Noterelle Storia e Memoria

Non fu un pranzo di gala

Di Fabio Bettoni

Marcello Flores e Mimmo Franzinelli dedicano il terzo capitolo della loro Storia della Resistenza (Laterza 2019) al tema Resistenza e guerra civile. Siccome ritengo i miei quattro lettori dotati di una buona cultura storica, penso che i titolini dei cinque §§ che formano il capitolo permetteranno loro di approssimarsi facilmente agli scenari ivi illustrati, eccoli: Chi tradisce chi: battaglia e strage di Cefalonia; La Resistenza degli internati militari; La Resistenza nel confine orientale: la battaglia di Gorizia; Le foibe istriane del 1943; Le quattro giornate di Napoli.

Una venticinquina di pagine che gli Autori concludono (p. 75) in maniera paradigmatica: «Anche solo a scorrere nomi, luoghi, partecipanti  dinamiche delle azioni di lotta e di contrasto all’occupazione tedesca avvenute nel mese di settembre [1943] – e di cui qui se ne sono ricordate pochissime tra le più importanti – si può concludere con quella che oggi sembra una constatazione ampiamente condivisa: la Resistenza è stata molteplice, articolata, sfaccettata, è stata l’insieme di scelte e comportamenti differenti che si sono intrecciati e sommati in un arco di tempo molto compresso (venti mesi). Anche solo nel primo caotico mese essa ha avuto tappe e tipologie diverse, che si sono accavallate nel tempo con grande rapidità e che hanno mostrato la versatilità e l’ampiezza delle possibilità di lotta e solidarietà nella battaglia contro il nazifascismo. Nei mesi successivi prevarranno tipologie più marcate e definite, che diventeranno più facilmente il simbolo – anche visivo, anche nell’immaginario – di tutta la Resistenza. L’ampiezza e la diversità che si manifestano in questo primo mese, di reazione all’occupazione tedesca ma anche al ritorno in forma di regime collaborazionista di Mussolini e dei  fascisti, e di lontananza, ostilità, e disagio per il comportamento della monarchia e dei comandi militari, rimarranno comunque un segno distintivo che la Resistenza si porterà dietro in tutti i venti mesi che condurranno alla Liberazione. Ogni partigiano, patriota, armato o disarmato che sia, soprattutto in queste prime settimane, ha una propria idea di cosa significhi resistere al nazifascismo, all’occupazione, al disonore, alla vigliaccheria. Ma tutti hanno in comune un obiettivo semplice e chiaro: la riconquista della libertà, la fine dell’incubo totalitario in cui è precipitata l’Europa intera tra il 1939 e il 1943».

Lette queste righe, i miei quattro lettori saranno subito andati con il pensiero ad un libro fondamentale: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, che Claudio Pavone pubblicò nel 1991 (Bollati Boringhieri) suscitando un dibattito molto acceso ma anche un ancoraggio analitico insuperabile e, direi, intramontabile. Una recentissima pagina di Chiara Colombini dell’Istituto “Giorgio Agosti” ne restituisce il nucleo interpretativo: Pavone «ha scritto che nella Resistenza si possono individuare tre guerre diverse: una guerra di liberazione (o patriottica), una guerra civile, una guerra di classe. Tre guerre diverse unite in un intreccio nel quale una non esclude l’altra e anzi spesso l’una si sovrappone all’altra con combinazioni variabili tanto per le formazioni partigiane che per i singoli combattenti. E ha tracciato uno schema che aiuta a orientarsi. Delle tre guerre, i partigiani ‘autonomi’ ne combattono essenzialmente una, quella patriottica: per loro quel che importa è cacciare i tedeschi occupanti, mentre come progettare l’Italia  del domani, cosa fare dell’eredità fascista sono problemi da porre successivamente. I componenti delle Gl [brigate di Giustizia e libertà/Partito d’Azione] ne combattono due: vogliono cacciare i tedeschi, ma per loro è centrale sconfiggere i fascisti e il fascismo, sradicarne tutte le cause culturali, sociali ed economiche per edificare un’Italia completamente rinnovata. I garibaldini [principalmente comunisti, ma non solo] le combattono tutte e tre: oltre che nelle prime due, si impegnano anche in una guerra di classe; in sostanza per loro abbattere il fascismo non è sufficiente ed entra in gioco il sogno della rivoluzione che rovescia il capitalismo.  […] Se dal piano dei partiti e di quanti agiscono animati da una precisa consapevolezza politica ci si sposta a quello di chi un’idea definita non ce l’ha, si può comunque individuare un tratto comune robusto, che è dato dalla decisione di ribellarsi, di difendere sé e gli altri da un pericolo incombente e dalla paura, nonché dalla voglia di tornare a vivere in pace in un mondo senza più l’arbitrio e la violenza dei tedeschi e dei fascisti. Forse si potrebbe chiamarla ‘ansia di libertà’» (si veda Anche i partigiani però …, Laterza 2021, pp. 32-33).

Ciò che si volle simbolizzare con la data del 25 aprile 1945, giorno del proclama insurrezionale del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) che preluse alla fine del terribile incubo sancita il 29 successivo con la resa dei nazisti firmata a  Caserta e a Castiglione delle Stiviere (Mantova), non fu un pranzo di gala. Nel contesto della guerra mondiale e della guerra civile europea, a proposito della quale mi pare opportuno leggere A ferro e fuoco di Enzo Traverso (2007, il Mulino), la guerra civile italiana comportò, per quanti si mobilitarono e solidarizzarono nel segno antifascista e della libertà, un bilancio senza dubbio assai pesante. Secondo l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (https://www.straginazifasciste.it/) tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, si ebbero 5.862 eccidi, nei quali morirono 24.384 persone per il 53 per cento civili, per il 30 per cento partigiani, con una media di 40 uccisi e oltre 9 episodi al giorno. Gli stragisti furono: nazisti nel 66 per cento dei casi, soltanto fascisti per un 22 per cento, nazi-fascisti per un altro 14 per cento. Non tutti gli eccidi furono ritorsivi, cioè risposero a logiche di rappresaglia rispetto ad altrettanti atti di guerriglia: infatti la logica di fondo fu sempre quella tendente ad eliminare qualsiasi impedimento reale o potenziale interferisse con l’occupazione della Penisola. Certo, per il 70 per cento dei casi l’obiettivo stragistico furono i partigiani, ma c’era il resto del mondo: perché la guerra civile fu anche guerra contro i civili secondo tre infiniti categorici: annientare, bombardare, sradicare (Traverso, pp. 91-110).

Vediamolo, dunque, questo “settanta per cento”, fatto di avventurieri e rubagalline, protagonisti di una guerra inutile, vigliacchi che colpiscono i nemici a tradimento, terroristi. Volendo delineare la figura “idealtipica” (chiaro il rimando a Max Weber) di questo fulcro della guerra civile, Traverso non poteva prescindere dalla Teoria del partigiano che Carl Schmitt elaborò nel 1932, ovvero dentro l’età della guerra totale (elaborazione ripresa nei 1962-65, v. Adelphi 2005 presente in rete). (Non c’è da rimanere perplessi, se uno studioso ben agli antipodi del cattolico ultraconservatore Schmitt, profeta “apocalittico della controrivoluzione”, per dirla con il teologo ebreo Jacob Taubes, pensatore orientato a definire la “transizione concettuale della controrivoluzione classica al fascismo”, come sottolinea lo stesso Traverso in Rivoluzione, 1789-1999 un’altra storia, (Feltrinelli 2021), altri prima di Traverso tentarono d’intrattenere un confronto su rivoluzione e controrivoluzione, si pensi a Walter Benjamin, ebreo e comunista.) La figura “idealtipica” del partigiano nello schema Schmitt-Traverso risulterebbe così: «Si tratta innanzitutto di un combattente ‘irregolare’, distinto quindi dal soldato che indossa l’uniforme. La sua lotta si nutre di una motivazione profonda legata a un impegno politico intenso […]. Si caratterizza anche per la sua mobilità, velocità e alternanza improvvisa dell’attacco e della ritirata, in quanto l’azione dei partigiani è quasi sempre coordinata con quella di un esercito regolare che vuole appoggiare. Il partigiano presenta infine, secondo Schmitt, un carattere ‘tellurico’: nella maggior parte dei casi egli è profondamente radicato in un territorio che vuole liberare e la sua azione è favorita dai suoi legami con la popolazione locale. […  rispetto alla quale] agisce come ‘tecnico dell’azione clandestina’ e come ‘sabotatore’. Il partigiano è quindi una figura centrale in una guerra in cui tutti rivendicano una ‘justa causa’ ma non conoscono un ‘justum hostem’. La Seconda guerra mondiale esalta all’estremo sia i tratti del ‘guerrillero’ liberatore sia quelli del combattente politico, tratti che, convergendo, assicurano al partigiano un ruolo fondamentale, conferendogli spesso un’aura mitica» (p. 73). A  voler definire l’“anatomia della guerra civile” (pp. 61-89), sono da segnalare: l’anomìa, che ne forma il primo segno, ad essa connettendosi l’agire del partigiano, dell’irregolare di parte, e la violenza: che Traverso vede nel duplice aspetto di “violenza calda” e “violenza fredda”, nonché alla modificazione sostanziale del profilo della dittatura, la quale, da sospensione temporanea del diritto e limitazione delle libertà individuali altrettanto temporanea e autorizzata dalle istanze legittime dello Stato, si trasforma in potere carismatico, cesaristico, dell’uomo provvidenziale. Quanto al connotato “freddo” della violenza, esso imprime il marchio alla guerra totale che attraversa l’Europa dal 1914 al 1945, quale espressione moderna e tecnologica della società industriale; e forma il contesto nel quale si dipanano le molteplici guerre civili: dunque, confrontare caratteri e dinamiche dell’una e delle altre consente di coglierne meglio le differenze. Quanto al connotato “caldo”, esso è regressivo rispetto ad ogni processo di civilizzazione, ad ogni controllo delle pulsioni, presenta una forte dimensione simbolica, in una logica nella quale l’avversario deve essere (p. 79) «sterminato e umiliato pubblicamente ed esibito come un trofeo di guerra. Così nazisti e fascisti impiccavano i partigiani appendendoli per i piedi o trascinandoli con uncini come si fa nelle macellerie.

Questa violenza genera inevitabilmente una controviolenza che ne riproduce certi tratti, anche se perpetrata da forze che proprio dal rifiuto morale di tali atti traggono la loro legittimità. Così il cadavere di Mussolini viene linciato dalla folla e poi appeso per i piedi in piazzale Loreto a Milano, il 29 aprile 1945. […] Il bene e il male coesistono nella guerra civile come i poli di un campo magnetico, mostrando così, di fronte all’estremo, che la natura umana è sempre fatta di una miscela di entrambi»

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