A scuola di...

Una scuola di domande

Di Sabina Antonelli

Questo non sarà un articolo come tutti gli altri. Non sarà discorsivo, argomentativo, informativo, espositivo, regolativo e chi più ne ha più ne metta. Sarà solo un insieme di domande, a volte senza risposte, ma importanti per vari motivi.
Fare domande, è uno dei modi che abbiamo a disposizione per conoscere e riflettere. Domandare è il verbo della curiosità quindi è il verbo bambino per eccellenza. È un verbo che non si accontenta, che si aggancia alle nostre diverse forme di intelligenza, che implica una relazione in quanto correlato alla capacità di ascolto. Fare domande sospende il giudizio, non impone ma apre possibilità e conversazioni, quindi coinvolge e fa sentire liberi. Le domande stimolano a trovare soluzioni e risposte, sostengono la motivazione personale, aiutano a crescere. Paul Harris, psicologo di Harvard, ha dimostrato che un bambino di scuola dell’infanzia, tra i tre e i cinque anni, pone circa 40.000 domande con una media altissima al giorno. Famiglie e maestre lo sanno molto bene. Peccato che già alla scuola secondaria di primo grado, ragazzi e ragazze diminuiscano fortemente la loro curiosità con un calo veramente sostanziale di domande. Ce la sentiamo di imputare tutto ciò alla maggiore conoscenza che hanno acquisito o dovremmo, noi insegnanti, farci la domanda delle domande “Perché il loro desiderio di sapere, di scoprire, di conoscere è così diminuito?”. Forse, a volte, la nostra scuola, penalizzando le risposte sbagliate, li allena solo a dare risposte corrette, giuste, decise peraltro da curriculum calato dall’alto, trovate nei testi scelti da noi adulti, considerate tali per convenzione, per paura del diverso, per facilità, spegnendo così la loro capacità di porre domande e quindi limitando lo sviluppo del pensiero critico. Detto questo vi lascio alla lettura di questo mio nuovo “articolo”.

***

Spesso mi domando quale sia il tempo educativo. È quello delle discipline? Dell’orario di servizio delle e degli insegnanti, di un tempo scuola non flessibile? Oppure è quello dei bambini, delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze? Qual è il messaggio sottinteso in questo tempo diviso, limitato, incasellato in uno schema concordato a monte, addirittura prima di incontrare la classe con tutte le sue variabili e le sue diversità, che noi utilizziamo nel nostro lavoro?
Perché non insegniamo il vero valore del tempo? Quello che conta i giorni e le notti tra semina e raccolto. Quello che passa e regala rughe alla pelle dei vecchi. Quello che canta nella solitudine, grande maestra di vita, per capire che non dobbiamo sentirci soli ma dobbiamo essere capaci di stare anche da soli, di annoiarci, apprezzando “quel non dover fare” che ci aiuta nella costruzione del nostro pensiero, guardandoci dentro e intorno e potenziando lo sguardo sulle piccole cose.
Perché noi adulti per primi temiamo l’errore, la fine delle cose, quei gesti, quelle azioni, quei percorsi di vita che ci sembrano inutili, sprecati? Come se “il fare per fare” non solo non sia importante ma addirittura controproducente. Faccia perdere tempo e renda difficile raggiungere gli irrinunciabili obiettivi prefissati.
Perché fermare la scansione predefinita delle nostre progettazioni per guardare il cielo, camminare a piedi nudi su un prato, ascoltare i suoni del mondo, le mille parole e i mille silenzi dei nostri alunni? Non ce lo possiamo permettere. Addirittura non serve! Ci mette ansia “come farò a finire il programma?” Ma di quale programma ancora vogliamo parlare?
A scuola dovremmo insegnare tante cose oltre le tabelline, la grammatica, la storia, le scienze e tutto il resto. Siamo sicuri di saperlo e, soprattutto, volerlo fare?
Perché non insegniamo ai nostri alunni come trasformare gli errori in opportunità? Perché non insegniamo loro che il coraggio nasce sempre dalla paura e cammina a fianco della consapevolezza di sé e degli altri? Perché ci spaventa educarli all’improvvisazione oltre che alla regola, alla flessibilità oltre che alla coerenza, alla creatività insieme alla razionalità?

Cosa ci spinge a far credere a bambini, bambine, ragazzi e ragazze che l’unica cosa che conta è essere i primi, i più bravi, i migliori? Come possiamo averci creduto anche noi?

Basta guardarci intorno per capire quanto sia deleterio questo mantra. Sentiamo in continuazione notizie raccapriccianti di studenti che addirittura rinunciano a vivere perché si sentono inadeguati, falliti, perduti per sempre se non rispecchiano quelle aspettative condivise dai più, che abbiamo mostrato come uniche, necessarie, vincenti.

Perché ancora parliamo di voti, di esami, di prove? Quante prove ha già attraversato un bambino che vive in condizioni difficili, in situazioni familiari deprivate, ai margini di una società che non lo riconosce come soggetto di diritto? Penso ai bambini nati qui in Italia da genitori di altre nazionalità, che non hanno la cittadinanza. A quelli arrivati via mare o via terra affrontando ciò che noi, nelle nostre vite, non possiamo nemmeno immaginare e che si trovano senza radici, senza appigli, senza quella coperta di parole, suoni, colori, immagini che li proteggeva nella loro vita precedente. Hanno veramente bisogno di essere messi alla prova? Ma anche uno dei nostri figli o noi stessi…
A voi non sarebbe piaciuto crescere in una scuola in cui si poteva essere liberi di scoprire, conoscere, sperimentare, confrontarsi, scegliere ed imparare avendo con un rapporto aperto, diretto e sereno con maestre, insegnanti e professori, senza voti, senza l’ansia delle interrogazioni, senza la paura degli esami?
E ancora, perché non siamo noi (insegnanti, educatori, dirigenti, personale scolastico) insieme a nostri bambini e ragazzi, a cambiare questa scuola? Partendo dal quotidiano, scegliendo princìpi ispiratori, valori, metodologie, organizzazione ecc… Perché abbiamo bisogno che ci vengano date, dall’alto, riforme, indicazioni, vie da seguire, programmi?
Qual è il vero compito di un insegnante? Far sì che le persone si adattino e accettino i valori dominanti di una società perché possa mantenersi salda e perpetuarsi nel tempo nonostante le storture, le ingiustizie, le incongruenze, trasformando cultura ed educazione in merce da “spendere” sul mercato, o lavorare perché quelle stesse persone possano crescere in un ambiente sereno, abbiano capacità critica, sappiano scegliere e percorrere più strade, aperti alle contaminazioni, felici delle mescolanze, curiosi del mondo, attenti al rispetto dei diritti di tutti, nessuno escluso?
Al di là delle risposte che ciascuno potrà darsi, voglio porre a voi e a me stessa, un’ultima domanda. Perché non riusciamo a diventare una vera e propria comunità educante? Perché non sentiamo forte la necessità di costruire una scuola diversa, diffusa nel territorio, aperta alle possibilità, in cui ognuno si senta coinvolto, partecipe, attivo?

Nel 2018 è stato pubblicato il Manifesto dell’Educazione Diffusa, da una proposta di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli, contenuto nel libro “Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso” (Terra Nuova Edizioni) in cui i due co-autori illustrano i principi base per l’applicazione pratica di questo approccio o via pedagogica che rompe i paradigmi tradizionali dell’educazione. Il Manifesto è stato redatto in collaborazione con Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati, Comune-info.
È una proposta. Uno spunto da cui si può partire. Una sfida che coinvolge scuola e territorio. Una visione condivisibile o meno ma che, nonostante abbia già 5 anni, è, secondo me, ancora attuale e ricca di scintille. La scuola deve essere di tutti. Non solo di bambini/e, ragazzi/e e personale scolastico, perché è la ricchezza del nostro futuro, quello dei nostri figli e dei nostri nipoti ma anche quello delle generazioni che verranno e che non conosceremo mai. Abbiamo il dovere di costruire un mondo diverso ed io sono convinta che la porta da spalancare sia propria quella delle nostre scuole. (S.A.)

Il Manifesto Dell’Educazione Diffusa
L’educazione diffusa è un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo. La scuola dove ridursi a una base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi e bambini stessi.
All’apprendimento chiuso e iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e a interrogarsi.
È un atto politico portare questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio. L’educazione diffusa pone al centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.
L’educazione diffusa ribalta l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento duraturo. L’educazione diffusa libera i bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per offrire il proprio contributo alla società.
L’educazione diffusa è un reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano, danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.
L’educazione diffusa sradica la malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e correggibile
L’educazione diffusa vede gli insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane, sostenitori, trainers, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi avvizziscono.
L’educazione diffusa chiama tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.
L’educazione diffusa trasforma il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno monetario.
Nell’educazione diffusa si assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile, finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti portatori di un’inconfondibile identità planetaria.
Per iniziare a sperimentare l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.
Con l’educazione diffusa ognuno viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico, familiare, religioso, aziendale) contro ogni discriminazione e contro ogni censura di qualsiasi tipo».

Le Azioni di educazione diffusa

Costruire la rete di Educazione Diffusa e Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe, mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali e culturali, professionisti, singoli cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di istruzione).

Avviare incontri di auto-formazione tra scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.

Elaborare, come gruppo di supporto della sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri, biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli enti locali che in quanto cittadini autorganizzati.

Dirottare le risorse dedicate alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della città in educanti.

Avviare la sperimentazione includendo anche una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con associazioni di genitori e realtà sociali locali.

Monitorare il percorso sperimentale attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali, regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le azioni di educazione diffusa.

Stimolare e promuovere politiche dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali, sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.

Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo all’interno della comunità educante.

Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e bambine, ragazzi e ragazze.

Strutturare in dettaglio i processi di partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei loro quesiti desiderosi di risposte.

Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città.

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