Conversazione con Matteo Santarelli, a cura di Fausto Gentili
Il nostro storico collaboratore Matteo Santarelli è anche quest’anno ospite della Festa di scienza e filosofia (Auditorium Santa Caterina 23 aprile h.15.30) con una lezione su Scrivere il fine vita. Alcune considerazioni sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento. Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi.
E’ la seconda volta che partecipi alla Festa. Lo scorso anno parlasti del rapporto tra politicizzazione e scienza: quello che succede quando intorno alla scienza si viene accendendo un conflitto anche politico. Stavamo appena uscendo dall’emergenza Covid ed era, diciamo così, un tema caldo, Quest’anno parli di Disposizioni anticipate di trattamento (DAT): un tema meno dibattuto ma forse ancora più incandescente e denso di risvolti filosofici.
Partecipare alla festa è un’opportunità che mi fa molto piacere perché, anche se la mia vita professionale si è svolta interamente altrove, sono sempre contento di poter fare qualcosa in questa che è la mia città. Tanto più in un contesto di valore come senz’altro è questa Festa: non si arriva alla dodicesima edizione se al fondo non c’è una qualità.
E poi è un’esperienza in controtendenza rispetto ad un certo decadimento della vita cittadina, che registriamo con crescente preoccupazione.
Infatti. Quanto al tema della mia lezione, tieni conto che il mio campo disciplinare è formalmente la filosofia morale, ma come forse sai io preferisco muovermi nelle zone di confine tra filosofia politica, filosofia morale e sociologia: un ambito che comunemente viene chiamato filosofia sociale, e che si interessa alle pratiche sociali collegate ad un determinato fenomeno. Ultimamente sono interessato ai temi della burocrazia, e in particolare (se posso dirlo in inglese senza rischiare multe) di street level burocracy, la burocrazia che ha interazioni faccia a faccia con i cittadini, cosa piuttosto frequente in una società sempre più burocratizzata. Così mi sono imbattuto nel tema delle DAT quasi per caso: stavo partecipando ad una scuola invernale di studi e una collega mi ha suggerito che poteva essere un argomento affine ai miei interessi. Io mi sono sentito in colpa perché in realtà non sapevo neanche che cosa fossero le DAT e, come succede quando scopri una tua ignoranza, mi sono messo a studiare la questione.

Oppure vai in televisione e dici la prima cosa che ti passa per la testa.
Nel mio caso è andata diversamente: ho studiato la questione (DAT, dette anche testamento biologico o biotestamento) dal punto di vista sociologico, giuridico, filosofico, politico, e la prima cosa che ho capito è che si tratta di un’opportunità di cui i cittadini si servono raramente, anche perché spesso non ne sanno niente. Proprio come me fino a qualche tempo fa. E questo perché il tema non è entrato pienamente nel dibattito pubblico.
E’ un tema che ha a che fare con la grande questione della libertà. Alla domanda su chi sia il padrone della mia vita si possono dare risposte diverse: se la tradizione laica tende a dirmi che sì, sono proprio io, altre scuole di pensiero – in particolare cattoliche – mi dicono che non è propriamente così, e che della mia vita io posso disporre solo fino a un certo punto. Allora ti chiedo: rispetto a questa discussione, dove si colloca la soluzione trovata in Italia attraverso le DAT ?
La legge 219 /2017 è l’esito – tutto sommato positivo, a mio avviso – di una lunga negoziazione, che ha riguardato persino la nozione di “disposizioni”: perché c’era chi avrebbe preferito scrivere “direttive” (il che avrebbe conferito al paziente un potere pressoché imperativo) e chi voleva limitarsi a “dichiarazioni” (e questo avrebbe lasciato una grandissima discrezionalità al medico, che avrebbe avuto sempre l’ultima parola).
“Disposizioni” mi sembra una soluzione piuttosto impegnativa.
Senz’altro è così: “disposizioni” è più prossimo a “direttive” che a “dichiarazioni”. Ma la legge è nel complesso molto equilibrata, direi moderata (uso questo termine in un’accezione positiva). Non prefigura un esito del successivo dibattito, che inevitabilmente si aprirà, sul suicidio medicalmente assistito, ma introduce una grande innovazione: il paziente può disporre anticipatamente di rinunciare non solo ai trattamenti medici propriamente detti, ma anche a pratiche come l’alimentazione forzata e la respirazione artificiale.

Il tema del suicidio assistito, e tanto più quello dell’eutanasia, restano impregiudicati.
A livello teorico sì, ma nella prassi è diverso. Tu capisci che si può realizzare una combinazione tra Disposizioni anticipate e cure palliative: se il paziente ha rinunciato all’alimentazione forzata o alla respirazione artificiale non è che puoi esporlo allo strazio della morte per fame o per asfissia; si passa alla sedazione profonda, e questo in qualche modo prefigura un salto di qualità. Ora pensiamo al caso, molto noto all’opinione pubblica, di dj Fabo: paralizzato e in gravi condizioni a seguito di un incidente, avrebbe potuto usufruire dell’interruzione del sostegno vitale e della sedazione palliativa profonda ma – con la sua scelta – ha prefigurato una situazione del tutto diversa: come valutare la posizione di chi lo aveva aiutato a raggiungere la clinica svizzera dove è stato aiutato a morire? La Corte Costituzionale si è espressa affermando che l’”aiuto al suicidio” non è punibile, se la persona aiutata ha deciso in autonomia, e se è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili. Una presa di posizione che ha sollevato perplessità: sia tra quanti vedono la strada spianata alla legalizzazione dell’eutanasia; sia tra i sostenitori di una piena autodeterminazione, che trovano discriminatoria la scelta di circoscrivere il diritto solo a chi dipende da una macchina. Quindi, come vedi, la materia è fluida, si presta a interpretazioni evolutive e prima o poi il legislatore dovrà mettervi mano. Direi che la partita non è chiusa.
Già la formulazione attuale, però, mi sembra dirimente in casi come quello che a suo tempo riguardò Eluana Englaro: non ci sarà più bisogno, per farsi riconoscere il diritto ad una morte dignitosa, di imprese eroiche come i “seimila giorni d’inferno” affrontati dal padre Beppino.
E’ così. Se si è provveduto a firmare e depositare la propria DAT, e quindi la propria volontà è esplicita, casi come quello non dovrebbero ripetersi. A proposito di questo, come anche del caso che citavo prima, vorrei dire che non c’è niente di male nel fatto che a volte si legiferi anche sulla spinta di episodi che hanno colpito profondamente l’opinione pubblica. Il problema è, piuttosto, che – venuta meno l’attenzione al “caso” esemplare – si dimentica che le questioni a cui la legge risponde sono ancora presenti nella vita di tutti i giorni.
Dopo tanto discutere, le DAT ci sono ma i cittadini non lo sanno (neanche io, fino a poco tempo fa) e non le usano. Nel frattempo la discussione si è spostata sul tema del suicidio medicalmente assistito, ma dell’applicazione di questa, che è una buona legge e prevede interventi importanti come le cure palliative, poco ci si occupa. Come se discutere sempre nuove leggi fosse più importante che far funzionare quelle che si sono ottenute. E questo è pericoloso, perché la mancata applicazione di questa legge può indurre persone sofferenti a credere di non avere alternative al suicidio.
Dicevi che la legge è largamente inattuata: perché non la si conosce abbastanza, e sono in pochi a sottoscrivere le DAT, o per una resistenza della professione medica, che vede in parte compromessa la propria autorità e tende ad ignorare le DAT?
E’ una bella domanda. Non ho riscontri empirici, ma l’idea che mi sono fatto è che la seconda ipotesi non si dà nemmeno, perché sono poche le DAT sottoscritte e presentate. Anche per ragioni che hanno a che fare con la burocrazia: non sono indifferenti la procedura né il contesto entro cui accedi a questo tipo di opportunità. Ti faccio un esempio: come sai adesso, quando fai la carta di identità, ti chiedono se sei disponibile alla donazione di organi, e questo è senz’altro un fatto positivo. Ebbene, qualche tempo fa in un seminario a cui partecipavo ci siamo trovati a parlare di questa cosa ed è venuto fuori che un numero significativo dei presenti, pur favorevoli e in teoria disponibili alla donazione, avevano negato il consenso. Perché? Perché il contesto in cui gli era stata posta la domanda (nell’ufficio anagrafe, senza preavviso, mentre pensavano a tutt’altro, ecc.) li aveva colti del tutto impreparati.

A pensarci bene, da un certo punto di vista la legge aiuta i medici a risolvere il dilemma di fronte al quale spesso vengono a trovarsi: se il malato terminale è molto sofferente, non risponde alle cure e non è più in condizione di comunicare ma ha espresso in anticipo la sua volontà è più facile per il medico scegliere strade come quella della sedazione.
Non ho conoscenza di studi dettagliati su questo, quindi posso risponderti solo in modo intuitivo: credo che sia vero quello che spesso si dice (lo si è detto anche prima della legge 219, in un’audizione della Consulta nazionale di bioetica presso la commissione Affari sociali della Camera), e cioè che decisioni del genere, volte a sollevare dal dolore le persone, venivano già prese prima ancora che la legge intervenisse a regolarle. Poi, certo, ci saranno anche medici che la pensano diversamente: vuoi per ragioni valoriali, vuoi per motivi che hanno a che fare con quello che Pierre Bourdieu chiamerebbe capitale simbolico:il fatto cioè che un’applicazione automatica delle DAT alleggerisce sì, la responsabilità del medico, ma al tempo stesso fa venir meno una sua prerogativa.
Quest’ultimo aspetto ha già avuto un suo peso a proposito della Interruzione Volontaria di Gravidanza: il fatto che, alla fin dei conti, la legge abbia dato alla donna direttamente interessata il potere di dire l’ultima parola non è stato ben accolto da tutti, una parte, almeno, dei professionisti lo ha vissuto come una spoliazione.
Certo. In definitiva, sospetto che tutte e tre le possibilità che ho citato (che alcuni medici facciano di più di quanto si dice, che altri abbiano obiezioni di valore e che altri ancora non rinuncino volentieri ad una prerogativa che fino a ieri è stata esclusivamente loro) abbiano un fondamento. Non mi piace fare provocazioni, e sopporto poco quelli che le fanno, ma credo che la tua considerazione chiami in causa quello che si chiama di solito paternalismo medico, cioè la situazione in cui il medico non è qualcuno che ti aiuta a portare avanti il tuo progetto di vita, ma colui che crede di conoscere meglio di te quali sono i tuoi interessi. A questo proposito direi che neanche la vicenda Covid19 ci ha aiutato: in quel frangente in molti abbiamo ritenuto di affidarci alla competenza degli esperti (e abbiamo fatto bene, perché tra tante emergenze fasulle quella era un’emergenza vera), ma una delega così piena – legittima e utile, a mio avviso, in circostanze eccezionali – rischia nel tempo di produrre un arretramento sul piano culturale, relegando in secondo piano il tema del consenso informato (che allora, dovendo vaccinare trenta milioni di persone in sei mesi, si ridusse a poco più che una formalità) e la necessaria critica del paternalismo medico. Cessata l’emergenza, bisogna smettere di pensare in termini emergenziali.
D’altra parte la critica dell’autorità, pensa per esempio a quello che sta accadendo a proposito della guerra, è sempre un esercizio piuttosto complicato.
Complicato ma indispensabile. E lo dico soprattutto rivolgendomi al pubblico dei lettori di Sedicigiugno, che è per lo più un pubblico di sinistra.