Di Roberto Lazzerini
[…] in periodo pasquale non c’è niente di più cristologico di un brano del libro, meglio dire del diario, di Pietro Chiodi (1915-1970), Banditi, se non si volesse tornare al prototipo supremo. Pubblicato nel 1946 ad Alba, ristampato a Cuneo nel 1961 ed infine pubblicato da Einaudi a Torino, nel 1975 (la copia che possiedo). Scritto tra il 1945 e il 1946, risale al 15 settembre del 1939, giorno in cui riceve la nomina di professore di filosofia e storia al Liceo di Alba e chiude i conti il 20 maggio 1945 come resistente partigiano con la trascrizione della relazione scritta dal medico di Carignano, dal Commissario prefettizio e dal parroco il giorno dopo l’esecuzione per impiccagione dei suoi compagni di resistenza, cui è riuscito a sottrarsi per una serie di circostanze fortunose, in seguito alla retata di qualche mese prima e il conseguente internamento in carcere. Tra di essi lo stimato collega di italiano e latino, il genovese Leonardo Cocito, di cui racconta due singolari episodi in servizio. Nell’atto di giuramento come professore, chiede al preside se sia necessario per avere lo stipendio, alla risposta ottenuta con un sorriso, legge, senza nulla omettere, tutta la lunga litania degli articoli e dei commi della normativa. Alla sollecitazione del preside di leggere soltanto la formula finale, il professore afferma di voler bere il calice fino alla feccia.

Qualche mese dopo, in servizio in biblioteca, alla richiesta di uno studente dei discorsi di Mussolini, il professore replica di non poterglieli dare perché lo studente non conosce il regolamento, in cui è scritto con grande chiarezza che è proibito dare ai giovani libri osceni. Questi due episodi illuminano la personalità di Leonardo Cocito, antifascista integrale ab ovo, non postumo e nella perdizione finale. Finirà impiccato, insieme ad altri compagni, da coloro, nazisti e fascisti della Repubblica di Salò, che chiamavano quelli come lui banditen, banditi da cui il titolo del diario, assunto come onorifico e con fierezza rispedito al mittente. Ancora ricordo la sorpresa con cui mi accertai del profilo dell’estensore del diario. Qualche anno prima avevo cominciato a leggere, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, la serie di saggi che il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) aveva raccolto nel 1950 con il titolo Holzwege, pubblicati come Sentieri interrotti dall’editrice La Nuova Italia nel 1968, per la traduzione e la curatela di Pietro Chiodi. Questi saggi, rivolti anche a non specialisti, nella traduzione erano corredati da un glossario ragionato che teneva conto, in via esplicativa, anche delle altre opere del filosofo e particolarmente della fondamentale Sein und Zeit (Essere e Tempo), che lo stesso Chiodi tradusse per Fratelli Bocca nel 1953, ripubblicò Longanesi e, per concessione, la UTET nel 1978, l’edizione che lessi poi dopo il Diario, che oltre alla sorpresa dell’identità del professore, mi rassicurò anche nelle mie letture heideggeriane. Non dubitavo dell’importanza di questo filosofo e dell’influenza che ebbe in tutta la filosofia del secondo Novecento, ma ero turbato dalla sua iniziale adesione al nazismo, con l’accettazione del rettorato di Friburgo nel 1933-34, da cui presto si ritirò e dal suo silenzio sulla catastrofe tedesca in seguito. Certo, avevo cominciato a leggerlo nella sua versione di redivivo, per usare un’espressione, ironica e giustamente malevola, di György Lukács (1885-1971), dopo l’interdizione e la sospensione dall’insegnamento (1945-1951), ma questa non mi impedì poi di leggere anche tutte le opere precedenti. Per la rassicurante ombra buona del professor Chiodi, resistente partigiano. Per il suo tramite, una nuova generazione di traduttori e interpreti ha potuto svolgere un proficuo lavoro filosofico, anche dentro le contraddizioni di quel filosofo. Interminabile. Un curioso episodio del Diario illustra l’ironia, anche nel pericolo estremo, del partigiano Valerio (alias di Chiodi). In uno dei tanti interrogatori subiti, dopo la retata sfortunata, un ufficiale tedesco, sorpreso dal fatto che il prigioniero rispondesse in tedesco, chiede cosa facesse nella vita civile.

Alla dichiarazione di essere professore e studioso di filosofia tedesca, l’ufficiale chiede di quale filosofo in particolare si occupi. Al nome di Martin Heidegger, l’ufficiale, rivolto a un collega, con una smorfia di disgusto e sprezzo, replica che l’autore in questione sarà senz’altro un comunista. Per contrappunto, richiamo l’operoso intrattenimento nel carcere romano di alcuni intellettuali arrestati, descritto con ammirata riconoscenza, nel libro di memorie di Claudio Pavone (1920-2016), La mia resistenza. Memorie di una giovinezza (Donzelli, 2015). Scritto nella vecchiaia, dal 2011, venti anni dopo il suo maggior lavoro di storico Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (1991), inizia a Roma, prosegue, dopo un arresto casuale mentre trasportava materiale politico clandestino, in diversi carceri da Regina Coeli alle fortezze emiliane, dopo oscuri presagi, incontri straordinari, stenti di salute e sforzi di sopravvivenza, si conclude con una fuga, in parte fortunosa in parte favorita, a Milano, nella fatale piazza Loreto dove pendono sfigurati i corpi di Mussolini e la sua amante Claretta Petacci. Il tutto all’ombra, sembra, dello zio paterno Giuseppe Pavone. Pluridecorato nella prima guerra mondiale, in brillante carriera fino alla Somalia, dove era entrato in conflitto con il comandante in capo Graziani, aveva scritto con ingenuità una lettera di critica della guerra coloniale ad un provocatore, che l’aveva inviata al capo del governo. Rimpatriato, rimosso dall’incarico, inviato in pensione, al tempo promosso generale di corpo d’armata. Vittorio Foa (1910-2008) al racconto dirà che sotto Hitler o Stalin sarebbe stato fucilato. Rifiutò anche le offerte di Badoglio che gli offriva per la collaborazione la prefettura di Cosenza e la vicepresidenza dell’Associazione Nazionale Combattenti. Era in ritiro nella sua casa avita di Torchiara, nel Salernitano, quando nel 1943 ricevette un’alta onorificenza legata al re e agli altri comandi militari che andavano tessendo una rete in vista del colpo di Stato che avrebbe rovesciato Mussolini. Prima dell’arresto, Claudio Pavone avvicinatosi con un amico al Partito Socialista, incontrò il filosofo Eugenio Colorni (1909-1944), studioso di Leibniz e fine pensatore non provinciale, estensore, tra altro, con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene (1941), nel luogo omonimo dove trascorrevano una villeggiatura fascista, che è riconosciuto come il manifesto fondatore dell’Unione Europea. Ebbene l’ebreo antifascista Colorni fu tutore per qualche tempo di questi giovani socialisti, il cui rammarico è quello di averlo avuto per un tempo limitato. Il filosofo, oggi poco studiato però, morì a Roma, nel 1944, assassinato da una squadra della famigerata Banda Koch. Se ho richiamato alcuni momenti della autobiografia di Pavone, l’ho fatto per riconnetterli a quell’insieme di fenomeni che lo storico Marc Bloch (1886-1944) chiamava il fenomeno delle generazioni lunghe che, a prescindere dai dati anagrafici, si formano quando si vivono insieme esperienze cruciali. Fenomeno che scorgiamo all’opera anche nell’esperienza di Pietro Chiodi. Il professore ebbe come allievo Beppe Fenoglio (1922-1963), che fu partigiano, anche se non garibaldino come il suo mentore, ma azzurro, una variegata area politica non comunista, la cui esperienza scolpì nel magnifico, indimenticabile romanzo Il partigiano Johnny, pubblicato postumo(1968), che bene avrebbe fatto il cineasta Guido Chiesa ad evitarne la traduzione filmica.

Tutto questo giro lungo per tornare all’esordio. Al ricongiungimento in me del traduttore e del partigiano, dello scrittore infine. Alla presenza del torturato, descritto con una vividezza impressionante da richiamare una qualche pittura capitale della Flagellazione del Cristo, più che la tortura di Giorgio Manfredi in Roma città aperta (1945)di Roberto Rossellini. Il 12 settembre del 1944, in un campo di detenzione tedesca, oltre Trento, un giovane detenuto tenta la fuga. I tedeschi gli sparano addosso, senza colpirlo. Tutti trepidano per lui. Verso le cinque del pomeriggio, un camioncino scarica il corpo nudo e pieno di lividi del ragazzo, piccolo di statura e magro. Le SS lo spingono fra urla e colpi di staffile. Lo legano poi ad un palo, issato in mezzo al campo, con le mani unite alla sommità, in modo che tocchi terra solo con la punta dei piedi. Di nuovo colpi di staffile, sotto cui il ragazzo sviene. Ha un cartello appeso al collo: sono ritornato dalla gita. Ha il capo reclinato sulla spalla destra. Il volto contratto negli spasimi di dolore, le costole sporgenti dal petto nella tensione del corpo, sulle gambe diritte e stecchite i piedi puntati a terra, i capelli arruffati gli nascondono in parte il volto. Ogni tanto un soldato lo colpisce con lo staffile e il corpo martoriato si contrae. Ecce homo! A sera viene slegato e gettato in una cella di punizione. Tutti, in silenzio, si privano della propria razione di cibo, nella speranza che le sia di aiuto per sopravvivere. Il racconto si sospende qui, con questa sfida ai guardiani. Senza nulla aggiungere sul destino del ragazzo.
Per evitare proprio questo, per combattere questo sistema di sequestro e distruzione degli oppositori, che alcuni ragazzi si trasferiscono in montagna: la città era inabitabile, la città era un’anticamera della scampata Germania, la città coi suoi bravi bandi Graziani affissi a tutte le cantonate, attraversata pochi giorni fa da fiumane di sbandati dell’Armata in Francia, la città con un drappello tedesco nel primario albergo, e continue irruzioni di tedeschi da Asti e Torino su camionette che riempivano di terribili sibili le strade deserte e grigie, proditoriate. Assolutamente inabitabile, per un soldato sbandato e pur soggetto al bando Graziani. Il tempo per suo padre di correre ed ottenere il permesso dal proprietario della villetta collinare, il tempo per lui di arraffare alla cieca una mezza dozzina di libri dai suoi scaffali, e di chiedere dei reduci amici, il tempo per sua madre di gridargli dietro: – Mangia e dormi, dormi e mangia, e nessun cattivo pensiero, – e poi sulla collina in imboscamento.
Li troviamo ancora più in alto della collina di Johnny il Partigiano, nell’Appennino Centrale, nello stesso anno, il 1944, i quattro giovani del film di Fabrizio Ferraro I morti rimangono a bocca aperta (2022, b/n. 84’), presentato in concorso alla edizione 17 della Festa del Cinema di Roma (13-23/10/2022). Questo cineasta eccentrico, filosofo del linguaggio, racconta di questi quattro fuggitivi in mezzo al candore della neve che occupa tutto la spazio del visibile, giovani partigiani, come tutti gli altri indesiderati d’Europa, camminano in mezzo alla natura, ai margini della storia che torna sempre con lo stesso ciclo immutabile: prima i profughi della Guerra Civile Spagnola, poi, pochi anni dopo tutti gli antifascisti europei, ebrei e stranieri, in fuga lungo i confini, ad ogni mossa nazista, ad ogni occupazione del folle delirio di conquiste del Reich Millenario (durerà tredici anni, per fortuna e disgrazia nostre) spostamenti, esodi, fughe. Walter Benjamin ne morirà. Ne moriranno milioni. Non accade altro che il lento avanzare nella tormenta, nel biancore accecante della neve, con il nemico in agguato che si fa sentire nei rumori delle armi, nei trasalimenti dei boschi. Eppure non si poteva restare in città: era chiaro a tutti. Nella distanza delle menti, occupate dall’invisibile in agguato, la distanza della mdp: alla sua vicinanza invece il corpo, poche volte, i corpi in tensione. Con una sorprendente apparizione: una ragazza, tra i cespugli. Nasce una discussione di chi essa sia. Spia o collaboratrice, divide il gruppo. Nasce il desiderio mimetico. Dentro un involucro fiabesco. Il giovane più audace del gruppo accetta la grazia, la gratuità dell’apparizione. Si fa compagno. Presta la voce al fuoricampo invisibile, e lo colma di poesia. Se i morti rimangono a bocca aperta, da lì uscirà la parola definitiva, forse, perché nella realtà vivente, palpitante c’è qualcosa che la parola non riesce a cogliere, la mdp gira nel vuoto colmo di allusioni, rimane nella distretta partigiana, arma anch’essa tra le armi. Ma in questa vicinanza e comunanza si distende l’ombra di una fraternità, di un amore.
p.s. tutte le opere citate in questo articolo si trovano ancora nelle librerie o nelle biblioteche, il film sarà proiettato il 25 aprile p.v., alla rassegna Martedì al cinema. Un altro cinema è possibile.