentramento e che trovano nella fuga non minore ostilità e cadono in pericolo di vita). Ma qui siamo a Cannes, è maggio, e la Nova Vilna (Nuova Onda) festeggia con il suo terzetto (aspira alla Palma d’Oro e trama pure per ottenerla): Milos Forman [1932-2018], il più prudente e già in contatto con produttori influenti (Al fuoco pompieri!); Jiri Menzel [1938-2020] (Un’estate capricciosa), il più flemmatico; Jan Nemec [1936-2016] (La festa e gli invitati), il più disordinato ed eccitato. Hanno l’ordine di mangiare, bere, spendere e far casino a volontà pur di portare a casa la Palma per la gloria socialista. Cose queste che si verificano con puntualità slava, con tanto di bandiera nazionale sventolante dalla camera di Forman, con la riprovazione di Orson Welles, che al piano di sotto invita lo staff dell’albergo a risparmiargli il nazionalismo in qualsiasi circostanza. Insomma è indigeribile per Nemec, anche a distanza di anni, la rivolta politica di successo (temporaneo), capeggiata da Jean-Luc Godard, contro i premi (iniziative simili anche in altri festival lo stesso anno, però), quindi il risentimento politico e personale è il filo rosso della sua versione dei fatti: da un lato la sua avversione per ogni contestazione di quella natura e dall’altro il fastidio per quell’aura dogmatica che, in taluni casi, era avvertibile nei leader dei gruppi insorgenti. D’altronde il marxismo-leninismo era materia d’esame nei curricola scolastici dei paesi dell’est europeo! Sentirsi ripeterne le formule a Cannes, non era certo la migliore accoglienza attesa. Ma tutto il racconto è all’insegna di Jaroslav Hašek (1883-1923) piuttosto che di Franz Kafka (1883-1924) o con un misto di entrambi, come spesso avviene in Boemia, dall’asta del microfono di Godard data in testa ai cinefili accorsi, all’esagitato che taglia lo schermo con un coltello. Per il resto, il terzetto, dopo la Grande Delusione, si sciolse poco dopo: Forman emigrò negli USA, con carriera onorata di premi e denari; Menzel si adattò a vivere anche nel regime successivo al ’68; e Nemec per un po’ vagò qua e là, anche negli USA, senza trovare soddisfazioni professionali e rientrò in Cechia dopo l’89 per realizzare qualche film e per insegnare alla Scuola di Cinema di Praga.

Agnes Varda (1928-2019), instancabile cineasta, realizza nel 2017 il doc Visages, villages (89’), con il giovane street photographer J R (1983), artivista urbano. Il progetto nasce con l’idea di lasciare il teatro urbano consueto ed attraversare la Francia rurale, creando qui, con la collaborazione degli abitanti, in questi luoghi, giganteschi collage fotografici da installare sulle case e sugli edifici dei paesi attraversati. Per l’uno, un’esperienza extraurbana per trovare un nuovo ambiente creativo, anche un rapporto diretto con la natura; per l’altra un ritorno alle radici contadine dell’infanzia. Con la promessa, alla fine del film, di raggiungere Godard, amico di antica data della cineasta, in Svizzera dove vive ritirato ormai da tempo. Il film è un diorama di motti di spirito, schegge visive, paesaggi inconsueti, confronti dialettici, omaggi ai vivi e ai morti, installazioni sorprendenti: quello che l’uno fa, avanzando con il suo cinétrain e sviluppando foto gigantesche, l’altra lo traduce in lirismi audiovisivi, montaggi virtuosi, acrobazie iconiche. Con il finale in Svizzera, che sorprenderà entrambi e farà piangere un poco Agnès. Jean-Luc Godard si negherà all’appuntamento già stabilito: lei busserà più volte invano alla porta della sua casa, senza ottenere alcuna risposta.
La filmografia godardiana però è altra sostanza, è un’opera-mondo. Se non ci fosse stato Godard, il cinema moderno (dopo il 1950, diciamo) non sarebbe stato quello che è stato, perché Godard non è stato soltanto un cineasta creativo ma un moto cinematografico perpetuo, fino all’ultimo respiro e quelli che fanno cinema devono a lui molto di quello che credono di inventare, anche se l’hanno già(mai) visto. Infatti molti seguitano, da allievi un poco attardati, a cercare un’immagine giusta quando basterebbe giusto un’immagine a sciogliere nodi godardiani. E il restauro del film dell’esordio Á bout de souffle (1959), visto questo mese nelle sale cinematografiche, dopo le altre numerose visioni degli anni precedenti, mi ha riconfortato e commosso. Ho sempre amato Le mépris (1963), malgrado la sconciatura dell’edizione italiana del suo produttore Carlo Ponti, per motivi che ho già raccontato da qualche parte e che non ripeto perciò. Ma Á bout de souffle è meraviglioso: Michel Poiccard/László Kovács (Jean Paul Belmondo) sembra il risultato del felice ricongiungimento alla fine del film di Jean Vigo (1905-1934) L’Atalante (1934, 89’) dei due amanti. Jean (Jean Dasté) e Juliette (Dita Parlo), i protagonisti di questo film, sono i genitori cinematografici del personaggio Michel, che incarna con perfezione, l’immagine-tempo del cinema moderno, secondo la definizione del filosofo Gilles Deleuze (1925-1995): nel regno del caso, i legami deboli, l’andirivieni continuo, l’andare a zonzo, le deviazioni narrative, i concatenamenti deboli, la realtà lacunare e dispersiva. Patricia Franchini (Jean Seberg) non è da meno del suo amante, in una gara fatale. I loro corpi sono incisi di storia (metropolitana e cinematografica), all’insegna dei richiami (colti) e delle citazioni (ironiche): nel cinema, da un lato Alba tragica (1939) di Marcel Carné (1906-1996) e Jacques Prevert (1900-1977) con Jean Gabin (1904-1976) e la sua montagna di sigarette e il suo delitto insensato; dall’altro con Humphrey Bogart (1899-1957) e il suo ticchio nervoso per tutti i suoi gangster movie interpretati negli anni quaranta del secolo scorso. Con due divertenti camei: lo stesso Godard, come passante, riconosce il giovane ricercato Michel, la cui foto campeggia sul giornale, e lo denuncia alla polizia; il regista Jean-Pierre Melville (1917-1973), come lo scrittore Parvulesco, intervistato da Jean Seberg, che rilascia sublimi e fatue dichiarazioni mondane. Questo è sorprendente: ogni volta che si rivede questo film, si scorge qualcosa che ci era sfuggito nelle visioni precedenti o che avevamo dimenticato o finto di non vedere, per riserve future. Alla fine dell’ultima visione, a Spoleto, lo scorso 19 settembre, alcuni ragazzi si sono avvicinati e mi hanno fatto alcune domande riguardanti il film. Ricordavano una mia precedente presentazione del film e, in virtù di quella, chiedevano chiarimenti. Forse, al cinema qualcosa ancora resiste, il legame, seppur tenue, tra le generazioni non si è spezzato definitivamente. Forse.