Storia e Memoria

Ottobre nero

In questo suo ventiduesimo contributo il nostro corrispondente, precipitosamente rientrato da Firenze a Foligno, dà conto delle tumultuose giornate della sedicente rivoluzione fascista, realizzata a pezzi e bocconi, lungo le vie che da Perugia conducono a Roma passando per Foligno, tra il 28 e il 31 di ottobre 1922, sotto lo sguardo benevolo delle autorità.

#storiaememoria
Di Fabio Bettoni
In foto: Benito Mussolini e Cesare Maria De Vecchi, tra la folla


Foligno, 14 novembre 1922. Ai redattori di “La Lotta Socialista” (Roma). Il 20 ottobre, trovandomi in  Firenze per le mie ricerche alla Biblioteca Nazionale Centrale, in virtù di una singolare coincidenza venni a sapere di un incontro avutosi in quel giorno tra Balbo, Bianchi, De Bono, De Vecchi (gli ormai notissimi quadrumviri del comando supremo della milizia fascista per la sicurezza nazionale il Regolamento della quale com’è noto è venuto a luce il 4 ottobre su “Il Popolo d’Italia”), e i comandanti delle dodici zone operative nelle quali è stato fascisticamente suddiviso il Paese in vista della presa del potere, incerta nei tempi e nelle modalità (comunque militari), ma decisa in una riunione con B.M. a Milano il 16 ottobre. C’era anche Ulisse Igliori ispettore generale della sesta zona includente Roma e la provincia di Perugia (così “Il Popolo d’Italia” del 12 ottobre).

Considerata la situazione, e presagendo tristi evenienze, pensai bene di tornare a Foligno, ritenendo in questo modo di rendere meno incerta la mia sorte di vecchio comunista dalle gambe malferme. Il 22 ottobre, forse questo lo ignorate, Balbo individuava la sede del comando supremo quadrumvirale in Perugia, una scelta come si è visto infelice data la marginale collocazione topografica della città, anche se gli unanimi coristi che osannano il fascio-gabinetto nato il 30 ottobre continuano a negarlo.

     Foligno invece è centralissima, come è noto all’universo mondo: sull’asse da Roma per Ancona e da lì per il nord e sopra tutto per il nord-est: talché s’è reso necessario già nella giornata del 23 ottobre il passaggio per ferrovia di una parte delle camicie nere dirette a Napoli (il grosso praticò la Firenze-Roma) ove era programmata per martedì 24 e mercoledì 25 quell’adunata di camerati che abbiamo veduto preludere alla cosiddetta marcia su Roma, organizzata secondo il piano stabilito proprio nella capitale partenopea ma realizzata soltanto parzialmente rispetto alle modalità previste. Il flusso di rientro verso nord s’è poi intrecciato con la nuova ondata in direzione di Roma una volta conosciuto il proclama di venerdì 27 con il quale i quadrumviri annunciavano: «L’ora della battaglia decisiva è suonata».

Foligno non è stata soltanto nodo viario e ferroviario per questi flussi e contro-flussi, ma, come dovrebbe essere a vostra conoscenza, qui hanno trovato stanza le cosiddette «forze di riserva» al comando del generale (della riserva) Umberto Zamboni. A quel che pare, entro sabato 28, il contingente zamboniano aveva raggiunto le tremila unità, ma, sempre stando ai “si dice”, l’armamento non superava i trecento fucili. Intanto nessun camerata si muoveva dalla città. Del resto, ancora nella serata del 29, l’Agenzia di stampa Stefani diramava un comunicato mediante il quale Balbo a nome del quadrumvirato ordinava alle camicie nere di «tutta Italia» di non abbandonare le loro sedi in attesa di ulteriori disposizioni, e ai comandanti di concentramento stanti in Monte Rotondo, Santa Marinella, Foligno e Tivoli di mantenere «in piena efficienza» i loro reparti. Da noi, infatti, intorno alla mezzanotte del 29 avvenne un evento straordinario sul quale più avanti tornerò: esso dimostra quanto fallace sia prendere il 28 come il giorno della famigerata marcia. D’altra parte, s’è dovuto attendere le ore 13 di martedì 31 per vedere che l’effettivo attraversamento di Roma era cominciato. Ma questo non devo rammentarlo a voi. Come non devo richiamarvi le ragioni di questa marcia diluita nel tempo. Esse risiedevano nei contrasti tra i quadrumviri, nei tatticismi e nelle tergiversazioni della corona, del governo borghese di Facta, di B.M. (basti pensare alla sceneggiata della proclamazione e revoca dello “stato d’assedio” nella mattinata del 28). Per non dire dell’orribile congiuntura climatica. Una marcia tanto diluita che, immagino ne conveniate, prima del 7 novembre non poté dirsi conclusa. Al punto che il flusso di rientro verso Settentrione toccò Foligno fino a quella data ed oltre. Ma andiamo con ordine.

     Come ho già scritto, entro la giornata del 28 un nugolo di fascisti era stato alloggiato in tutti i luoghi possibili di Foligno: scuole, caserme (compresa la “Vittorio Emanuele II” del regio esercito), vani terreni. Lo stato maggiore di Zamboni era stato ospitato nei locali del Circolo del Teatro ubicati nella via principale della città, il corso Cavour. Vero è che le stanze del fascio e dell’Unione democratica sociale che si trovano nel palazzo Candiotti in largo Frezzi formavano l’altro polo nevralgico. Per di più non va dimenticato che insieme alla Caserma “Vittorio Emanuele II” del Primo Reggimento di Artiglieria da campagna era mobilitata la Municipalità capeggiata dal commissario prefettizio Emilio La Medica, e il relativo palazzo pubblico. Non saprei dire della sottoprefettura in piazza Mazzini, del sottoprefetto Francesco Montuori, e dei regi Carabinieri: dalle notizie che via via mi sono pervenute pare che sia l’una che gli altri stessero piuttosto defilati. D’altra parte, la connivenza dell’esercito regio con l’insurrezione deve aver fatto abbandonare in chiunque l’idea di azioni squadristiche peraltro malviste dai capi perché in una fase di transizione tanto delicata sarebbero risultate controproducenti. Ho anche l’impressione che Francesco Fazi, già deputato radicale ora fascio-fiancheggiatore, l’onorevole socialista Ferdinando Innamorati (l’arcinoto Sor Fiore), il generale Corrado Novelli presidente onorario del fascio folignate, gli stessi Agostino Iraci segretario e Giovanni Fiordiponti seniore miliziano, abbiano cercato di stendere una rete preventivo-protettiva sulla città. Su ciò, però, nessun chiarimento mi è dato di fornirvi, nonostante i miei ottimi rapporti col Sor Fiore da me insistentemente “placcato” sull’argomento.

Dal canto loro, i comunisti e i socialisti, ivi gli ardito-popolari (per nulla cancellati dalle passate operazioni di polizia), nonché i sindacalisti e i militanti della Camera del Lavoro avevano come fine principale quello di tutelare le proprie sedi, ove se ne stavano a presidio. Nulla so degli anarchici. L’impressione dei compagni con i quali mi sono mantenuto in contatto (sto dicendo di compagni sconosciuti ai più e perciò in grado di mimetizzarsi tra la gente) era che i marciatori non avessero la minima cognizione sul da farsi; più d’uno, tuttavia, si dichiarava convinto del fatto che si stesse «alla vigilia di un grande avvenimento».

     Il 29, finalmente, in su la sera qualcuno ha pensato di effettuare un comizio nella piazza Vittorio Emanuele II. Presi i contatti con l’Hotel Brufani di Perugia, sede del comando quadrumvirale, l’adunata fu fissata per la mezzanotte. All’ora stabilita, con l’illuminazione pubblica diffusa nell’intensità massima, il rintocco ripetuto del campanone municipale (dovete sapere che vi sono effigiati i volti del secondo Vittorio Emanuele, di Cavour, Garibaldi e Mazzini), il picchetto del Primo Artiglieria, la Banda musicale diffondente inni patriottici (quella cosiddetta “autonoma” per distinguerla dall’altra quella ufficiale messa in mora), una notevole quantità di cittadini plaudenti, e, ovviamente, i «baldanzosi fascisti» (così i miei informatori sulla base delle ripetute apostrofi pubbliche), approdavano in piazza provenienti da Perugia il quadrumviro Michele Bianchi, segretario nazionale del fascio, e l’ispettore generale di zona Igliori. Si capisce il perché dell’ora piuttosto inconsueta per un pubblico comizio: solo in quel momento erano stati messi in grado di  muovere alla volta di Roma, risoltesi le questioni inerenti il destino politico di M. e della sua famelica voglia di potere.

     Preceduti da un triplice “segnale di attenti”, che fece calare un silenzio spettrale sulla piazza, Bianchi e Igliori passarono in rassegna i mobilitati; quindi entravano nella Municipalità, si affacciavano al balcone centrale del palazzo, e, presentati al popolo dal commissario La Medica (sto a quello che mi hanno riferito i pochissimi compagni sparpagliati tra la folla) i due partecipavano ai presenti il programma governativo del fascismo (da notare che il capoccia stava ancora in viaggio da Milano a Roma ove sarebbe arrivato l’indomani), raccontando con minuzia di particolari «le vicende della mobilitazione fascista degli ultimi tre giorni». Immancabili, gli applausi ripetuti. Sul finire dell’adunata ecco arrivare in automobile, sempre da Perugia, il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, salito anch’egli in palazzo e “balconatosi” si profuse (al dire dei compagni) in quello che i più facinorosi tra gli astanti acclamarono come un «vibratissimo discorso». Ancora applausi e poi via: Bianchi, De Vecchi e Igliori prendevano la via di Roma.

     Nella giornata del 30, sarebbe stata la volta delle truppe della riserva zamboniana (appresi qualche giorno fa che ad esse i quadrumviri assegnavano un ruolo determinante soprattutto nel caso in cui la conquista di Roma avesse presentato impreviste e imprevedibili difficoltà: «possono rappresentare la carta decisiva della rivoluzione», avrebbe detto Balbo) a quel che sembra partirono in cinquemila “a vagonate”: dieci treni in successione. Che ne sia stato di poi non so dire. Sta di fatto che sicuramente parteciparono alla grande parata romana che si tenne nel pomeriggio del 31, alla testa della quale sfilarono i generali Sante Ceccherini, Gustavo Fara e Zamboni ovvero i capi militari delle Colonne “Perrone”, “Igliori” e di Riserva. Non sono in grado di dire quanti folignati marciarono e chi marciò. Ho solo quattro nomi certi: il generale Novelli, l’impiegato Arnaldo Alimenti, il giovane Agostino Campi (figlio del tipografo), il geometra Giovanni Placidi tecnico ferroviario di origine romana: mi pare ben poca cosa. Sono certo che prima o poi altri nomi verranno fuori.

     Le giornate in discorso, furono funestate da due eventi dolorosissimi per noi antifascisti. Il 30 fu accoltellato il compagno Guerrino Bonci, diciannovenne, comunista, ardito del popolo, cittadino di Spello, poi morto. Il 31, a Roma nella sua abitazione in via Sicilia 34, fu preso a bastonate sulla testa Argo Secondari, già comandante ardito-popolare, figura fulgida dell’antifascismo militante, nostro conterraneo essendo la sua una stirpe di Bevagna. Mi hanno detto che stia versando in uno stato di salute fortemente compromesso. Infine, sempre nel giorno 31: il fascista folignate Mario Zaccheroni, ferroviere, membro della Squadra Giuseppe Platania operante in Rimini, nel mentre dava l’assalto al carcere di quella città per tirarne fuori due “neri”, veniva accidentalmente ucciso da fuoco amico. Vi lascio immaginare le ripercussioni funerario-propagandistiche qui da noi: giovane patriota, religiosissimo, associato ai Giovani Esploratori Cattolici e alla Società “San Carlo”, nipote di Giovanni Battista Cantarelli clerico-pipino a tutta possa. Il compianto clericale s’è unito a quello dei “pipini”, dei camerati del fascio folignate e viciniori, nonché della camera italiana del lavoro e del fascio ferroviario. Hanno dimenticato un piccolo particolare: il giovanotto era ricercato per alcuni omicidi compiuti nel Veronese.  

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